Un libro-choc di Ciriacono "LE STRAGI DIMENTICATE GLI ECCIDI USA IN SICILIA"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Nella nostra Rubrica “Storia: ricerche e revisioni” abbiamo già segnalato l’improvviso emergere di ricerche documentali e di “testimonianze”, personali e di gruppo, di uno degli episodi più feroci della Seconda guerra mondiale: gli eccidi di militari italiani caduti prigionieri dei soldati americani in Sicilia nel 1943. Abbiamo anche segnalato – sulla scorta di un ampio servizio di Gianluca Di Feo, sul “Corriere della Sera” del 31 ottobre s.a. – l’inizio di un’istruttoria della Procura della Repubblica militare di Padova per il massacro di 73 prigionieri e di 8 civili, a Bufera, il 13 luglio del 1943 (e abbiamo in rubrica l’intero articolo di Gianluca Di Feo).

Adesso le ricostruzioni di quello che accadde in Sicilia, si stanno moltiplicando, come vedremo.

Ma dobbiamo soprattutto portare a conoscenza del nostro pubblico che, grazie alla cortesia dell’Autore – che qui ringraziamo con viva cordialità – siamo venuti in possesso di un volume di 100 pagine, ricco di foto e di cartine, sugli eccidi americani di “Biscari” e di Piano Stella.

Lo ha scritto Gianfranco Ciriacono, che di quei fatti fu testimone oculare e che riferisce in particolare su quanto avvenne nell’insediamento colonico <<Arrigo Maria Ventimiglia>> in contrada Piano Stella del Comune di Caltagirone nel tardo pomeriggio del 13 luglio (1943); su quanto avvenne e “che significò la morte per quasi tutti i protagonisti, ad eccezione del ragazzino Giuseppe Ciriacono”.

Nella presentazione al volume, il prof. Emanuele Ferrera, scrive: “Nipote e figlio, rispettivamente, di una delle vittime e del solo superstite dei due eccidi commessi il 14 luglio dalle truppe a stelle e strisce durante l’avanzata per la conquista dell’aereoporto di Santo Pietro, Ciriacono ha ricostruito i massacri consultando negli Stati Uniti Atti della Corte Marziale e attingendo abbondantemente alle testimonianze dei sopravvissuti; si propone di ristabilire tutta la verità dei giorni dello sbarco del 1943”.

I libri di storia si sono limitati finora a raccontare i lanci di dolciumi dei reggimenti alleati che avevano messo piede in Sicilia, il giubilo delle popolazioni al loro passaggio “mentre l’autore de “Le stragi dimenticate” è mosso dall’esigenza di sottolineare che l’evento non fu davvero tutto <<rose e fiori>> e che l’immagine di “buonismo” che gli americani si sono ritagliati, alla luce dei due efferati episodi di Acate, ampiamente ridimensionata”.

E vanno anche “ridimensionate” a nostro avviso, anche molte altre tesi; la prima delle quali è relativa al comportamento dei nostri reparti, che ovunque non avrebbe combattuto. Molti reparti invece combatterono con accanimento, con vero eroismo; e l’altra tesi che ormai si può smentire e che per gli invasori tutto sia filato liscio. Non è vero: ci furono molti momenti nei quali essi rischiarono di essere rigettati in mare, subendo gravi perdite proprio ad opera dei nostri militari. E proprio questo spiega l’accanimento barbaro dei militari USA contro i nostri prigionieri.

E tutto questo è tanto più da sottolineare data la sproporzione delle forze; perché, come Ciriacono ricorda “l’operazione Huskufu” uno dei più grandi D. Day della seconda guerra mondiale, anche se messo a confronto con la Normandia e con tutti gli sbarchi del Pacifico. Furono 2.500, fra navi e mezzi da sbarco a trasportare o scortare 80 battaglioni di fanteria e 400 carri armati, più 14.000 veicoli e 1.800 cannoni. Le truppe erano ripartite in sette divisioni di fanteria (tre britanniche, una canadese e tre americane), una divisione americana, due brigate corazzate britannichee una canadese, tre formazioni di commandos britanniche e un battaglione Ranger degli Stati Uniti. Vi erano pio altre forze speciali: elementi di due divisioni aerotrasportate, una britannica e una americana che dovevano lanciarsi prima dell’assalto principale per impadronirsi di alcune posizioni di importanza vitale…”.

Tutto questo colossale concentramento di forze, puntava – come obiettivo iniziale – a stabilire “una testa di ponte lungo 150 chilometri di costa, di cui 145 difesi dalla 206° divisione costiera che contava 7.500 uomini…”. Nel caso che le “difese dell’Asse fossero state troppo efficaci, vi erano di riserva ancora due divisioni britanniche e una americana”.

L’invasione della Sicilia – ricorda Ciriacono – era “il più gigantesco sbarco anfibio sino ad allora compiuto nel corso del secondo conflitto mondiale…”.

Gianfranco Ciriacono: “Le stragi dimenticate” – Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella” – 1° edizione agosto 2003 – 1à ristampa maggio 2004 – Stampato presso la Coop. CDB – Ragusa – Tel. e Fax: 0932-667976 – E-mail: gianfrancociriacoin.it – pgg.128 – euro 12,00.




Ci sono anche (e sono molte) le verità dei sudisti


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Esce per Sellerio, il libro di C. F. Woolson su quelle che Renzo S. Crivelli – su “Il Sole-24 Ore” del primo maggio scorso – definisce “Verità Sudiste lette in filigrana”. E’ il titolo del suo articolo, che ha per occhiello: “Oltre la censura, uno sguardo realistico sulla guerra civile americana”.

Eccone il testo:

«La guerra fu il cuore e lo spirito della mia esistenza… Dopotutto, allora, abbiamo vissuto»: con queste parole Constance Fenimore Woolson, scrittrice americana nata in New Hampshire nel 1840 ma trasferitasi al sud pochi mesi dopo la fine della Guerra civile americana, affronta il problema della devastzione degli Stati confederati e della difficile ricostruzione postbellica. Woolson – che terminò la sua esistenza in Italia, forse suicida a Venezia, nel 1894 – è una recente scoperta per il pubblico italiano (anche negli Stati Uniti è stata a lungo negletta nonostante il successo che ebbe quando era ancora in vita) e con la sua voce, chiara e lucida nelle descrizioni dei paesaggi e molto poetica e accattivante nei ritratti umani, appare ormai alla critica come un punto di riferimento della narrativa del sud.

Negli anni trascorsi sugli scenari del terribile conflitto che segnò la nascita degli Stati Uniti moderni, Woolson scrisse molti racconti (inseriti poi nel volume Rodman the Keeper: Southern Sketches, uscito nel 1880) in cui analizzò con realismo e obiettività i guasti di un “assistenzialismo” fasullo, convinta che l’abolizione della schiavitù fosse solo un pretesto marginale a fronte di un piano nordista, assai aggressivo peraltro, di penetrazione economica. Un approccio critico alla politica nordista, questo, che le valse una censura secca da parte del suo editore, Joseph W. Harper, il quale intervenne pesantemente sulla scrittrice, imponendole di abbandonare le tematiche strettamente connesse al sud dopo la Guerra civile (un diktat che rifletteva bene la nuova politica nordista tesa a minimizzare i riflessi di una problematica unificazione). A una simile scelta, certo di parte, Woolson si adeguò (ma solo formalmente), nonostante il giudizio lusinghiero di un colosso della letteratura americana – suo contemporaneo – come Henry James, che di lei ebbe a scrivere che la grande rilevanza dei suoi racconti risiedeva proprio nell’aver saputo dare voce al «patetico mutismo del sud» e nell’ aver avvalorato l’idea che «nessuna rivoluzione sociale di eguali proporzioni sia mai stata riflessa così poco nella letteratura, rimanendo non documentata, non dipinta, non cantata».

Ma Walsoon ha saputo fare tutto ciò, anche con le limitazioni imposte da Harper, producendo alcuni romanzi in cui, in filigrana, è pur sempre ,possibile leggere la “verità” sudista proprio attraverso le metafore e le allusioni simboliche in essi contenute. È questo il caso di Per il maggiore, una della sue opere più interessanti, ora tradotto per la prima volta da Sellerio con la garbata cura di Edoardo Grego. Si tratta di un’opera, apparsa a puntate tra il, 1882 e il 1883 sul famoso «Harper’s New Monthly Magazine», con al centro la storia del maggiore Scarborough, il cui nome, significativamente, richiama sia searborough warning, che allude a un attacco senza preavviso dove i conquistati cadono inermi sotto i colpi del nemico (un’immagine del sud espropriato, dunque), sia sear, che evoca le cicatrici della guerra. Scarborough vive relegato in una cittadina della Carolina del Nord a rappresentare l’ultimo dei possidenti sudisti dal carisma culturale assai diffuso in tutta la comunità, e ci viene descritto dalla W oolson come un sopravvissuto, appartenente a una tradizione ormai dissolta e condannato a una simbolica cecità (in realtà egli, chiuso nel sogno di un amore falsamente adolescenziale, «non vuole vedere» il presente e la sua amnesia si estende anche a ciò che lo circonda, a quel “nuovo” sud in cui non si riconosce).

Per il maggiore è un romanzo in cui si dà voce anche alle donne, rappresentate dalla moglie di Scarborough, Marion, che accetta la finzione di sottrarsi gli anni con trucchi fisici pur di soddisfare l’esasperato bisogno di gioventù del marito, ma che ha completa consapevolezza del suo ruolo ingiustamente sottomesso. «Noi donne soffriamo più degli uomini, che sono stupidi e a cui bisogna spiegare tutto», afferma la protagonista femminile. Ma è anche un romanzo in cui si parla di «memoria non condivisibile» (un tema così attuale anche in Italia, se riferito alla nostra passata guerra civile), e in cui compare un personaggio colored assai interessante (il musicista martinicano Dupont, che adombra il problema del “meticciato” evocando un possibile, precedente, matrimonio misto di Marion).

“Per il maggiore” – di Costance Felimore Woolson”, traduzione di Edoardo Grego – pagg. 260 – euro 9,00 – Editore: Sellerio – Via Siracusa 50 – 90141 Palermo – Tel. 091.16259475 Fax. 091.6258802.




EUR: è bellissima; ma… "Se Mussolini l'avesse terminata"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Una volta, quando ero Segretario dell’altro MSI, mi capitò di dire, durante un dibattito in TV, che se con un colpo di bacchetta magica, si facesse scomparire dall’Italia, tutto quello che il Fascismo vi ha costruito durante il Ventennio, il nostro Paese, si troverebbe nel Terzo Mondo.

E fu, naturalmente, scandalo (anche all’interno del Partito).

Ma non cambio opinione. Ed anzi sono sempre più convinto che fu davvero formidabile quanto venne costruito all’epoca; e tale da far fare all’Italia quel “salto di qualità” da Paese arretrato e penosamente ottocentesco, qual era nel 1922 a Paese più che moderno – e sotto qualche aspetto anzi all’avanguardia nel mondo – che era invece nel 1940.

E mi fa piacere; non solo: è storicamente importante trovare spesso riscontro a questa tesi! Com’è avvenuto qualche giorno fa – guarda caso proprio il 25 aprile! – su “Il Giornale” con un articolo a firma Duccio Trombadori, che qui ci permettiamo di riprendere integralmente. Una nota che ha per titolo: “Il grande sogno incompiuto dell’E.42” e come sommario: “La mostra, che documenta la nascita della «nuova Roma», sottolinea la differenza fra il progetto iniziale e il suo completamento”.

Ed ecco il testo dell’articolo di Duccio Trombadori:

Dopo l’Esposizione Universale di New York nel 1939, quella del 1942 a Roma avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni di Benito Mussolini, una «Olimpiade delle Civiltà» su cui fare risplendere le virtù della tradizione classica in una capitale d’Italia modernizzata da venti anni di regime fascista e proiettata verso un avvenire “imperiale”. Sappiamo come andò invece a finire. E sappiamo che lo straordinario impianto urbanistico-architettonico dell’E42 rimase nel dopoguerra opera incompiuta: finche l’ex ambiziosa idea di proiettare a coda di cometa una “nuova Roma” verso il mare di Ostia non si trasformò nei fasti e nefasti del moderno quartiere Eur, con le note modifiche quasi lasciate al caso nonché travisanti l’identità del progetto originario.

La mostra «E42 – Eur – Segno e sogno del Novecento» aperta a Roma fino a fine mese (Palazzo degli Uffici) ha avuto se non altro il merito di rendere visibile (con filmati, fotografie, documenti scritti, dipinti, disegni preparatori degli edifici) la grandiosa macchina costruttiva della “nuova Roma”, con la mirabile collaborazione di architetti come Libera, La Padula, Minnucci e Guerrini, o di pittori e scultori come Sironi, Severini, Funi, Prampolini, Depero, e poi ancora Melotti, Mirko, Morbiducci, lasciando immaginare ai più l’evidente distanza che separa il “sogno ” ideato e predisposto durante il fascismo dall’effettivo” segno” residuato e rabberciato nel mezzo secolo successivo.

Ne risulta un paragone quantomeno imbarazzante con il conseguente rimpianto per la mancata piena realizzazione di una impresa esplicitamente finalizzata alla “unità delle arti” così che 1’E42 avrebbe dovuto apparire. D’altra parte però la mostra – con testi di Carlo Fabrizio Carli, Gianni Mercurio, Luigi Prisco e Vieri Quilici – si dipana seguendo un presunto filo di continuità fondamentalmente “buonista” che non persuade affatto: e secondo cui l’immagine ideale della “nuova Roma” sarebbe stata più o meno raccolta dalle sistemazioni successive. Ma in verità l’efficacia estetica suscitata dal mito del primato d’Italia e di Roma – vagheggiato e crollato in quei terribili anni Quaranta – non ha finora trovato equivalenti sul piano dell’immaginario. Tra la magia evocativa implicita nel famoso “Colosseo quadrato” di Vincenzo La Padula – simbolo architettonico principe dell’E42 – e il dipanarsi delle funzioni direzionali e residenziali nell’Eur del secondo dopoguerra corrono anni luce di qualità e significato che non ammettono confusioni.

Col rischio fin troppo evidente non solo e non tanto di mettere sullo stesso piano personalità artistiche incomparabili (dal genio di Libera al freddo professionismo di Nervi fino al più che fumogeno de-costruzionismo di Massimiliano Fuksas, progettista del nuovo centro congressi) ma soprattutto di offuscare la sostanziale diversità tra la coerente idea urbanistica prevista dai piani per l’E42, e il dilagare successivo della speculazione “palazzinara” che ha determinato l’espansione disordinata della città.




A cura di Paolo Granzotto FORSE UN GRAN DIBATTITO SULL’89 E NAPOLEONE


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Le premesse ci sono tutte e forse ci siamo: a un grande dibattito, un dibattito serio con tutti i pro e anche tutti i contro sulla Rivoluzione Francese e in particolare su Napoleone Bonaparte. Questa prospettiva ci pare di cogliere in una recente “lettera2 sulla Posta dei Lettori de “Il Giornale” e quanto ha scritto in risposta il curatore della rubrica, Paolo Granzotto, sotto il titolo: “Se il rivoluzionario è soltanto un truffatore”. Ecco la lettera ed ecco la risposta di Granzotto:

“Uno dei suoi pallini è di approfittare di ogni occasione che le forniscono i lettori per fare del revisionismo sulla Rivoluzione Francese e se può anche su Napoleone Bonaparte. Non le contesto le sue osservazioni in materia, ma mi sembra che lei esageri un po’ nel demolire uno dei massimi momenti storici del genere umano che fu alla base di quella che è la società moderna. Non le nego che la Rivoluzione peccò in qualche eccesso, ma i benefici che il genere umano ne trasse sono incomparabilmente più luminosi delle poche pagine buie. Non vorrà contestare anche questo, io auspico.”. A. Riccobono – Perugia.

*****

Lei auspichi pure, caro Riccobono, ma quelle che definisce poche pagine buie non furono così poche e l’insigne blasone rivoluzionario ne è inzaccherato senza che ci sia candeggina, nemmeno quella della famosa marca «Ideali&Valori Lustratutto», che possa porvi rimedio. Gli eccessi ai quali si abbandonarono gli onnipotenti “répresentants-en-mission” e dei quali furono vittime centinaia di migliaia di innocenti, non si contano, caro Riccobono. Glie ne rammento qualcuno: Claude Javogue, “répresentants-en-mission” nella Loira, amministrava la giustizia, chiamiamola così, ubriaco. Mandava a morte – ghigliottina, fucilazione, strangolamento o, nel caso di condannati in gruppo, colpi di cannone – quanti non gli erano simpatici, indipendentemente dal loro stato sociale e dalle presunte colpe. Nicolas Guenot, che fino alla rivoluzione s’era

guadagnato la vita vendendo tronchi d’albero alle segherie di Parigi, fece ghigliottinare tutti i mercanti di legname coi quali precedentemente ebbe a che fare. Il fantasioso Jean Baptiste Carrier, “répresentants-en-mission” a Nantes, s’inventò invece il «matrimonio repubblicano»: dopo averli denudati, faceva legare strettamente gli uomini con le donne. A bordo di un barcone i condannati venivano poi portati in mezzo alla Loira e lì scaraventati in acqua dove annegavano fra i lazzi dei loro aguzzini che auguravano loro felicità e figli maschi. Comportamenti, quelli dei delegati del Direttorio giacobino, che con l’alto messaggio rivoluzionario – libertà, uguaglianza e fraternità – mi pare abbiano poco da spartire. O sbaglio? Per quel che concerne Napoleone, dopo essermi tolto il cappello in omaggio a tanto nome vorrei ricordarle che con le sue guerre (giuste? Ingiuste? Preventive? Consuntive? Umanitarie? Ferine? Bisognerebbe chiederlo a Pecoraro Scanio) falcidiò mezza Europa. Certo, «liberava» i popoli, ma per poi assoggettava il suo dominio (o al dominio di qualche suo stretto familiare). Li «liberava» e li razziava, li depredava a mano bassa di oro, bestiame, derrate alimentari. I suoi “grognards” non erano seguiti dalle cucine da campo: in dotazione ricevevano una treccia d’aglio e tutto il resto erano costretti a reperirlo in loco, con le buone o con le cattive. Quando dieci-quindicimila di loro attraversavano una campagna, entravano in un villaggio, agli abitanti non restavano nemmeno gli occhi per piangere. E poi c’era lui, il barone Dominique Vivant Denon. Gentiluomo di corte di Luigi XVI, addetto al gabinetto d’arte della Marchesa di Pompadour, quando scoppiò la Rivoluzione si scoprì rivoluzionario. Caduto Robespierre intuì (i voltagabbana hanno l’intuito fine, per certe cose) che l’astro nascente si chiamava Bonaparte così che gli si mise alle costole e non lo mollò più. È, Denon, l’uomo che ripulì l’Europa, l’Italia in particolare, delle più importanti opere d’arte con le quali approntò il “Musée Napoléon”, oggi museo del Louvre. Poiché rubava per conto di Napoleone fu ritenuto – e tuttora lo è – un raffinato intellettuale progressista benemerito della cultura. Ma la verità, caro Riccobono, è che era un ladro, un fottutissimo ladro.” – Paolo Granzotto.

(a cura di Pino Rauti)




Nella Fiume di D'Annunzio c'era un po' di "sessantotto"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Continuano ad uscire articoli e libri sui “precedenti” del Fascismo, sui tanti filoni che vi confluirono. A dimostrazione di quello che abbiamo sempre scritto e sostenuto non solo circa la grande “complessità” del movimento fascista – e dunque, ovviamente e inevitabilmente, del regime che da quel movimento scaturì – ma anche della “ricchezza” dei suoi magmatici fermenti.

Dei libri, andiamo scrivendo a parte nell’apposita Sezione di questo Sito, ma, fra i tanti, un articolo ha attratto la nostra attenzione e intendiamo qui riprendere perché ci sembra particolarmente ben “concentrato” rispetto alla tesi cui ci riferivamo all’inizio di questa nota. E’ l’articolo – comparso su “Il Giornale” del 31/3/’05” – intitolato: “Quel Fiume porta a Roma”, con un sottotitolo importante: “L’impresa dannunziana del 1913 non fu il semplice prologo alla marcia mussoliniana del ’22. In quel crogiuolo di uomini e donne animati da spirito rivoluzionario c’è anche un po di Sessantotto…”.

Domizia Carafoli comincia, giustamente, … dall’inizio, scrivendo che: “E’ stata a lungo opinione diffusa e comune che l’impresa fiumana sia stata un prologo, una specie di prova generale della Marcia su Roma. Gli studi storici più seri e approfonditi hanno invece dimostrato che Fiume fu un fenomeno certamente parallelo al fascismo nascente e con il quale ebbe molti punti di contatto, ma in sostanza autonomo e con caratteri profondamente originali rispetto al movimento guidato da Mussolini. Certo l’humus in cui maturò l’impresa di Fiume è lo stesso in cui nacque e si formò il fascismo: la vittoria italiana tradita dal Patto di Londra che assegnava Fiume alla Croazia, la ribellione all’ordine costituito, la rivolta contro la politica del governo italiano considerata vile e rinunciataria, la ricerca di un “patto sociale” che consentisse di superare le violente contrapposizioni di classe che segnavano quel tormentato dopoguerra.

Anche le date confermano la “contemporaneità” di fascismo e fiumanesimo. – prosegue la Carafoli – Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fonda a Milano i fasci di combattimento con un programma “di sinistra” a netta connotazione laica e repubblicana. Il 12 settembre Gabriele D’Annunzio occupa militarmente Fiume accolto dalla popolazione in delirio e, un anno dopo, promulga la Carta del Carnaro (concepita dal sindacalista Alceste De Ambris e “rivisitata” nello stile dal poeta) con la quale proclama un nuovo ordine dal quale deve nascere lo stato rivoluzionario e corporativo.

Ma Fiume è anche qualcosa di più e di diverso da una passione nazionale e da un sogno di rinnovamento sociale. In quei quindici mesi che trascorrono fra l’occupazione e il tragico “Natale di sangue” del 1921 si vive a Fiume un’esperienza unica e irripetibile di libertà dalle convenzioni “borghesi”, una sorta di esaltazione collettiva, per cui nulla è impossibile e nulla è proibito. A Fiume, trascinati dal carisma del poeta-soldato, erano arrivati militari e studenti liceali, alcuni addirittura appena adolescenti, fuggiti da casa per raggiungere il Comandante; come il sedicenne Ettore Muti, battezzato da D’Annunzio «Gim dagli occhi verdi» e che parteciperà agli atti di pirateria degli «uscocchi» per approvvigionare la città affamata.

A Fiume arrivò tutta l’aristocrazia della guerra appena vinta, dall’eroe del Montello, Sante Ceccherini al giovane aviatore medaglia d’oro, Antonio Locatelli. A Fiume arrivarono Guglielmo Marconi e Arturo Toscanini. Ma vi arrivarono anche, come scrisse Giovanni Comisso in “Le mie stagioni «scrittori, anarchici, fascisti, socialisti, repubblicani, avventurieri, invertiti, delinquenti, uomini di buona fede, pescatori nel torbido, spie, prostitute…»”. Un crogiuolo di uomini e donne molti dei quali si credevano “legibus solut” e diedero vita a una sorta di trance collettiva nella quale non mancavano nell’alcol né la droga, tanto che alcuni sostengono essere stato Fiume il nostro primo Sessantotto. Il paragone è ardito ma sicuramente molte delle illusioni che daranno poi vita allo slogan «L’immaginazione al potere» furono prima sognate a Fiume come ben ha documentato la ricercatrice Claudia Salaris nel saggio, uscito nel 2002 per il Mulino, “Alla festa della rivoluzione”.

La sbornia finì nel sangue e con essa morì anche l’illusione di D’Annunzio di essere lui a guidare la riscossa della nuova Italia uscita dalla guerra, lui l’interprete e il realizzatore del grande sogno di una pacificazione nazionale sulla base di un corporativismo a forte connotazione sindacalista e rivoluzionaria. Fu il più realista, abile e spregiudicato Mussolini, dopo avere purgato il suo Movimento dalle correnti “di sinistra” vicine a De Ambris e alle esperienze fiumane, a presentarsi al re per consegnargli «l’Italia di Vittorio Veneto» e prendere il potere.

Alla Marcia su Roma parteciparono certamente numerosi ex legionari fiumani dei quali molti erano o sarebbero divenuti fascisti. Molti anche non avevano dimenticato l’appoggio dato dallo stesso Mussolini alla Reggenza del Carnaro e la sottoscrizione aperta sul Popolo d’Italia per aiutare i legionari. Ma da quel momento le strade di D’Annunzio e di Mussolini avrebbero preso direzioni diverse. Anzi il poeta, nonostante le esteriori manifestazioni di stima, si chiuse da allora in poi nel volontario esilio del Vittoriale. E quando Mussolini minacciò di crollare nel ’24, sotto lo scandalo del delitto Matteotti, se ne uscì con una durissima presa di posizione, definendo il fascismo «una fetida ruina».”

(a cura di Pino Rauti)




Nel libro di Woitila PERCHE’ IL FASCISMO NON E' "IDEOLOGIA DEL MALE"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Su “Il Domenicale” il settimanale di Dell’Utri, sono in corso in questa fase, numerosi dibattiti, tutti di grande interesse; come quelli sul 25 Aprile – Resistenza (che sarebbe una festa da abolire) e la guerra di Secessione americana (nella quale il problema schiavismo c’entrava poco o nulla). Abbiamo anche notato – e davvero meritevole d’essere conservato in Archivio – un recente articolo (16 aprile 2005) a firma di Nicola Guiso, dal titolo: “Il fascismo non è nato fra le «ideologie del male», parola di Del Noce. Eccone il testo completo:

Per Giovanni Paolo II – nel libro “Memoria e identità” (Rizzoli, Milano 2005) le “ideologie del male” sono il nazionalsocialismo e il comunismo. Non aver compreso tra esse il fascismo può destare sorpresa in chi considera i fenomeni storici epocali solo nella loro dimensione politica, economica e sociale. Ma il papa, nella risposta alla domanda su quali siano le radici del nazismo e del comunismo e le cause della loro caduta, dice che «gli interrogativi proposti hanno un profondo significato filosofico e teologico».

Risposta che lo pone in sintonia con la interpretazione «transpolitica» delle due ideologie proposta da Augusto Del Noce in un saggio su l’Ordine civile – quindicinale diretto da Gianni Baget-Bozzo – del 15 aprile 1960, dal titolo Idee per la interpretazione del fascismo. Saggio il cui valore culturale è stato sottolineato da Ernst Nolte nella prefazione all’edizione italiana del suo La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo (Sansoni, Firenze 2004), dove l’ha definito essenziale per maturare le sue tesi sulla natura dei due regimi.

Al centro la lotta politica

Del Noce e Baget avevano segnalato – unici e rimasti senza eco – il valore della comunicazione sulla «comune origine di comunismo e di nazionalsocialismo» svolta a Roma dal gesuita padre Gaston Fessard, nel novembre del 1946, al primo congresso internazionale di filosofia del dopoguerra. Per padre Fessard – ricorda Del Noce in un articolo su 30 giorni del febbraio 1983 – i punti essenziali erano che «al modo stesso del marxismo, il nazionalsocialismo è una coerente concezione del mondo», e che tale concezione è l’esatto contrario» del marxismo e del comunismo. Il valore dirompente di queste tesi è dato, per Del Noce, dalle sue conseguenze. La prima è che l’interpretazione della storia contemporanea non può che essere «transpolitica», nel senso di accentuare la priorità del momento filosofico – «la “filosofia che si fa mondo” del giovane Marx, smentendo le interpretazioni economicistiche e sociologiche correnti» dei due regimi. La seconda, che è il nazismo è l’esatto contrario del marxismo, «consegue che il parallelo dev’essere fatto tra comunismo e nazismo, piuttosto che alla maniera ordinaria tra fascismo e comunismo (contro l’opinione ordinaria si deve dire che il nazismo non è l’estremizzazione ultima del fascismo; che c’è una razionalità nella storia contemporanea e che l’alleanza col nazismo rappresentò non solo la fine pratica ma anche quella ideale del fascismo)».

Padre Fessard, annota Del Noce, marca acutamente la sintonia tra comunismo e nazismo, quando così osserva: «Comunismo e nazionalsocialismo si oppongono diametralmente, così in ciò che concerne il punto di partenza della storia come la sua fine: per il primo è il lavoro e la creazione della società senza classi e senza Stato; la lotta a morte e il dominio del popolo dei signori, per il secondo. Non si intendono che nel mezzo di condurre la storia al suo fine. Per entrambi è la lotta politica». Nelle due ideologie vi è, dunque, alla radice la simmetria di un giudizio sulla natura e i fini dell’uomo, della società e della storia avulso da ogni rapporto trascendente con Dio, e la simmetria sulla proposizione che l’uomo ha in sé il potere di modellare il corso della storia in direzione di obiettivi posti dal proprio “cogito”, senza vincoli morali relativi agli strumenti per realizzarli, posto che sono possibili e necessari. Ciò che è all’origine delle piramidi di morti e del fiume di sofferenze provocati dai due regimi.

Dal cognosco al cogito

Nel libro-intervista Giovanni Paolo II descrive la logica che ha portato a questo esito. «Nel corso degli anni – dice – si è venuta formando in me la convinzione che le ideologie del male sono profondamente radicate nella storia del pensiero filosofico europeo». E si affermano nel momento in cui il cartesiano cogito ergo sum si sostituisce al cognosco subordinato all’ esse «che era considerato qualcosa di primordiale. Da Cartesio invece l’esse – sia il mondo creato che il Creatore – rimane nel campo del cogito, come contenuto della coscienza umana. La filosofia si occupa degli esseri in quanto contenuti della coscienza, e non in quanto esistenti fuori di essa». Di qui la necessaria conclusione che dopo Cartesio la natura e i fini dell’uomo, della società e della storia, non hanno più radice nel rapporto tra creatura e Creatore, che implica diritti ma anche doveri e limiti oggettivi per l’uomo nel contribuire al realizzarsi della storia. Ma hanno radice nelle costruzioni che il pensiero realizza in se stesso; e dunque in primo luogo per impulsi materiali e istintuali opacizzati ed esasperati dalla colpa originale – presenti nella natura umana. «Il nazismo dunque – scrive Baget il 15 gennaio 1960 su l’Ordine civile – […] è l’estrema e radicale conseguenza dell’errore moderno (separazione della politica dall’ ethos). Come il marxismo esso ha la volontà di eliminare ogni convenzionalismo ipocrita, ogni mitica sovrastruttura e di chiamare le cose con il loro vero nome. Niente è diritto e tutto è forza, niente è ideale e tutto è reale». Quanto al fascismo, invece, il 15 dicembre 1959 scrive: «Per noi il fascismo è l’ultima forma dello Stato risorgimentale e della strumentazione della tradizione al giacobinismo e alla rivoluzione che allora venne compiuta». Interpretazione che ritiene in sintonia con quella che dello Stato risorgimentale aveva dato Guglielmo Ferrero.

E, a me sembra, con quella che emerge dal saggio di Giovanni Gentile Origini e dottrina del fascismo dell’agosto 1927, dove questi afferma che «la politica fascista si aggira tutta intorno al concetto dello Stato nazionale», considerato strumento insostituibile per dare risposte incisive ai problemi posti al popolo italiano dal processo di affermazione della sua identità, delle sue aspirazioni e dei suoi diritti avviato col Risorgimento, ed esasperato dalla realtà interna e internazionale determinata dalla guerra mondiale. Il fascismo, dunque, inteso non quale espressione dell’idea di un “uomo nuovo” o di una “umanità nuova”, tanto che sino al 1938 cioè sino alla contaminazione hitleriana – per Mussolini il fascismo non poteva essere “merce da esportare” . Ma quale strumento per la realizzazione di obiettivi politici insiti in un processo storico in atto, da realizzarsi, per Gentile, col perfezionamento e con “attualizzazione di valori e princìpi già operanti nella storia, quali il «pensiero e azione» mazziniano; lo Stato fascista quale vero «Stato democratico», in quanto non separato dalla nazione; il liberalismo che avrebbe trovato compimento nello «Stato corporativo» fascista, che «tende ad attuare in modo più intimo e sostanziale l’unità e il circolo dell’autorità e libertà».”




Ricordiamolo: Garibaldi era un "gran maestro"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Interessante; e tutto da seguire – per tenersene traccia in archivio – il dibattito che da qualche tempo è in atto sul rapporto tra Massoneria e Sinistra. Secondo quanto ha dichiarato in una recente intervista Aldo Alessandro Mola, storico, già docente all’Università di Milano – che è considerato il massimo esperto di massoneria in Italia, i DS sono ancora “l’unico partito dell’arco costituzionale ad aver mantenuto” il divieto contro la massoneria. E’ un divieto – commenta Mola sul “Corriere della Sera” del 29 dicembre scorso – “che arriva da molto lontano, dal quarto Congresso della Terza Internazionale del 1922 a Mosca. Fu allora che i comunisti fissarono il principio di incompatibilità con un’associazione, appunto la massoneria, considerata borghese. La scelta fu presa per mettere con le spalle al muro i comunisti francesi, diversi dai massimalisti russi, molti dei quali massoni. Il PCI, che era nato l’anno prima a Livorno, non fece che recepire la direttiva senza però condividerla troppo.

E perché non la condividevano molto?

Ai comunisti forse “piacevano” i massoni, chiede l’intervistatore, Marco Gasperetti? Ed ecco la risposta:

«Nei comunisti italiani c’erano molti “fratelli”, arrivavano dalla tradizione socialista. D’altra parte nella sinistra italiana, da Garibaldi in poi che è stato un gran maestro, i massoni sono sempre stati presenti e numerosi perché la massoneria ha una filosofia progressista».

Qualche nome, professore, chiede ancora Gasperetti.

«Andrea Costa, già leader del Partito socialista rivoluzionario della Romagna, prima di convertirsi al riformismo. E ancora Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati, Orazio Raimondo, Giovanni Lerda, fino ad arrivare a Lelio Basso».

Tutti socialisti, però. Ci sono comunisti?

Risponde Alessandro Mola:

«E’ comunista Bruno Sonnino, uno dei collaboratori più stretti di Palmiro Togliatti. E’ regolarmente iscritto al PCI Togliatti sa benissimo, ma tollera questa doppia appartenenza. E’ massone Domenico Coggiola, sindaco comunista di Torino nell’immediato Dopoguerra. Sono massoni due sindaci di Pistoia e tanti altri amministratori. Lo stesso Gramsci, nel maggio del 1925, in Parlamento interviene a favore della massoneria e più tardi, dal carcere, la giudicherà l’ala avanzata della borghesia».

(“avanzata”, annotiamo noi, nel gergo nazista significa “progressista”. E dunque anche Gramsci era favorevole alla Massoneria e contrario al “divieto” stabilito nel’22 a Mosca).

Ma per noi, la nota di rilievo e da sottolineare è la – confermata – appartenenza di Garibaldi alla massoneria, di cui anzi egli era Gran Maestro. C’è da rifletterci sopra. Per capire meglio certi “retroscena” del Risorgimento e anche l’accanimento con il quale si combatté contro i Borboni…

Ma oggi, a Sinistra, qual è la situazione?

«La Sinistra ha molti amministratori e politici massoni – risponde lo storico Mola – . I Ds pure, credo anche in Parlamento. Non sono dichiarati, ma nel partito in molti lo sanno e lo tollerano».

Quale sarà il futuro del rapporto tra massoneria e sinistra italiana?- gli viene ancora chiesto?

«Credo che il fantasma antimassonico sia destinato a scomparire per sempre. E’ un residuo della rivoluzione di ottobre e della guerra fredda, perché l’Urss considerava la massoneria il grimaldello degli Usa per penetrare nel suo sistema. Lo disse esplicitamente Nikita Kruscev a chi gli domandava perché Mosca fosse contrario alle logge. Pensi che oggi in Francia esiste un’ala della massoneria dichiaratamente trozkista».

A cura di Pino Rauti




E adesso si scopre che il generale Wolff non tradì Mussolini


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Non si finisce maidi “imparare”, in materia di storia; ed è quindi un bene prezioso che tutto – anche quello che si credeva ormai solitadamente acquisito – possa essere rimesso in discussione, inquadrato in contesti nuovi, insomma “revisionato” come si usa dire con un termine che è invece ritenuto, definito, contestato, come “politicamente scorretto”.

Per esempio, uno dei luoghi comuni più consolidati era il fatto che il generale Wolff, nei tragici giorni del tracollo della RSI, avesse “tradito” Mussolini, ansioso solo di salvare i tedeschi (e se stesso). Invece, non sembra affatto che le cose siano andate così; perché anzi il generale tedesco non solo mise in salvo numerosi esponenti fascisti – italiani e francesi – ma organizzò addirittura il salvataggio di Mussolini; che avrebbe commesso – nella confusione terribile di quei giorni – un grave errore di valutazione perché di Wolff sospettava.

Se ne è scritto nei giorni scorsi nella “lettera” a Mieli sul “Corriere della Sera”; e sull’argomento è tornato di recente Andrea Manzella, raccontando come 40 anni fa, a Barcellona, ebbe a conoscere Maurice Gabolde, che viveva fra gli stenti, ridotto a dare lezioni di francese. Il Gabolde, gli raccontò la sua storia:

“Alto magistrato, era stato Guardasigilli nel governo Pétain a Vichy.Negli ultimi giorni dell’aprile del 1945, i tedeschi .organizzarono una “exit strategy” per i collaborazionisti più importanti. Li trasportarono all’aeroporto di Bolzano, dove li attendevano due aerei. Su uno salirono, con altri, Gabolde, Pierre Lavai e sua moglie. Il secondo lima se vuoto, in attesa di altri fuggitivi. Non arrivarono mai. Giunse invece la notizia della loro fucilazione a Dongo: si trattava infatti di Mussolini e del suo seguito,. Fu allora che il generale Wolff, che aveva organizzato l’operazione, dette all’aereo dei francesi l’ordine di decollare: verso Barcellona.”.

Sempre secondo Manzella, avvenne che Franco concesse ai fuggiaschi solo 48 ore di sosta “poi, sarebbero stati espulsi”.

Fu allora che Laval decise “di andare a consegnarsi agli americani: e partì per il suo tragico destino. Gabolde riuscì ad imboscarsi a Barcellona. Pochi giorni prima, a Milano, nel referto sull’autopsia di Mussolini era stato scritto che nella tasca posteriore del suo pantalone vi era un salvacondotto spagnolo. La “pista spagnola” di cui ha parlato il Corriere qualche giorno fa, fu dunque molto più concreta di quanto fin qui noto?…”.

E Mieli risponde: “Caro Manzella, è vero: Benito,Mussolini avrebbe potuto portarsi in salvo quel 22 aprile del 1945. Poteva farlo proprio su un aereo in decollo alla volta della Spagna del tipo di quello di cui le parlò Maurice Gabolde e su cui viaggiò anche Pierre Laval. O dell’altro che portò nella penisola iberica l’attrice Myriam di San Servolo (al secolo Maria Petacci, sorella di Claretta), suo marito, i suoi genitori e il capo dei filonazisti belgi Léon Degrelle. E’ciò che risulta dall’ottima ricostruzione di Giuseppe Pardini nel saggio «Milano-Barcellona, ultimo volo» testè pubblicato su «Nuova Storia Contemporanea» (di cui ha riferito su questo giornale Enrico Mannucci). I tedeschi avevano predisposto il piano di fuga e Mussolini avrebbe potuto profittarne con discrete possibilità di salvarsi come fu per tutti (o quasi) coloro che scelsero quella via per lasciare i Paesi in cui stavano definitivamente sprofondando i regimi fascisti e nazisti…”.

Insomma – ed ecco la “revisione” che ne risulta, il generale Wolff tentò, alla fine non di far cadere Mussolini nelle mani degli alleati ma di metterlo fisicamente in salvo in Spagna.

Pino Rauti




Ecco gli americani in "Stupri di guerra"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Le violenze commesse dai soldati americani in Gran Bretagna, Francia e Germania – 1942/45 – Perché non si parla degli stupri in Italia.

 

Libro da leggere con attenzione estrema pagina dopo pagina, questo di J. Robert Lilly; e di cui diciamo qui con la dovuta ampiezza, pubblicando per intero la presentazione del volume.

*****

Precisiamo meglio l’argomento. «Come altri soldati di altri eserciti, anche gli americani si sono resi responsabili di stupri durante la Seconda guerra mondiale. Le donne inglesi e francesi erano alleate, quelle tedesche nemiche, ma tutte sono rimaste vittime, a migliaia, di quella esasperata violenza sessuale che è lo stupro.»

Il volto oscuro e sconosciuto dei «liberatori» rivelato da documenti e testimonianze drammatiche conservati negli archivi dei tribunali militari americani. Tra il 1942 e il 1945 circa 17.000 donne di tutte le età, inglesi, francesi e tedesche, furono stuprate da soldati americani. Cause, modalità e conseguenze di questo agghiacciante fenomeno sono analizzate con rigore storico e descritte con un linguaggio contenuto e privo di sensazionalismi.

La rilettura attenta degli atti dei .processi e la voce dei testimoni permettono di ricostruire la verità storica dello «stupro di guerra», vietato dalla Convenzione di Ginevra nel 1949 e riconosciuto come crimine di guerra solo nel 1996.

Ed ecco l’autore: J. Robert Lilly è professore di sociologia e di criminologia alla Northern Kentucky University negli Stati Uniti e professore associato di sociologia e politica sociale all’Università di Durham in Gran Bretagna.

 

“Le pagine che seguono sono la “presentazione”del volume di Massimo Zamorani:

La motivazione di base ha indotto Robert Lilly, docente universitario di criminologia, a impegnarsi nelle ricerche dalle quali è nato questo libro è determinata dal razionale scetticismo di fronte alla venerata icona del soldato USA, quale angelico rappresentante di ogni virtù umana. Valga, a titolo di esempio dell’agio grafia convenzionale, la prosa di Stephen Ambrose, considerato da molti il più popolare storico americano della Seconda guerra mondiale e autore, fra 1’altro, del famoso Citizen Soldiers pubblicato nel 1997 e che ha avuto grande diffusione non solo negli Stati Uniti.

«Immaginate un po’ questo. Nella primavera del 1945, in tutto il mondo, la vista di una squadra di una dozzina di adolescenti armati e in uniforme infondeva un sacro terrore nell’animo della gente. Che si trattasse di una squadra dell’Armata Rossa a Berlino, Lipsia o Varsavia o di una squadra tedesca in Olanda o di una giapponese a Manila, Seul o Pechino, bè, quella squadra significava stupri, saccheggi, ruberie, distruzioni a casaccio, uccisioni insensate. Ma c’era un’ eccezione: una squadra di GI, una vista che induceva ai più ampi sorrisi mai visti sui visi della gente e che riscaldava il cuore. E questo valeva in tutto il mondo, persino in Germania, persino in Giappone dopo il settembre 1945. Questo perché i GI significavano dolciumi, sigarette, razioni “C” e libertà. L’America aveva mandato la crema della sua gioventù in tutto il mondo, non a conquistare ma a liberare, non a terrorizzare ma ad aiutare. E stato un grande momento della nostra storia.» Questo è uno stralcio del libro di Ambrose, pagina 530 dell’edizione italiana pubblicata nel 1999 da Longanesi con il titolo Cittadini in uniforme.

Grazie alla martellante e danarosa propaganda americana, che ha bombardato il mondo per sessant’anni, l’opinione pubblica mondiale ha, in linea di massima, recepito e fatta propria, come verità di fede, questa oleografia storico-militare, tanto che nessuno ha mai pensato di sottoporre a verifica il comportamento reale degli arcangeli della libertà e della democrazia.

L’idea è venuta, come l’autore indica nell’introduzione a uno studioso, a un professionista, insospettito dal fatto che il comportamento dei soldati americani in Vietnam aveva rivelato un rovescio della medaglia ampiamente denunciato dai mezzi d’informazione. Era verosimile che i padri dei militari combattenti in Indocina, cioè i GI della Seconda guerra mondiale, non avessero avuto una faccia nascosta e fossero stati sempre, tutti e comunque, dei baiardi senza macchia? Ciò quando le atrocità di cui si erano resi responsabili militari di tutti gli eserciti erano state documentate in modo ampio e dettagliato? Una verifica si imponeva per stabilire la verità sul piano della storia; della sociologia, della criminologia. Le ricerche, i fatti, i documenti, le testimonianze raccolti hanno dimostrato che in realtà vi era una faccia nascosta, accuratamente e gelosamente celata per malintesa carità di patria e da questa ricerca è nato il presente lavoro.

Lavoro che non rivela la minima pretesa di adempiere a una funzione di denuncia, oppure la compiacenza di far sensazione svelando fatti scabrosi tenuti nascosti. Al contrario, il tono generale della prosa è contenuto, quasi dimesso, strettamente cronistico, nessuna ricerca di effetto. Il linguaggio è preciso, puntuale, tecnico, ma non intende fare grazia di eufemismi o attenuazioni, come è logico attendersi da un rapporto, da un verbale, da un resoconto. Viene riferito quello che serve per sapere, per comprendere, per interpretare i legami tra cause ed effetti, talvolta sottili e non facilmente individuabili.

Il procedimento è quello tipico dello studioso di fronte a un fenomeno: descrizione precisa nei dettagli e nelle circostanze, osservazione dei precedenti, analisi dei comportamenti e della dinamica degli eventi, individuazione delle relazioni fra cause ed effetti, interpretazione dei significati.

E quello che il lettore troverà nel testo di Lilly.

E da osservare che, nonostante l’approccio scientifico, le motivazioni rigorosamente storiche ed etiche, l’ineccepibile tecnica di attuazione, l’autore avverte il disagio, l’imbarazzo di trattare una materia che è sostanzialmente tanto anticonformista e iconoclasta da poter suscitare una reazione scandalizzata nell’opinione pubblica del suo Paese, al punto da esporlo al pericolo di subire un’ accusa di antipatriottismo che lui, da buon americano, faticherebbe a sopportare. Soprattutto dopo l’atroce 1l settembre 2001, in un momento di psicosi antiamericanista diffusa nel mondo. Proprio per dimostrare che la ricerca della verità non è affatto antipatriottica, l’autore ha voluto dedicare il suo lavoro ai suoi congiunti, padre e zii, che hanno combattuto con onore nella Seconda guerra mondiale. E’ per questi scrupoli – come egli stesso spiega – che non ha voluto far uscire il libro in coincidenza con le operazioni militari condotte dalle forze armate del suo Paese in Afghanistan e in Iraq. Di conseguenza l’edizione in lingua francese, e la presente in italiano, hanno anticipato la pubblicazione del volume nella versione originale inglese.

Il lettore italiano non può non chiedersi perché il lavoro di Lilly trascuri l’Italia: forse i GI si sono comportati in altro modo nel corso della dura campagna che ha insanguinato il territorio italiano dal giugno del 1943 all’aprile del 1945?

Interpellato, è lo stesso autore a chiarirci il dubbio. «Ho avuto qualche informazione, a questo proposito, ma non le ho approfondite, perché la Campagna d’Italia era considerata nel teatro operativo del Mediterraneo e Medio Oriente (MTO), mentre Inghilterra, Francia e Germania facevano per convenzione parte del teatro operativo europeo (ETO). Ciò comportava che ciascuno di questi scacchieri avesse la propria struttura giudiziaria militare (JAG Branch)

con giurisdizione sui reati commessi dai soldati in quell’ambito. Comunque sono a conoscenza di stupri perpetrati da militari americani su donne italiane, ma non ho studiato ancora questa casistica. So anche che ci sono stati militari americani condannati per violenze commesse in Italia. Vorrei essere più preciso: lo JAG/ETO a guerra finita compilò una relazione di sintesi sull’ attività svolta, mentre lo JAG/MTO e lo JAG/NATO (North African Theater of Operations) non lo fecero. Questa è la ragione per la quale non ho potuto ancora studiare i casi italiani, ma mi propongo di farlo.»

È di pubblico dominio lo scempio attuato in Italia dalle truppe coloniali francesi e in minor misura si è parlato degli stupri commessi dai militari indiani della 8^ armata britannica, mai si è accennato ai crimini di matrice americana: è Robert Lilly ad affrontare l’argomento per la prima volta. Proprio in tempi molto recenti (ci riferiamo al luglio del 2004), la Procura militare di Padova ha avviato un’inchiesta sugli eccidi di militari italiani e tedeschi, prigionieri disarmati, compiuti da soldati americani in Sicilia nel luglio del 1943, nei giorni immediatamente successivi allo sbarco. Anche questo è un tragico episodio, ma è giusto considerare che mentre in Italia era passato sotto silenzio, negli Stati Uniti aveva suscitato una vivace reazione e anche un seguito giu­diziario, tanto che uno dei responsabili del massacro era stato condannato ai lavori forzati a vita. È anche giusto riconoscere che la giustizia americana, e soprattutto l’opinione pubblica, sono sempre pronte a indagare, punire e deprecare eccessi e crimini commessi dai connazionali, cosa che non sempre accade in altri Paesi.

C’è ancora un aspetto dell’opera di Lilly che va considerato. È una sintesi storica dello stupro inteso come crimine contro l’umanità, concetto che sovrasta la stessa configurazione di reato militare, ma solamente – e incredibilmente in tempi molto recenti è stato recepito dall’ opinione pubblica mondiale. I movimenti femministi hanno l’indiscutibile merito di aver imposto questo principio all’ attenzione di tutti e di aver sensibilizzato le masse nei riguardi di quello che di certo è uno dei crimini più odiosi e più vili. Lo stupro di guerra, da sempre accettato in. modo tacito quasi come inevitabile conseguenza di un conflitto armato, viene oggi pressoché universalmente considerato un’ atrocità che in nessun caso ammette attenuanti.

In quest’ottica, al libro di Robert Lilly va riconosciuto il merito di contributo sostanziale non soltanto alla verità storica, ma anche all’ aver imposto all’attenzione generale – in termini rigorosamente oggettivi – un crimine orribile, sulla cui condanna tutti gli uomini potrebbero e dovrebbero essere d’accordo, senza eccezioni, senza riserve e senza concedere attenuanti di nazionalità, di religione, di condizioni ambientali o emotive.”.

Massimo Zamorani “Stupri di guerra” – J. Robert Lilly – pgg. 366, euro 16,00 – edizioni Murscia – Via Gioia, 45 – 2014 – Milano Telefono 02-67378500 – Fax 02-67378601.




Dopo la fine della guerra, nel '45 - I campi USA della "morte lenta"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Il genocidio dei prigionieri tedeschi nei lager degli americani e dei francesi, documentato in un libro con rivelazioni sconvolgenti.

“Peccato che non abbiamo potuto ucciderne di più” esclamò Eisenhower, prendendo nota del gran numero di prigionieri italo-tedeschi, caduti nelle sue mani alla cessazione delle ostilità in Tunisia. Ike era – come è noto – il “liberatore d’Europa” dal nazismo, il massimo campione dei diritti dell’uomo e della democrazia!

Il suo frenetico, viscerale odio per i tedeschi era ben conosciuto, ma solo l’incredibile omertà dei mezzi di comunicazione democratici di tutto il mondo e, in particolare, la sorprendente mancanza di coraggio della stampa germanica, hanno consentito di nascondere, fino ad ora, a quali vertici di brutalità e di crudeltà tale odio abbia portato, non solo durante le ostilità – basti ricordare gli orrendi bombardamenti che provocarono la morte di circa due milioni di civili in Germania e nei paesi dell’Asse – ma anche dopo, sugli inermi prigionieri. Ogni convenzione internazionale in proposito fu sfrontatamente stracciata dagli americani e dai francesi ai quali, alla fine della guerra, erano state consegnate molte centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi per lavori forzati “a titolo di riparazioni”.

Una sconvolgente documentazione è recentemente apparsa nella pubblicazione di un giornalista canadese, James Bacque, cui ha generosamente collaborato Ernest F. Fischer, un colonnello dell’esercito americano, recatosi pazientemente e ostinatamente a frugare, negli archivi militari, fra quei documenti che non si era ancora riusciti, frattanto, a far prudentemente sparire.

Insieme ai militari si trovavano anche donne, vecchi e bambini, fuggiti dinanzi all’avanzata delle truppe sovietiche, nell’illusione di sottrarsi ai massacri, ai saccheggi, agli stupri di massa che queste andavano compiendo dovunque.

Furono così rinchiusi in lager (200 americani nella Germania occupata e circa 1600 in Francia), alcuni grandissimi, dove generalmente non esistevano baraccamenti, oltre 4 milioni di uomini. Erano campi recintati di filo spinato, dove i reclusi vivevano perpetuamente all’aperto, esposti alle intemperie, al freddo o al sole ardente, senza servizi igienici. Essi dormivano la notte entro fosse da loro stessi scava te nel terreno per ripararsi, invase dall’acqua piovana, dal fango, da piccoli animali.

Le razioni alimentari vennero voluta mente sempre più ridotte, al di sotto del limi te di sopravvivenza, benché i depositi dei vincitori abbondassero di viveri. Persino l’acqua era crudelmente razionata: occorreva stare in coda per ore, talvolta una notte intera, onde procurarsi da bere.

Si diffusero in tal modo enormemente le malattie e i prigionieri morivano a centinaia, ogni giorno, di fame e sete, di dissenteria, di polmonite, di malattie cardiache. Il comandante francese di questi campi li definì bagni di morte lenta.

Con la complicità di De Gaulle si riuscirono così ad eliminare oltre 800.000, forse un milione di prigionieri. Gli altri, che avrebbero dovuto essere liberati e restituiti alle famiglie, furono invece trattenuti per anni e sfruttati come schiavi, a somiglianza di quanto faceva contemporaneamente Stalin, l’altro esemplare vindice della libertà e dei diritti umani.

Si compiva dunque la grande vendetta, ma oggi, cominciando a spezzare l’infame omertà di mezzo secolo si può già stabilire di quale stoffa fossero i liberatori contro i quali si batterono disperatamente i soldati della R.S.I. – Carlo Amedeo Gamba –

(James Bacque – Gli altri Lager – ed. Mursia, pag. 218 – Euro 16.000)