C’è tutta una storia nel “forno a legna”

image_pdfimage_print
[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Il nostro incessante girovagare fra i Saperi e i Sapori d’Italia, si arricchisce in questa occasione di una nota assai valida e approfondita sul “forno a legna”, autentica fucina di tante tradizioni locali. Lo scritto è di Silvestro Faiato ed è tratta da “Benevento”, il giornale dell’amica Biele. Leggiamolo insieme:

“Nei nostri percorsi tra le realtà contadine del Sannio abbiamo notato come i/ forno a legna fosse legato a tradizioni nonché ad elementi logistici cioè una sorta di mix tra funzionalità, usi e consuetudini. Originaria mente il forno a legna era all’interno della casa, a fianco del camino domestico. Ma, col tempo si preferì fabbricarlo all’esterno (per scongiurare i rischi di incendi), collocato come ancora oggi in molte nostre realtà un’apposita piccola costruzione con portichetto antistante dove c’era il deposito degli stecchi e della legna, anzi qualche volta abbiamo notato anche la lavanderia a fianco, la porcilaia sotto e il pollaio sopra ( specialmente nella zona del Fortore).

Dalla bocca del forno iniziava la volta o camera di cottura. Era questo uno spazio sufficientemente ampio per potervi addossare alle pareti gli stecchi e i pezzi di legna, fare fuoco, ricavarne le braci, scaldare il forno e una volta ben caldo, contenere il pane da cuocere. Il piano del forno (detta da molti contadini platea) era una costruzione ellittica, lastricata di pietre arenarie o di sasso (Antonio Martone di Bonea ci diceva che sono sconsigliabili i mattoni perché asciugano troppo il pane e facilmente lo bruciano). La volta, quella si era di mattoni saldati e stuccati con il gesso non troppo alta per mantenere più a lungo il calore. La bocca (abbiamo notato che il più delle volte è proporzionata alla volta) tanto grande da essere comoda per infornare, si chiudeva con una portella di ferro. Il forno, acceso con l’attizzatoio (il più delle volte non è altro che un solfano o stecco di canna, il nostro Antonio a volte usa della canapa imbevuta nello zolfo) bruciava prima gli stecchi e poi si portava alla temperatura voluta, consumando legna scelta e ben stagionata.

L’operazione di riscaldamento richiedeva un certo tempo: circa due ore. Quando era pronto, caldo al punto giusto (Antonio ci diceva che conviene arrivare ad oltre 2500, perché nel togliere la brace, nel pulire la platea e nell’immettere il pane parte del calore va perso) si toglieva un terzo circa delle braci con il tirabrace, il resto si accantonava sul fondo del forno, per mantenere il calore. Prima di infornare era necessario pulire il piano passandovi sopra lo spazzaforno ( molti lo facevano con uno spazzolone involto di stracci appena inumiditi).

In alcune nostre realtà contadine ancora oggi si fa il pane in questo modo per una intera settimana e alcune volte anche per parenti e amici. Abbiamo provato quel pane e possiamo sicuramente assicurarvi che ha un sapore diverso del tutto ancestrale.”

  • Facebook
  • Twitter
  • Delicious
  • LinkedIn
  • StumbleUpon
  • Add to favorites
  • Email
  • RSS

Comments are closed.

Post Navigation