Una volta – diciamo, nel tempo fra le due Guerre Mondiali – tra le tante "divisioni" che esistevano sulla Terra, una ce n’era, sulla quale tutti erano d’accordo: che nel mondo occidentale e in particolare in quello europeo la corruzione era ridotta al minimo ed era comunque marginale rispetto al normale funzionamento degli Stati


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Una volta – diciamo, nel tempo fra le due Guerre Mondiali – tra le tante “divisioni” che esistevano sulla Terra, una ce n’era, sulla quale tutti erano d’accordo: che nel mondo occidentale e in particolare in quello europeo la corruzione era ridotta al minimo ed era comunque marginale rispetto al normale funzionamento degli Stati.

Non è che mancassero gli scandali, sia chiaro. Ogni tanto ne scoppiava qualcuno, anche di enorme dimensioni; ma era, diciamo, l’eccezione rispetto alla norma; e la norma era rappresentata da una generalizzata corretta amministrazione, specie a livello di “casa pubblica”. In breve, e come esempio: era impensabile che un funzionario austroungarico (o prussiano o anche inglese o italiano) fosse corrotto.

Si era invece tutti d’accordo nel ritenere che la corruzione, anche quella corrente e “spicciola”, intrecciata persino nelle minime evenienze del vivere quotidiano e del tessuto sociale, fosse enormemente più diffusa in tutto il resto del mondo; nei Paesi “coloniali” (e lì c’era spesso la complicità dei bianchi) o ancor più in quelli indipendenti, dall’Etiopia a tutto il Sud America.

E adesso?

E’ il caso di dire: come sono cambiate – anche su questo versante – le cose!

Adesso la corruzione è generalizzata, dovunque e ad ogni livello.

Anzi, è proprio nei Paesi dove c’è più “finanza” che non solo scoppiano con frequenza scandali coloniali con il coinvolgimento di centinaia di affaristi ma si assiste ad una corruzione “corrente”, quotidiana e spicciola. Proprio quella che, una volta, invece, non c’era.

La prova?

Ogni anno – e sempre di più se ne parla e se ne scrive – viene celebrata a cura delle Nazioni Unite “la giornata mondiale contro la corruzione”; che evidentemente non ci sarebbe, se le cose non stessero, non andassero, come dicevamo sopra.

Non solo. C’è un’ apposito Ente che fornisce, in merito, cifre e statistiche. E redige addirittura una “graduatoria” mondiale in merito; si chiama “Trasparency International” ed opera da dieci anni.

Attualmente, sta facendo circolare, anche sulle TV nostrane, uno spot-slogan che dice: “La corruzione ci toglie sempre qualcosa. A volte anche la vita”; che ci sembra proprio che non manchi di una triste attualità.

Una cifra, adesso: qualcosa come 400 miliardi di dollari sono la cifra alla quale ammontano “le tangenti pagate ogni anno nel mondo” (ovviamente, quelle di cui si è venuti più o meno a conoscenza; perché poi, lì più altrove, ci dev’essere un ancor più consistente “sommerso”).

Ora, secondo il più recente Rapporto di “Trasparency” (ce ne informa il “Corriere della Sera” in una nota siglata L. Sal.) l’Italia si trova al 42esimo posto per indice di corruzione percepita.

“La classifica è stata costruita non sulla base di dati giudiziari ma intervistando esperti del mondo degli affari e delle istituzioni. Tra i 146 Paesi presi in considerazione, il più virtuoso è la Finlandia (voto 9,7 su 10), seguita dalla Nuova Zelanda. All’ultimo posto Haiti e Bangladesh con 1,5. Davanti all’Italia (un punteggio di 4,8; 18esimo posto nell’Unione europea) ci sono tra gli altri Cile, Barbados, Estonia, Giordania, Tunisia e Costa Rica”.




Il ministero degli Interni spagnolo ha “blindato” con un decreto di urgenza tutte le frontiere ("terrestri, marittime e aeree") per bloccare l’immigrazione clandestina


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Il ministero degli Interni spagnolo ha “blindato” con un decreto di urgenza tutte le frontiere (“terrestri, marittime e aeree”) per bloccare l’immigrazione clandestina.

Negli scorsi mesi, sono stati bloccati 73.747 “irregolari” provenienti un po’ da tutto il mondo; e si calcola che almeno oltre 50.000 persone siano riuscite a raggiungere il territorio spagnolo.

Trecento agenti di Polizia – precisa la stampa spagnola – saranno addetti ai nuovi servizi di blocco. E si fa anche notare che i “costo medio di ogni espulsione” è diventato altissimo; comporta, in euro: 2.000 euro verso il Senegal; tra i 1.389 e i 1.863 verso la Romania; e quasi 4.000 verso l’Ecuador.

Sono stati enormi; ed è in atto, scrivono i giornali, una “invasione strisciante”.

Di soli bloccati, si può calcolare 303 arrivi al giorno; 12,6 persone ogni ora; 1 ogni 5 minuti.




Quando si parla di clima, c’è un dato da tener presente: che nella regione artica, il clima si scalda due volte di più che nel resto della Terra


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Quando si parla di clima, c’è un dato da tener presente: che nella regione artica, il clima si scalda due volte di più che nel resto della Terra. Questo è il dato che viene invece sottolineato nell’ultimo Rapporto dell’Artic Climate Impact Assessment – Valutazione dell’impatto climatico nell’Artico, che è l’Organizzazione di esperti dei Paesi intorno all’Oceano dei ghiacci. Si tratta di Canada, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Norvegia, Svezia, Stati Uniti, più il “Nunavut”, o nazione degli Inuit. Il Rapporto è frutto di 4 anni di lavoro e consiste di 144 pagine, redatte ad opera di 300 specialisti.

Se ne parla a Reykjavik (Islanda) al Consiglio per l’Artico.

Le proiezioni a lungo termine sono “devastanti” ma anche l’attualità è assai preoccupante per quanto concerne l’assottigliamento del «permafrost», lo strato di terra perennemente ghiacciato.

In America c’è crisi anche nelle aziende del “software”, dove sino a poco tempo fa c’erano utili elevatissimi. La causa della crisi?

La delocalizzazione. Che è avvenuto prima verso il Messico e ora verso le Filippine, l’India e la Cina, dove si ricorre al lavoro di laureati che costano dalle cinque alle venti volte meno che negli Stati Uniti. Si è cominciato con i cosiddetti “call center” (i servizi di assistenza per i clienti) e adesso siamo alle “filiere” che progettano le nuove generazioni dei microprocessori.

Negli ultimi due anni sono stati persi quasi 500 mila posti di lavoro, dalle “aree high-tech” di Boston, Dallas e di San Francisco.

E così – anche sa alla notizia è stato dato poco rilievo, causa elezioni in USA – l’Uruguay si è dato un Presidente di sinistra. Ed è la prima volta nella sua storia. Il nuovo eletto, Tabare Vazquez – ex sindaco di Montevideo – disporrà anche di una notevole maggioranza parlamentare, nonostante abbia ottenuto solo il 51% dei suffragi.

L’Uruguay? È così piccolo e lontano, diranno certamente in Italia, specie nei dintorni di Palazzo Chigi e della Farnesina.

Errore grave.

Il risultato uruguayano è importante nell’ambito e per l’avvenire del “Mercosur”, il mercato comune regionale che riunisce – oltre all’Uruguay – Argentina, Brasile e Paraguay. Il ministro argentino degli Affari Esteri, Rafael Biella, alla vigilia delle votazioni, ha affermato che se Vazquez avesse vinto “tutta la Regione slitterà a sinistra”. Adesso, però, la partita è aperta nell’ambito del variegato schieramento che ha eletto il nuovo presidente, che appare, personalmente, come assai “moderato” rispetto ai filoni ultrà che vengono dall’esperienza armata dei Tupamaros. I quali si fanno forti della gravità della crisi economica fra i 3-4 milioni di abitanti. Una crisi che si trascina dal 2002, che si sta aggravando e che ha raddoppiato il numero dei poveri rispetto al 1999.

Ce ne sono, adesso, 805.000……….




Etiopia 1941. Inferno a Culqualber


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“Il carabiniere” è stato l’unico giornale – per quanto è a nostra conoscenza – che abbia, ricordato a suo tempo, quel novembre del 1941, quando a Culqualber  fu piegata l’ultima resistenza italiana in Etiopia. Una pagina gloriosa, scrive Marco Martelli – un episodio che vide i Carabinieri, chiamati a presidiare un valico di montagna che difendeva Gondar. Lo difesero da eroi; morirono quasi tutti. Ecco l’articolo di Marco Martelli, che ci spiega di non poter supportare con le foto – bellissime – che invece compaiono sulla rivista:

Una pagina gloriosa. Qualcuno definì il sacrificio dei nostri soldati a Culqualber (nel novembre del 1941) «le Termopili dei Carabinieri». Come in Tessaglia – nel 480 avanti Cristo – dove i trecento spartani guidati da Leonida sacrificarono la vita per difendere la loro patria, i carabinieri nella sella di Culqualber, nella lontana Etiopia, si immolarono per tenere la postazione. Un giornale di allora raccontò l’inferno con queste parole: «l carabinieri di Culqualber rimasero imperterriti al loro posto. Continuarono a combattere per giorni e mesi contro un nemico cento volte più forte e più numeroso, contro un nemico che aumentava continuamente di mezzi e di effettivi, di armi e rifornimenti, mentre loro, gli eroici carabinieri, diminuivano sempre di numero e di forze; ed ogni giorno scemavano per loro a vista d’occhio le munizioni, le provviste, i medicinali; ad ogni attacco i superstiti vedevano assottigliarsi lo stremato battaglione, mancare all’appello altri eroici compagni, altri prodi. Eppure non cedettero: mai. Non pensarono mai che si potesse cedere. Non si arresero né alle minacce né alle lusinghe dell’avversario, sempre più incalzante, sempre più rifornito e imbaldanzito. Sono morti quasi tutti, al loro posto di combattimento e di sacrificio. Sono caduti inchiodati alla consegna, fedeli al giuramento, degni delle fulgide tradizioni dell’Arma fedelissima».

Molto simile il comunicato del Bollettino delle Forze Armate, in data 23 novembre 1941: «Gli indomiti reparti di Culqualber-Fercaber, dopo aver continuato a combattere anche con le baionette e le bombe a mano, sono stati infine sopraffatti dalla schiacciante superiorità numerica avversaria. Nell’epica difesa si è gloriosamente distinto, simbolo dei reparti nazionali, il Battaglione Carabinieri, il quale, esaurite le munizioni, ha rinnovato sino all’ultimo i suoi travolgenti contrattacchi all’arma bianca. Quasi tutti i Carabinieri sono caduti».

Una pagina gloriosa. Scritta da uomini valorosi che – da mesi – vivevano in condizioni spaventose, costretti ad affrontare privazioni tremende. Mancava il cibo: e per mesi le truppe si sfamarono mangiando la bargutta, che era un miscuglio di granaglie, biade, mangime per quadrupedi e un cereale molto minuto, pestati con le pietre per fame una specie di farina, che veniva impastata e cotta fra sassi roventi e brace. Mancava anche l’acqua (un problema ben più grave) perché i due fiumiciattoli più vicini – l’Arnò-Guamò e il Gumerà – si trovavano su una direttrice controllata dalle forze nemiche: ogni tentativo di rifornimento comportava perdite in vite umane.

La guerra in Africa aveva preso una piega pessima per le nostre forze armate. Gli inglesi erano numericamente superiori, e disponevano di molti più mezzi, più affidabili e moderni. Avendo il pieno controllo del Canale di Suez impedivano che giungessero i necessari rifornimenti alle nostre truppe. L’Amb Alagi era caduta (con l’onore delle armi) e il presidio di Gondar era difeso ormai soltanto dagli uomini asserragliati nel valico. di Culqualbet. Il caposaldo di Gondar era al comando del generale Guglielmo Nasi, che aveva organizzato i presidi che – nel raggio di 50-80 chilometri – erano chiamati a difendere la posizione: l’Uolchefit sulla direttrice di Asmara (già caduto in mano nemica); Celga Blagir e Tucul Denghià sulle direttrici occidentale e nord-occidentale; Culqualber sulla via di Debra Tabor, nella zona dell’Amhara. Proprio quest’ultimo presidio era il più importante strategicamente, perché garantiva il controllo della riva nord-orientale del lago Tana e della piana di Ouramba, l’unica via che garantisse ancora un minimo di rifornimenti.

Da un punto di vista militare, la zona era adatta alla difesa, per le sue caratteristiche orografiche: una serie di alture irregolari, intersecate da profondi burroni, che offrivano uno sbarramento naturale. Il presidio era sotto il comando del colonnello Augusto Ugolini. Il 6 agosto, Ugolini ottenne i rinforzi: il 1° Gruppo Carabinieri Mobilitato che aveva combattuto (distinguendosi per il valore) sulle alture di Blagir e dell’Ineet Amba. Il Gruppo fu destinato al Costone dei Roccioni, un’altura che si affacciava (a strapiombo) sulla rotabile verso Gondar, ma guardava anche al versante sud, in direzione di Debra Tabor. Appena insediati, i carabinieri dovettero dedicarsi alla faticosa opera di fortificazione, trasportando (dai dirupi sottostanti) pesanti tronchi d’albero, e creando trincee e barricate.

Dai giorni immediatamente successivi, le vedette comunicarono l’arrivo di rinforzi nelle file del nemico, che avevano di fatto accerchiato e isolato Culqualber. Per alleggerire la pressione, il colonnello Ugolini ordinò – a più riprese – puntate offensive, dettate anche dall’esigenza di sopperire alla mancanza di vettovagliamento. A metà ottobre, una di queste offensive permise di conquistare Larnbà Mariarn, dove i nostri soldati recuperarono viveri e acqua. I carabinieri si distinsero in modo particolare in queste azioni, anche per merito del maggiore Alfredo Serranti. Ci fu una controffensiva inglese, ma i Carabinieri riuscirono a respingere il nemico.

Per l’operazione di Lambà Mariam, i Carabinieri furono premiati con la Menzione onorevole nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze Armate, che diede atto della brillante vittoria riportata in condizioni estremamente delicate, con lievi perdite nostre (36 caduti e 31 feriti), ma gravi per il nemico. L’efficace operazione consentì al caposaldo di Culqualber un temporaneo respiro dalla pressione avversaria; inoltre, il bottino di viveri migliorò per diverso tempo il razionamento e rese con ciò possibile l’ulteriore resistenza.

Ma la tregua fu di breve durata. Nei giorni successivi affluirono reparti corazzati e rinforzi nemici d’ogni genere, nonché decine di migliaia di irregolari al comando di ufficiali britannici. Cominciarono allora i lanci di manifestini e le insistenti intimazioni di resa, intervallate da formidabili concentramenti d’artiglieria e da bombardamenti aerei. Il nostro Comando respinse orgogliosamente tutte le offerte di resa. Dal 21 ottobre il nemico mise in continua azione tutti i mezzi offensivi. Nessun movimento fu più possibile in superficie; di notte il terreno veniva spazzato con tiri predisposti; di giorno diventava implacabile il martellamento aereo.

Il 2 novembre fu distrutto l’ospedaletto da campo e fu sconvolto il cimitero. Tre giorni più tardi un poderoso attacco si infranse sugli spalti meridionali del caposaldo, specie ad opera della 1° Compagnia Carabinieri, alla quale il Comandante della difesa tributò un meritato encomio.

Il 12 novembre il  Gruppo Carabinieri era in linea, nelle posizioni chiave della difesa: sul fronte Sud, con la 1° Compagnia, e sul fronte Nord, con la 2° Compagnia e la Compagnia Zaptiè. La notte ebbe inizio la battaglia che – pur apparendo disperata – si concluse con la ritirata del nemico: carabinieri e zaptiè opposero un argine insormontabile proprio sul Costone dei Roccioni, attraverso il quale l’avversario sperava di penetrare nel caposaldo. E ai soldati giunse un secondo caloroso encomio: «Contro forze dieci volte superiori per numero e per armamento che l’attaccavano violentemente per undici ore, reagiva con aggressività, sangue freddo, illimitato coraggio, riuscendo vittoriosa nell’impari lotta». Nei giorni seguenti gli attacchi inglesi si infittirono, indebolendo una difesa comunque precaria.

Dal giorno 18 novembre l’azione aerea avversaria assunse proporzioni insostenibili. Squadriglie di ogni tipo si alternavano senza sosta, attaccavano in picchiata, spazzavano tutto in superficie. Ben nove aerei furono abbattuti dal tiro delle mitragliatrici. Ormai i difensori vivevano esclusivamente nei camminamenti ed in trincea, da cui uscivano solo per i contrassalti.

Nella giornata del 20 novembre 41 velivoli avversari presero letteralmente d’assalto gli elementi difensivi del caposaldo. Lo schieramento nemico era potenziato ulteriormente. Alle 3 del mattino del giorno successivo l’offensiva si scatenò con rabbiosa risolutezza. Il caposaldo fu contemporaneamente investito da Nord, da Sud e perfino dalle impervie provenienze da Est, e da non meno di 20mila assalitori delle più svariate unità. I carri armati precedevano le schiere per aprire varchi, gli aerei spezzonavano e mitragliavano, artiglierie e bombarde lanciavano proiettili con ritmo vertiginoso. I punti nevralgici della battaglia furono proprio i Roccioni affidati alla difesa dei carabinieri e degli zaptiè, che non abbandonarono neppure un palmo di terreno, fino a quando, attaccati da tergo dal nemico ormai padrone del caposaldo, furono sopraffatti.

Il maggiore Serranti (ferito gravemente) rifiutò di farsi medicare, per restare al suo posto e incitare gli uomini. E i carabinieri – piuttosto che cedere – affrontarono la morte. Come gli Spartani alle Termopili. Il Costone dei Roccioni divenne così la “via dei cadaveri”. Al maggiore Serranti fu attribuita la Medaglia d’Oro alla Memoria e la Bandiera dell’Arma fu insignita di un’altra Medaglia d’Oro per l’eroico comportamento del battaglione che «deciso al sacrificio supremo, si saldava graniticamente agli spalti difensivi e li contendeva al soverchiante avversario in sanguinosa impari lotta corpo a corpo nella quale comandante e carabinieri, fusi in un solo eroico blocco simbolico delle virtù italiche, immolavano la vita perpetuando le gloriose tradizioni dell’Arma» .




Nelle carte di Giuseppe Patanè - Un "ritratto di Badoglio" dagli anni amici di Gentizon


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Nelle carte di Paul Gentizon conservale da Giuseppe Patanè, abbiamo ritrovato un articolo del nostro autore su Badoglio. Non sappiamo né se questo testo fu pubblicato, né a chi fosse destinato (forse al suo amico Giorgio Pini per Meridiano d’Italia). Comunque vi ritroviamo l’abituale e straordinaria sintesi storica del nostro autore. Nella parte finale del testo si percepisce il dono di osservazione di Paul Gentizon che aveva conosciuto il personaggio di cui parla.

E interessante notare come oggi la stampa italiana, e la stessa opinione publica, faccia spontaneamente il processo di uno dei principali della catastrofe in cui fu trascinata l’Italia nella seconda guerra mondiale : Pietro Badoglio che fino al colpo di stato del 25 luglio 1943 era riuscito ad imporsi come una delle figure di primo piano della scena politica italiana, e che si è salvato da quello che sarebbe stato un giusto rendiconto di fronte ad un tribunale militare, assiste ora con i suoi propri occhi ad un’implacabile revisione di fatti ed azioni da lui commessi. Uomini di tutti i partiti riesumano interessanti documentazioni per conoscere a fondo la personalità di questo uomo e tutti finiscono per lanciargli, senza timore di comettere un’ingiustizia, l’accusa tremenda di traditore della Patria. In questi scritti non si rileva alcun odio di parte, alcun preconcetto personale, Chi scrive tiene spesso a dichiarare che ” soltanto un doloroso dovere” (Cfr. S.Cilibrissi, P. Badoglio ecc. Pag. 71) Quindi solo in nome della verità e della giustizia si appuntano contro Pietro Badoglio gli indici accusatori degli italiani.

Uno sguardo alla vita ed alla carriera di quest’uomo, pone in chiaro risalto, accanto alle sue innegabili capacità tecniche nel campo militare, quelle che sono le riprovevoli deficienze del suo carattere, della sua anima.Chi lo ha conosciuto lo descrive come un uomo dominato da una sconfinata ambizione: la sua bramosia di salire, di non alzarsi, di arricchirsi, lo fa essere volta a volta estimato, tenace, lo fa giungere ad essere cinico, immorale; il suo egoismo lo rende vile. La sua vita è tesa a procacciarsi opportunamente favori e protezioni preziosi, ad imbastire intrighi calpestando ogni più elementare senso dell’onore, per creare intorno a sé approvazione e ammirazione dei superiori e trame titoli e riconpense. Giunge cosi gio-vanissino ai più alti gradi militari, la sua carriera è prodigiosa, e se i primi gradini sono raggiunti per merito della sua volontà e delle sue capacità, ben presto l’ascesa viene basata sul favoritismo e sull’inganno. A 19 anni è sotto tenente, partecipa come capitano di stato maggiore alla campagna di Libia, ed ottiene allora la prima promozione per merito di guerra. A questa seguirarno altri 17 avanzamenti per merito di guerra, cifra impressiomante che denuncia l’intrigo e la frode. E quel che è peggio, quest’uomo indegnamente assistito dalla fortuna, si fa strada nonostante i suoi errori che provocazione profonde tragedie per la sua stessa patria e che rimangono impuniti. La critica storica oggi lo addita come uno dei maggiori responsa bili dello sfacello di Caporetto,mentre i recenti avvenimenti, che hanno determinato la caduta dell’Italia, dimostrano le capitali responsabilità di quest’uomo di fronte al paese, al fascismo e alla stessa monarchia. Nel 1915, allo scopio della prima guerra mondiale, Badoglio era tenente colonello; un anno dopo, egli compiva la conquista del Sabatino che fu reputata esclusivo suo merito. In realtà, servendosi di un progetto e della preparazione dell’impresa fatta da altri, Badoglio forte della protezione del generale Cappello, assunse il comando della divisione operante; all’ultimo momento, e lo tenne per una sola ora. Il tempo necessario cioè per raggiungere l’ob-biettivo ed essere considerato l’autore della conquista, Senza molto rischio, è chiaro, perché, se l’azione fosse fallita la colpa sarebbe stata di chi aveva preparato i soldati (E. Canevari- articoli del novembre 1947 sul Rosso e Nero-Roma ). Eppure questa gloria acquistata a cosi buon mercato ebbe larga risonanza ed inizio il trionfale cammino di Badoglio. Con lo stesso metodo e con gli stessi mezzi si procaccio il merito della conquista del Vodice l’offensiva era già iniztiata quando un provvidenziale ordine del generale Capello sostituiva il comandante del Corpo d’Armata impegnato nell’azione ponendo al suo posto Badoglio. La conseguenza fu un nuovo avanzamento di grado per merito di guerra.

Inorgogliate per i facili successi ottenuti, Badoglio credette di poter contare ancora una volta sulla fortuna. Spinto dal desiderio di prevalere e di affermarsi, nella giornata che precedettero Cappretto” medito iniziative temerarie, contrastanti con il piano di difesa (A.Omodeo – L’età del Risorgimento italiano pag. 534)contribuendo notevole-mente con il suo errore a determinare quel rovescio delle armi italiane tristemente famoso. Poiché lo sfondamento del fronte italiano, oltre ad essere causato della deficiente organizzazione da parte, fu in gran parte determinato dai gravi errori commesi dallo stesso Badoglio. Egli era allora al comando del 27° Corpo d’Armata e in netta opposizione agli ordini ricevuti dal Capo dello Stato Maggiore, volle persistere ostinatamente in un suo arbitrario piano controffensivo, così che lasciò sguarnita la riva destra dell’Isonzo concentrando le forze sulla riva opposta e mantenendo le divisioni in schieramento offensivo, mentre Cadorna aveva ordinato i preparativi per la difesa ad oltranza. Assumendosi per-sonalmente gravi responsabilità, Badoglio voleva secondo il suo piano, tendere una trappola al nemico, attirandolo in quella parte del fronte dove le forze erano inferiori per colpirlo al momento opportuno con le altre maggiori dislocate al di là dell’lsonzo. L’inganno non riuscì, la parte del fronte che, per un suo ambizioso sogno di successo person-—aie, aveva, lasciata quasi priva di difesa, venne facilmente sbaragliatata. Così ché fu proprio lo sfondamento della 19 ma divis.del Corpo d’Armata di Badoglio a causare la rottura del fronte ( cfr. Cadorno.- la guerra alla fronte Italiano.) Con un incoscienza veramente delittuosa Badoglio inoltre arbitrariamente dette l’ordine di far tacere l’artiglieria, per risparmiare le munizioni che avrebbero dovuto servire al suo chimerico piano dii controffensiva. Lo stesso nemico fu sbalordito di non sentire il martellamento delle artiglierie avversarie, mentre gli Italiani si battevano disorientati, attoniti per quell’inesplicabile e tragico silenzio che toglieva loro ogni speranza di protezione e ne rallentava l’ardimento. Non basta, in quella triste notte dell’ottobre 17 Badoglio non fu al suo posto di commando, si era ritirato nel villaggio di Kosi, luogo di riposo, pur sapendo dell’azione imminente. Molti furono coinvolti nelle responsabilità della battaglia di Caporetto, e ci fu chi, pur avendo responsabilità di grand lunga inferiori e quelle del generale Badoglio, non seppe resistere al dolore della disfatta e si tolse la vita. Badoglio visse e cerco di ottenere con l’intrigo oltre la salvezza nuovi onori. Egli assumeva fin dall’ora quegli atteggiamenti subdoli che poi la caratterizzerano nel resto della vita. Sembra una favola eppure da una seria documentazione, degna di fede (Canevari – Badoglio ) risulta che Badoglio riusci dopo l’infamia di Caporetto, servendosi di legami massonici e per mezzo dell’impostura, a farsi nominare sottocapo di stato maggiore, col-laborando con Diaz. Bisogna riconoscere che nonostante tutto egli possedeva delle doti innegabili, capacità tecniche, energia, un fisico imponente, un’esteriore impertubabilità che attirava e suscitava fiducia, una facilità nel sorriso che infondeva ottimismo.

Associazione Amici di Paul Gentizon c/o M.Patanè
Av. de Miremont 15 CH – 1206 Genève




La "modernità" delle Case del Fascio


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Giornale avversario, certamente, “Il Riformista” ma non è la prima volta che ci capita di definirlo anche come giornale intelligente e di alto livello. Dove abbiamo trovato, a firma di Paolo Portoghesi, un lungo e documentato articolo sotto il titolo “La modernità architettonica e sociale delle Case del Fascio” Eccone il testo:

l’Architettura costruita in Italia durante il regime fascista non è durata più di trenta anni. È vero che già negli anni Cinquanta, un grande storico come Bruno Zevi, nella sua Storia della architettura moderna ne aveva proposto una parziale rivalutazione. Ma la condizione di questa rivalutazione era la netta separazione tra gli architetti che avevano inteso il rinnovamento disciplinare come un’adesione al movimento moderno internazionale, da quelli che lo avevano inteso come sviluppo dell’eredità storica, anche se questi architetti si ricollegavano a loro volta a un filone di ricerca di dimensioni europee. Sebbene entrambi i fronti condividessero il distacco dallo storicismo ottocentesco e la ricerca di un nuovo linguaggio, ai primi fu riconosciuto il diritto di entrare nella storia della modernità, ai secondi venne riservato un netto giudizio di condanna. È molto interessante in questo senso analizzare il giudizio di Zevi su Giuseppe Terragni perché esprime molto bene il carattere ideologico delle riserve che impedirono per due decenni di ricostruire una storia attendibile dell’architettura italiana nel “ventennio nero”.(…) Nel nuovo testo (del 1975, ndr) sparisce la “ricerca … di un linguaggio figurativo pel suo paese”, sparisce la “visione civile… classicamente misurata” e si afferma che “la dittatura lo ha costretto al manierismo”. La complessità e contrarietà del giudizio complessivo dimostra come per la generazione che ha vissuto in prima persona l’agonia del fascismo, dare un giudizio sereno e non ideologico fosse praticamente impossibile, come dimostra efficacemente quanto lo stesso Zevi scriverà nel suo Omaggio a Terragni, dove si legge che la Casa del Fascio di Como «di fascista non ha neppure una remota impronta». (…) Chi percorre in lungo e largo l’Italia e osserva architettura e paesaggio con intenti analitici non può non rimanere colpito dal ruolo che tuttora svolgono le “opere del regime”.le Case del Fascio, ma più in generale le opere pubbliche legate ai programmi politici, come eloquente testimonianza visiva di un ventennio de] novecento durante il quale all’architettura fu riconosciuta una funzione centrale come strumento di potere ma anche di comunicazione e servizio sociale.(…) Un bilancio qualitativo, quello delle Case del Fascio, a favore quindi degli interventi più coraggiosi e innovativi in cui però va riconosciuta alla maggioranza professionale, prudente e poco sensibile ai grandi terni della modernità la rapacità “corale” di realizzare una tipologia coerente di indubbia efficacia simbolica. (…) Per concludere questo saggio a sembra giusto però approfondire il tema del significalo della Casa di Como, riconosciuto capolavoro che è ormai entrato a far parte de] piccolo gruppo di edifici-chiave che ben rappresentano il secolo in cui sono nati. In quanto opera d’arte questo edificio riassume non solo il lavoro di ricerca fatto intomo a un nuovo tipo edilizio ma ci consente anche di mettere a fuoco il dramma di un grande protagonista della cultura italiana e, nello stesso tempo, un singolare momento di convergenza e di sotterraneo conflitto tra arte e politica. Gli strumenti per un percorso critico che valuti serenamente i rapporti di Terragni con il Fascismo erano già contenuti nella biografia mussoliniana di De Felice, anche se in essa non si nomina ne l’architetto ne la polemica sulla architettura razionale. Si può tentare di dare una risposta a un interrogativo che viene spontaneo leggendo let estimonianze del lavoro e degli scritti di Terragni: poteva l’idea di cultura portata avanti da Mussolini giustificare la coraggiosa scelta di Terragni per l’innovazione, per la razionalità, la sua battaglia contro l’arte legata agli ideali della piccola borghesia tradizionalista? La risposta negativa di Zevi, di De Seta e degli altri critici influenzati dal conformismo antifascista si basa su una visione sincronica del fascismo che rinuncia a distinguere tra i diversi periodi della sua storia tutt’altro che monolitica e sottovaluta quindi le alterne vicende della cultura progressista nel ventennio. La verità è che la sconfitta finale dei razionalisti ha la sua ragione storica nella svolta invo-lutiva della politica culturale fascista determinata dalla alleanza con la Germania e una attenta rilettura degli avvenimenti del periodo 1934-38 testimonia che il Duce in più occasioni aveva preso partito a favore di quella avanguardia coerente di cui Terragni era l’esponente più coraggioso.(..) Nella sua visione, ingenua quanto si vuole, ma sincera e stabile, il fascismo era un movimento rivoluzionano che fin dai suoi inizi, nel 1919. si era legato all’avanguardia futurista e il suo capo. al quale veniva attribuito, non dimentichiamolo, un ruolo ben distinto da quello dei suoi gerarchl. costituiva per il suo passato e per le continue dichiarazioni, una garanzia che la volontà di rinnovamento avrebbe prevalso alla fine su qualunque remora e qualunque necessità di venire a patti con la difficile realtà di un paese come l’Italia. (…) In questo atteggiamento di fiducia verso il fascismo Terragni non era un isolato. L’architetto che più d’ogni altro apprezzava per il suo coraggio e la sua forza creativa, Le Coibusier, non aveva dimostrato interesse e fiducia per il fascismo? Non si era iscritto, intomo al 1925, al “Fàsceau” di Valois (Cfr R. Gambetti e C. Olmo, Le Coibusier, e L’Esprit Nouveau, Torino Einaudi 1975, p. -tó, n. 117) e non aveva, nel 1933,nel volume su La ville Radieuse(.’. pubblicato la fotografia di una radunata oceanica a piazza San Marco a Venezia, indicando nella manifestazione un sintomo del fattoche in Europa a Roma, a Mosca, a Ber -lino “folle immense si riunivano intorno a idee forti»? Non avrebbe poi visitato Roma nel giugno del 1933, mostrandosi disponibile a collaborare con il Regime? E lo stesso non fece, poco dopo, Walter Gro-pius? La verità è che il fascismo, in quel momento, riscuoteva credito in Europa e un giovane della generazione di Terragni, deci-so a sposare la causa del rinnovamento radicale in funzione delle esigenze di un mondo profondamente cambiato, poteva ben credere che il fascismo in quanto “forza rivoluzionaria” fosse più adatto della democrazia a imporre lo stile di vita moderno e l’architettura capace di esprimerlo, realtà decisamente minoritarie specialmente in Italia. Si tenga conto tra l’altro che essendo una sola persona il depositario incontrastalo della volontà politica del regime, di fronte alle remore e alle contraddizioni della gestione locale del partito, e di fronte all’ostilità di molti gerarchi verso il rinnovamento e la libertà delle arti c’era sempre la possibilità di attribuire al Duce il ruolo di fare chia-rezza a vantaggio della giusta causa. E Mussolini, nella sua ambiguità, era ben lieto di svolgere questo molo di Sibilla Cumana e di depositano delle speranze dei giovani. Nei giovani fascisti come Terragni c’era probabilmente anche la fiducia e la spe-ranza che dopo il consolidamento del potere il fascismo avrebbe scoperto il suo volto rivoluzionario messo tra parentesi nei primi anni dopo la conquista del potere.




Ancora sulla Vandea "guerra di religione"


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Così la definisce sul “Corriere della Sera” Sergio Romano: una guerra di religione del mondo moderno, in risposta alle domande di un lettore, che fa riferimento al libro di Babeuf che di quella vicenda scriveva come di un “sistema di spopolamento”.

Ecco la lettera di Stefano Geromin e la risposta di Sergio Romano:

“Vorrei conoscere il suo pensiero su ciò che accadde nella regione della Vandea, nel 1793, pochi anni prima della presa della Bastiglia. Come mai quando si parla della Rivoluzione francese, non si accenna allo sterminio di centinaia di migliaia di cristiani messo in atto dai generali repubblicani? Avrà letto il libero “La guerra della Vandea e il sistema di spopolamento” di Graccus Babeuf, che non era un perseguitato ma un persecutore che non è riuscito a tacere le crudeltà viste con i propri occhi” Stefano Geromin.

E così risponde Sergio Romano:

“Caro Geromin, la rivolta scoppiò agli inizi del 1793 e fu provocata dalla legge del 23 febbraio con cui la Repubblica, ormai in guerra con le potenze europee, imponeva al Paese l’arruolamento obbligatorio. La regione (un dipartimento particolarmmente cattolico della Francia occidentale) aveva già dato segnali di malumore tre anni prima, quando i rivoluzionari di Parigi avevano approvato la «costituzione civile del clero». La coscrizione obbligatoria divenne la goccia che fece traboccare il vaso della rabbia popolare. La guerra fu certamente crudele (le vittime, da una parte e dall’altra, furono circa 200.000), ma i contadini guerriglieri non furono meno feroci e sanguinari dei soldati repubblicani comandati dal generale Hoche. Se desidera una versione letteraria di quegli avvenimenti, legga il bel romanzo di Victor Hugo intitolato per l’appunto «1793»; una traduzione italiana è apparsa qualche anno fa negli Oscar Mondadori. Comprenderà tra l’altro perché questa piccola guerra civile abbia assunto rapidamente una dimensione internazionale. Gli inglesi e gli emigrati (gli esponenti dell’aristocrazia che avevano abbandonato la Francia negli anni precedenti) intervennero nella lotta fornendo ai ribelli armi e ufficiali. La situazione accennò a migliorare dopo Termidoro quando la Convenzione promise agli insorti che avrebbe rispettato la loro fede e i loro beni. Ma nei mesi seguenti la repubblica dovette battersi contro altre bande nel Maine, in Bretagna e in Normandia. Le guidava Jean Cottereau, detto Chouan (gufo), e i suoi seguaci presero il nome di «chouans». Portavano sul petto, come segno distintivo, il sacro cuore di Gesù trafitto da una spada. Vent’anni dopo, quando Napoleone tornò dall’Elba, i vandeani ripresero le armi e tennero impegnata, nei giorni cruciali di Waterloo, una parte dell’armata imperiale. Quanto ai chouans, esistono ancora gruppi cattolici che si fregiano del loro simbolo. Più di trent’anni fa, a Parigi, entrai in una chiesa del Boulevard Saint Michel occupata dai lefevriani (i seguaci di Monsignor Lefebvre, vescovo «scismatico» di Dakar) e mi accorsi che il servizio d’ordine portava sul bavero della giacca il cuore trafitto di Gesù. Per quasi duecento anni le parole «Vandea» e «vandeano» sono state sinonimo di brutale ignoranza e di oscurantismo religioso. Ma il pendolo revisionista, in questi ultimi tempi, ne ha parzialmente modificato il significato. Tredici anni fa, nel bicentenario della insurrezione, un grande storico francese, Pierre Chaunu, organizzò in Vandea un convegno internazionale in cui vennero passati in rassegna avvenimenti analoghi in Russia, Polonia e Messico. Mancava in quel convegno, purtroppo, un capitolo sulle «insorgenze» antigiacobine che scoppiarono da noi, al grido di Viva Maria, dopo la calata dei francesi in Italia nel 1796. Esiste a questo proposito un libro di Massimo Viglione pubblicato dalle edizioni Ares nel 1999 («Le insorgenze, rivoluzione e controrivoluzione in Italia. 1792-1815»). In tutti questi avvenimenti l’antica fede, profondamente radicata nelle tradizioni e nella mentalità di popolazioni prevalentemente rurali, si scontra con la nuova fede ideologica e rivoluzionaria di masse prevalentemente urbane. Furono le guerre di religione della storia contemporanea; e non furono meno sanguinose di quelle che avevano sconvolto l’Europa nei secoli precedenti.”




Polemica rassegna a Milano SOLO IL FASCISMO AIUTO' L'ARTE CONTEMPORANEA


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Un’intera pagina di “Libero” a firma di Pia Capelli, riferisce di una vivacissima polemica a Milano, sull’assenza in quella che è la capitale dell’economia, di una struttura specializzata sull’arte contemporanea. Mentre Roma ne ha due, Napoli uno nuovo di zecca e “perfino Rovereto se ne è costruito uno, che ha rivoluzionato il turismo in Trentino e attira decine di migliaia di visitatori l’anno”.

Si tratta, viene ancora sottolineato di quei “musei d’arte contemporanea che sorgono nelle grandi e piccole città europee, da Londra (la Tate Moderna) a Valencia (l’Ivam), a Roma (Macro e Maxxi), a Napoli (il Donnaregina), “tranne che all0ombra del Duomo dove invece è ancora in via di definizione il progetto che dovrebbe far nascere un Museo del Presente in zona Bovina, sull’area dei Gasometri. La gallerista e critica Claudia Gin Ferrari, che nell’arte è nata ed è cresciuta (come figlia di un collezionista appassionato, poi con una laurea in storia della critica d’arte, infine aprendo una sua galleria a Milano, oggi tra le più note e prestigiose d’Italia), scaglia una pietra polemica: il museo d’arte contemporanea per Milano”.

Ecco come ne riferisce Pia Capelli:

Qui ci stanno «prendendo in giro. Possibile che Milano non abbia una collezione pubblica d’arte contemporanea? Possibile che si sia scelta un’ area così inquinata che la sua bonifica costerà più del museo stesso? Non credo che vedremo davvero un Museo del Presente a Milano. Non in tempi ragionevoli, almeno». Con la consueta verve, e una conoscenza profonda degli scenari internazionali dell’arte contemporanea, Claudia Gian Ferrari critica anche l’entusiasmo dell’assessore Zecchi per l’ultima grande fiera milanese, il Miart: «Qui si privilegia l’evento effimero piuttosto che la realizzazione di un museo permanente. Sono decenni che il progetto rimbalza da un luogo all’altro, da una giunta all’altra. Adesso bisogna che qualcuno si muova».

Il nome di Claudia Gian Ferrari compariva già nel 1992 tra i firmatari di una proposta che voleva convertire a Museo d’Arte Contemporanea l’area della “Fabbrica del Vapore”. Con lei un gruppo di esperti tra cui lo storico dell’ arte Flavio Caroli, il gallerista Giorgio Marconi, la storica Rossana Bossaglia, il professor Luciano Caramel, il collezionista Giuseppe Pama di Biumo.

«Un progetto splendido, con quattro piani di spazi espositivi, una scuola -laboratorio di restauro, degli studi per giovani artisti e un parco – sculture», ricorda la Gian Ferrari. «Sarebbe costato 40/50 miliardi di lire, cifra che avremmo facilmente ottenuto da una partnership di imprenditori e industriali». L’allora sindaco di Milan, Pillittèri, si entusiasmò per il progetto poco prima che la sua giunta crollasse. A 13 anni di distanza, la “Fabbrica del Vapore” è stata assegnata all’ Assessorato Sport e Giovani e viene usata solo per brevi mostre, ma secondo la signora «sembra un pollaio».

È caduta così una soluzione alternativa all’area dei Gasometri, ufficialmente destinata al Museo del Presente ma ancora da bonifìcare. «Si è capito che i tempi tecnici della bonifica sono una scusa per non fare, per rimandare, per scaricare responsabilità», prosegue Claudia, «La verità è che a Milano l’impegno per far conoscere l’arte contemporanea ricade da anni solo sulle spalle dei galleristi. Ma anche nel resto d’Italia tutta l’arte moderna, dal dopo- guerra a oggi, non ha potuto contare sullo Stato. Sono sempre stati i privati a costruire collezioni che sono la memoria storica dell’Italia contemporanea e a far crescere gli artisti. Persino la Biennale di Venezia quest’ anno svaluta il ruolo degli artisti italiani. Manca un progetto culturale per il Paese. E paradossale pensare che l’ultimo progetto culturale ad ampio respiro per la città di Milano sia stato quello fascista!».

Come esempi di riferimento in Italia e in Europa, la gallerista milanese cita una serie di importanti iniziative private e pubbliche: «La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, molto propositiva, la fondazione Trussardi di Milano. Da un punto di vista istituzionale, pensiamo a quello che sta facendo la Spagna in questi anni: il Reina Sofia di Madrid, l’Ivam di Valencia, il nuovo Centro Gallego di Arte Contemporanea a Santiago de Compostela, progettato da Alvaro Siza come il Donnaregina di Napoli e come il grandioso Museo de Arte Contemporanea Casa de Serralves di Oporto. E stiamo parlando del Portogallo! Noi, con il nostro immenso patrimonio artistico, stiamo perdendo terreno anche nel turismo, e non riusciamo a dare respiro ai nostri artisti»…”.

(a cura di Pino Rauti)




C'è un volto "diverso" della I guerra mondiale


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Acquisizione ormai “consolidata” della storiografia di tutti i tipi, è la I guerra mondiale è stata l’origine diretta di una rivoluzione profonda; ed è soprattutto da “quella” Guerra e da questa “rivoluzione” che discendono e dipendono molte delle vicende attuali, a cominciare dal «tramonto dell’Europa» come protagonista nel mondo.

Certo, comunque, che fa impressione ancora adesso andarsi a sfogliare le cronache di quel tempo che pure è, appunto in termini temporali, lontanissimo da noi perché risale a novant’anni fa, al 1914-1915.

Fa impressione, colpisce nei sentimenti – ma anche nella ragione e nella spinta all’analisi – quello che di poco noto emerge ad esempio in una pubblicazione da poco in edicola e che esce con il sottotitolo de “le grandi battaglie dei fronti europei”; con immagini originali che mostrano “gli scenari della prima, vera carneficina della Storia” e con qualche “retroscena” sull’Italia in guerra. Leggiamo ancora che, nelle cronache del conflitto “difficilmente si fa riferimento a ciò che rimane «a casa», nelle città di provenienza dei soldati, dove le donne prendono il posto dei propri mariti sui posti di lavoro, nel migliore dei casi. E dove esse lavorano durante il giorno alla fabbricazione delle bombe e proiettili, nel peggiore. Lasciando ogni notte, negli scantinati delle fredde fabbriche in fermento, fertilità, salute ed esistenza. Non dimentichiamo, infine, che la Prima Guerra Mondiale fu, a ragione, ben definita con queste parole: «Il primo e ben assestato tentativo d suicidio del continente europeo».

“Tutti Video Magazine” – bimestrale – dir.resp.le: Massimo Soncini; dir.re edit.le: Furio Piccinini – Casa Editrice: Finson Spa – Via Cavalcanti, 5; 20127 Milano – Tel. 02-2831121 – Rivista più DVD Video: euro 7,90.




In un libro "proibito" negli USA GLI STUPRI E LE VIOLENZE DEGLI ALLEATI IN EUROPA


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Mentre emergono sempre nuove prove sui “crimini” commessi dai soldati americani in Sicilia, nel 1943 (fucilazioni a decine di prigionieri e anche di civili), in Francia vengono rievocate vicende non meno gravi: gli stupri ai danni delle francesi dopo lo sbarco in Normandia.

Lo stereotipo corrente è rimasto “consolidato” nella storia dell’epoca, è quello che vide folle acclamanti e che gettavano fiori ai “liberatori”. Ma non ci fu solo questo; né subito dopo lo sbarco né nelle settimane successive.

E vicende dello stesso tipo, ancora più numerose, avvennero in Germania.

Ovviamente, i Comandi USA – esattamente come sta accadendo adesso in Irak per le violenze disumane commesse in carcere contro i malcapitati iracheni, arrestati a migliaia – naturalmente, dicevamo, i Comandi statunitensi furono di manica larga. Ma non poterono chiudere del tutto gli occhi di fronte ad episodi particolarmente gravi. E qualche esempio dovettero darlo, con fucilazione o impiccagione dei responsabili. Come accadde nel caso del soldato della Georgia David Cooper, impiccato perché di ragazze francesi ne aveva violentate tre; e, poco tempo dopo, venne impiccato anche un suo complice. I P. Wilson, arrestato dopo l’invasione dalla “cella” nella quale, da già condannato, era rinchiuso. E la stessa sorte era toccata nell’agosto del’44, ad un altro soldato americano, per uno stupro commesso una settimana dopo lo sbarco.

Qualche tempo fa, anche “Le Monde” ha rievocato queste vicende, scrivendo tra l’altro – in un lungo articolo di Alain Morcan – che pure in Inghilterra prima dello sbarco in Francia, non pochi soldati statunitensi si erano resi responsabili di molte violenze sessuali.

Leggiamo nell’articolo, una cifra che desta sgomento: “La recente apertura di numerosi archivi giudiziari negli Stati Uniti, in Inghilterra e Germania permette oggi di calcolare l’ampiezza di un fenomeno la cui evocazione è rimasta per lungo tempo un tabù: i 17.000 stupri commessi dai G.I. americani in Europa nel 1944 e 1945”.

In effetti, ci si può rifare a un libro, scritto da I. Robert Lilly – professore di sociologia e di criminologia alla “Northern Kentucky University, negli Stati Uniti – e tradotto in Francia dalle edizioni Payot. Il titolo è: “Il volto nascosto dei G.I.’s”; un volume la cui pubblicazione – sostiene “Le Monde” – è adesso proibita negli Stati Uniti, a causa della guerra in Irak”.

Il docente americano sostiene ben 17.080 donne e bambini sarebbero state vittime di “violenze sessuali da parte di soldati americani”; 11.040 in Germania; 3.620 in Francia; 2.420 in Inghilterra. In Francia – sempre secondo Lilly – “la frequenza e la ferocia degli stupri furono peggiori che nel Regno Unito”.

“In Germania la prima denuncia per violenza che approdò ad un processo in Corte Marziale, ebbe luogo un mese appena la ripresa dell’offensiva di Eisenhower dopo le Ardenne, nel gennaio 1945. Il violentatore, il soldato, Wardell Wilson, apparteneva al 777° battaglione di artiglieria. La sua aggressione apriva una lunga serie di violenze sessuali delle quali furono vittime le donne tedesche…”.

Tra gennaio e settembre 1945, le Corti Marziali hanno condannato per stupri 187 soldati. “La più giovane delle vittime aveva tre anni”. Ma su “ordine diretto di Eisenhower “nessun soldato americano è stato giustiziato”. Perché, dal punto di vista della giustizia militare americana, quello che era considerato uno stupro ai danni di una ragazza, in Inghilterra e in Francia, in Germania non diventava altro che “una illecita relazione sessuale con una donna non sposata”.

In una vicenda giunta alla Corte Marziale, i soldati Ward e Sharer “che avevano violentato una ragazza di 19 anni, furono condannati solo ad un anno di lavori forzati ed espulsi dall’Esercito. Erano stati accusati di aver violato l’art. 96 del Codice di Guerra, che proibiva <<rapporti sessuali con una donna non sposata>>”.

Un ufficiale violentatore della vedova di un soldato che aveva fatto parte di una divisione SS, fu soltanto “espulso dall’Esercito solo perché aveva obbligato una donna a <<togliersi i vestiti… e questo comportamento dimostrava che era caduto al disotto del livello individuale di decenza richiesto per gli ufficiali gentelman>>.

I. Robert Lilly “migliaia di italiane sono state violentate da soldati francesi nel corso della campagna in Italia. In Germania, le Autorità di Stuttgart hanno preso atto di loro implicazioni in 1.198 stupri”.

Quanto all’Armata Rossa, siamo nell’ordine di “molte centinaia di migliaia di crimini sessuali, che le sono imputati ai danni dei civili tedeschi”.

(a cura di Pino Rauti)