Linea – Aiutiamoli a casa loro – Verità sugli immigrati

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24 ottobre 2003

Tra le tante analisi che stanno venendo alla luce nell’accesissimo dibattito in corso sulla immigrazione extra comunitaria nel nostro Paese, una ce n’è che andrebbe approfondita; e che, sia detto subito, non gioca affatto a favore dell’inserimento definitivo di quella immigrazione in Italia (anzi! come vedremo).
Si tratta della “qualificazione” di quegli immigrati, dei loro titoli di studio, delle loro competenze e capacità professionali.
Che sono assai più elevate di quanto comunemente si creda e di quanto fanno supporre i “lavori” che essi svolgono in Italia.
Per la verità, un qualche nostro lettore attento, ricorderà come sulle colonne di questo giornale, noi, quelle “caratteristiche” le abbiamo spesso colte e sottolineate.
Per sostenere le “nostre” tesi in materia e non quelle di chi vuole – adesso, con Fini in testa! – una società ampiamente multietnica.
Perché non ha senso, è privo di logica, è davvero assurdo vedere un negro che è laureato in medicina ridotto a raccogliere pomodori in Campania o uva in Puglia.

E tanto più insensato, tanto più illogico e assurdo lo è, quando poi si sa che nel paese di quel negro o arabo, raccoglitore di ortaggi o lavapiatti, i medici mancano drammaticamente. Se possono giovare le esperienze personali, ricordo che durante un viaggio in Africa con una delegazione di parlamentari europei (nell’ex-Rhodesca, in Tanzania, nel Botswana) proprio questo tutti notammo, tra l’altro: le difficoltà estreme del lavoro dei medici europei, pochi rispetto ai bisogni di quella povera gente. Molti di quei medici erano italiani, che prestavano la loro opera preziosa nelle Missioni rette da sacerdoti e monache del nostro Paese.
Ebbene: un medico italiano lì, costa sui 10 milioni al mese.
Mentre il negro di quel Paese laureato in medicina (quasi sempre in Italia) si trova poi ridotto a lavare i piatti e a raccogliere ortaggi.
Ecco perché ci siamo sempre battuti per la tesi di “aiutare il Terzo Mondo a casa sua”, senza farcene invadere e sommergere e senza risolvere, per di più, neanche i suoi problemi. Inserendo ovviamente nel concetto dell’aiutarli a casa loro (per creare in loro sviluppo economico e coesione sociale, cosa che altrimenti, con gli aiuti del tipo attuale come è evidente, non si ottiene) anche la prassi della utilizzazione sul posto delle competenze professionali e tecniche dei loro elementi più preparati.
Il “Corriere-Economia” di qualche giorno fa, scopre il fenomeno e vi dedica una intera pagina, documentatissima e ricca di nomi, cognomi ed esempi concreti, a firma di Cecilia Zecchinelli, nonché un articolo editoriale di Walter Passerino, intitolato “Da utili invasori a cittadini”.
Il 30% degli extracomunitari ha un titolo di studio superiore. Ma noi, qui in Italia, li utilizziamo poco e male.
E perché “qui in Italia”?
Perché non utilizzarli, non usare le loro competenze e professionalità nei loro Paesi, terribilmente privi proprio di medici, biologi, tecnici dell’informatica, eccetera?
Aiutiamo sul serio, aiutiamo in prospettiva, quei Paesi “risucchiando” noi i loro elementi migliori e più preparati; o non li condanniamo noi, così facendo, ad un sottosviluppo ancora più pesante?

Pino Rauti

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