"Un playboy chiamato Mazzini"


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E’ proprio vero che non si salva più nessuno, del Risorgimento; e di quella “unità” che avvenne in modo tale da determinare poi, subito dopo e anche adesso, come ricaduta negativa ancora in atto, una serie di disastri.

Ma torniamo ai “personaggi” di quella che era sino ad appena 10/15 anni fa una indiscussa e indiscutibile epopea, senza ombre e senza macchie, senza i famosi “se” e i non meno noti “ma”. Torniamoci per segnalare un’intera pagina comparsa di recente su “Libro” – a firma del lucido ricercatore storico che ha nome Gianfranco Morra – a proposito di Mazzini.

Morra segnala anzitutto che Genova – dove ci stiamo avvicinando all’anno mazziniano con – tra tante altre iniziative – un grande convegno – Genova, dunque, festeggia il 2° centenario della nascita di Mazzini (22 giugno 1805), “senza retorica né luoghi comuni”.

E il titolo del lungo articolo, dice tutto: “Un playboy chiamato Mazzini”; perché: Il patriota «ascetico e misogino» raccontato dalle cronache e dalla storia in realtà era un libertino.

Per l’esattezza – e Morra lo ricorda – Mazzini era stato già come “mummificato da Carducci” (in un “bolso sonetto”) ma adesso viene fuori ben altro: un “single”, votato solo alla patria e alla causa, che aveva come modello di donna, sua madre, fu in realtà e appunto un “libertino”, che ebbe rapporti intensi con decine di donne. Come dimostra la pubblicazione di parte delle sue lettere, una minima, davvero minima parte, perché di lettere Mazzini ne scrisse ben 40.000!

“E su le in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, dovunque lasciava cuori trafitti…” Vi furono, tra tante, “passioni senza esito” – come quelle per l’inglese Marianna Thomas e per la madre di Goffredo Mameli – e relazioni da cui nacque un bambino: come avvenne con Giuditta Belleria sposa del «carbonaro» Giovanni Sidolo, condannato a morte in contumacia e già madre di quattro figli….

“Un playboy romantico” – ecco la conclusione di Morra – “una qualità che nulla gli toglie, anzi molto gli aggiunge in umanità”. Ma con ogni evidenza, c’è ancora molto da scavare in quelle 40.000 lettere, c’è ancora molto da scoprire. In particolare dai molti aiuti concreti che Mazzini riuscì ad ottenere dalle donne.

Pino Rauti




"Sicilia '43, sette soldati USA indagati per i massacri"


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“L’istruttoria della Repubblica militare di Padova dopo l’inchiesta del “Corriere della Sera” e un’altra fonte italiana ricorda: anche a Butera ci arrendemmo e loro spararono”.

I nomi: i militari USA indagati per l’uccisione nel ’43 di 73 prigionieri e 8 civili: capitano John Compton, tenente Richard Blanks, sergenti Jim Hair e Jank Wilson, soldati John Gazzetti, Raymond Marlow e John Carrol.

Tutto quanto sopra si legge a pag 13 del “Corriere della Sera” del 31 ottobre scorso in un articolo a firma di Gianluca di Feo. C’è anche un secondo piccolo “incorniciato” in cui e detto: “Nuovo caso superstite. Bruno Vagnetti ha descritto la vicenda della sua squadra catturata dagli americani a Butera nel luglio del ’43. <<Dopo 700 metri ci spararono alle spalle, Un commilitone morì subito, in tre restammo a terra feriti”

Ed ecco, per intero, il testo dell’articolo di Gianluca Di Feo:

«Gli americani ci sorpresero alle pendici di Butera mentre stavamo caricando il nostro cannone su un camion. Erano le tre di notte del 13 luglio 1943: un bengala illuminò tutto a giorno e loro ci puntarono contro i mitra. Uno ci urlò in dialetto siciliano: “Alzate le mani. Venite accà”. Noi obbedimmo. Ci fecero camminare per settecento metri. Poi cominciarono a spararci addosso con i mitra. Io fui centrato nello stomaco, ma sono sopravvissuto».

Bruno Vagnetti oggi ha 82 anni: vive a Perugia e non riesce a dimenticare quella notte. E la sua testimonianza va ad allungare l’elenco degli eccidi contro prigionieri e civili compiuti dai militari statunitensi nei primi giorni dello sbarco in Sicilia. Lo scorso giugno, il Corriere ne rivelò cinque. Adesso la lista nera si è allungata e comprende almeno nove differenti episodi. Portano quasi tutti la firma della 45esima Divisione, mentre la vicenda descritta da Vignoni probabilmente è stata opera dei Ranger che espugnarono Butera.

Su questi fatti vuole fare luce la Procura militare di Padova, che sta cercando di ricostruire la mappa dell’orrore. Il procuratore Sergio Dini ha identificato e iscritto nel registro degli indagati sette americani che presero parte alle esecuzioni. Ora l’Interpol dovrà accertare se sono ancora in vita: in tal caso, risponderanno della morte di 36 artiglieri, 37 ‘avieri e otto contadini. Ma la lista rischia di essere molto più lunga e raccogliere più di 220 vittime.

I magistrati hanno scoperto i nomi dei sette americani grazie agli atti dei due processi celebrati dagli americani nell’agosto del ’43 mentre in Sicilia si stava ancora combattendo proprio di fronte al dilagare aI segnalazioni sull’uccisione di prigionieri, vennero subito istruite due corti marziali per giudicare i casi più eclatanti. Una decisione senza precedenti, che forse testimonia la volontà di frenare il ricorso indiscriminato alla vendetta su chi alzava le mani. E’ come se l’inattesa resistenza italo-tedesca nella zona di Gela avesse fatto perdere la testa alle divisioni di punta del generale Patton. Alcuni soldati non dormivano da giorni, molti recitano gli atti della corte – erano sotto l’effetto di psicofarmaci.

Nel primo processo il sergente Horacio West fu riconosciuto colpevole dell’omicidio di 37 italiani e tedeschi, che lui stava trasportando verso le retrovie. Fu condannato all’ergastolo, ma dopo pochi mesi venne liberato nel timore che la famiglia facesse arrivare ai giornali la notizia del massacro: sarebbe morto combattendo in Bretagna. La seconda corte marziale esaminò il caso del capitano John Compton, che fece fucilare 36 italiani catturati in un bunker dell’aeroporto di San Pietro. Compton fu assolto proprio perché dimostrò che esisteva un ordine di Patton: «Il generale ci ha detto: “Anche se cercano di arrendersi, non lasciateli vivere”».

E’ quello che accadde alla squadra di Vagnetti. I cinque fanti del 34 o Reggimento con il loro piccolo cannone da 47/32 avevano partecipato al contrattacco di Gela, che stava per far fallire lo sbarco Usa. «Da Butera dovevamo ritirarci su Piazza Armerina. Quando ci hanno sorpreso avevamo posato le armi per spingere il cannone sul camion. Poi quelle raffiche alle spalle, nel buio. Il sergente Baraldo, che veniva dal Veneto, morì subito. Io, un fante calabrese e il sergente Bertamè di Milano venimmo abbandonati feriti. Un quinto uomo, il sergente Tamborino di Milano, invece era praticamente illeso: fu lui a trascinarci lontano dalla strada. Rimanemmo nascosti per ore. Poi chiedemmo aiuto perché perdevamo troppo sangue: una colonna americana ci raccolse. Ma, quando gli raccontavo cosa ci fosse successo, loro ridevano e mi prendevano in giro: “Sei un pazzo, noi non spariamo ai prigionieri”».

Gianluca Di Feo

(a cura di Pino Rauti)




Pagine da aggiungere al "sangue dei vinti"


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Lo abbiamo saputo da sempre, quello che era successo – di sanguinoso e di “barbaro” – al Nord, dopo il 25 Aprile, spesso ne abbiamo scritto e molti libri – primi fra tutti i volumi interi che Pisanò dedicò, documentatissimi, a quelle vicende – ne fanno testo. Ma è stato solo negli ultimi mesi e dopo il clamoroso – e coraggioso! – libro di Pansa in materia che la verità è emersa agli occhi della opinione pubblica più vasta. Al “Sangue dei vinti” si aggiungono così, si può dire ogni giorno, altre pagine.

Una pagina intera l’ha pubblicata ad esempio “Il Giornale” del 2 novembre scorso, con articoli di Carlo Cozzi e il “parere” dello storico Roberto Chiarini.

Scrive il prof. Chiarini – che è docente di Storia contemporanea all’Università Statale di Milano e presiede il “Centro Studi sulla RSI” – che questa del “Giornale” è, appunto, “un’altra pagina di normale, quotidiana brutalità, in cui sembra perso persino il normale comune sentimento di umanità, “qualcosa” insomma, che dovrebbe essere una eccezione “ma che è purtroppo storia corrente in tempo di guerra civile. Un’altra pagina da aggiungere al voluminoso libro che, dopo Pansa, tutti ormai chiamano <<Il sangue dei vinti>>.

E così prosegue: “Una pagina quindi che, da questo punto di vista, di per sé non aggiunge nulla di nuovo all’ orrore di quei giorni. Solo cinque croci in più da aggiungere alle ventimila già erette. Se il bilancio dei giovani ex-militi della Rsi fatti fuori a guerra terminata si appesantisce, non per questo è da rivedere il giudizio storico su quella tragica vicenda. Non è contando i morti e nemmeno gonfiando la macabra contabilità degli eccidi consumati per pura volontà di vendetta o per il soprassalto di una ferocia che può essere motivata solo invocando la consuetudine con la morte propria dei tempi di guerra, che si può far cambiare il significato di una partita in cui era in gioco la riconquista di una libertà conculcata. Ma, assodato questo punto, non si può dichiarare che ogni questione è chiusa. Sorgono spontanei invece almeno due. interrogativi. L’uno connesso al silenzio, quasi una volontà di rimozione, se non di occultamento di quegli anni. Un altro relativo alle tante «rivelazioni» – ma, per lo più, riguardano vicende già acclarate, anche se trascurate – di questi ultimi anni. Si può capire che una Repubblica tanto bisognosa di legittimità come la nostra priva com’era di precedenti esperienze larghe e prolungate di democrazia partecipata, al suo sorgere avesse bisogno di un mito fondativo. Questo non poteva che essere costruito sull’ epopea, ancora palpitante, della Resistenza. Quel che sorprende è che questo mito sia stato costruito rifuggendo dal riconoscere la verità; pur incontrovertibile, delle violenze perpetrate da parte dei partigiani, e in particolare delle tante consumate all’indomani del 25, aprile. La stampa ostile alla sinistra ebbe un bel prodigarsi, già nell’immediato, a documentare gli eccidi, ad esempio, del «Triangolo della Morte». I vari Giannini o Guareschi e, più tardi, i vari Pisanò hanno avuto un bel chiedere conto di quelle drammatiche uccisioni. Tutto è stato inutile. Invece di accettare l’evidenza dei fatti e ripartire da quella tragica pagina per rilanciare le proprie ragioni a sostegno della democrazia appena riconquistata, da parte antifascista si è preferito far affidamento sulle ragioni dei vincitori per misconoscere anche l’onore delle sepolture ai vinti. A distanza di tempo, bisogna riconoscere che questa sarà anche stata una scelta obbligata per certi versi nella temperie di quegli anni, ma è difficile non convenire oggi che non è stata una scelta lungimirante. Perché ha alimentato negli sconfitti la convinzione di essere doppiamente vittime. Perché non ha fatto conto che la verità paga, sempre, oltre al fatto che – non è difficile, prevedere – prima o poi viene a galla. Perché tradisce quasi il timore negli, antifascisti che la loro causa non avesse una forza intrinseca così spiccata da imporsi senza un addomesticamento della verità. Al silenzio degli anni della Guerra Fredda fa contrasto la debordante voglia di verità di questi ultimi anni. La favorisce il clima meno intossicato di passioni politiche contrapposte succeduto alla caduta del comunismo. La incoraggia la ricerca di una memoria del passato recente meno irriducibilmente lacerata. La reclama anche chi fa del riconoscimento della buona fede o della fede testimoniata con il sacrificio della propria vita il passaggio obbligato per ottenere una pacificazione e possibilmente per far passare, di contrabbando, l’equiparazione delle opposte ragioni dei combattènti di allora. La pericolosità della manovra non giustifica comunque che da questo accertamento di verità bisogna passare per ottenere, non un’impossibile memoria condivisa, ma una memoria non, cieca, anche se inconciliabile sul piano dei valori”.

Il titolo dell’articolo di Carlo Cozzi, è “Il triangolo della morte” ed è accompagnato da una grande foto, di un reparto di giovani volontari della RSI, con accanto la foto piccola di Marcello Cozzi; egli “aveva appena 18 anni. Non aveva mai combattuto. Fu assassinato dai partigiani con gli altri passeggeri della <<corriera fantasma>> nel maggio del ‘45”. Il 19 maggio del 1945, quasi un mese dopo il 25 Aprile. Ed ecco il testo dell’articolo:

“«La verità ci fa liberi», così Giorgio Zavagli, medico «geriatra, docente all’Università di Ferrara, riassume e definisce, parafrasando un versetto del Vangelo di Giovanni (VIII, 32), il senso di quella che potremmo definire una “missione laica”, che lo ha spinto da più di un trentennio – lui, liberale fermamente legato ai valori della democrazia – a operare per la conservazione della memoria di cinque ragazzi la cui giovanissima vita fu sacrificata nel lontano 1945, nei mesi successivi alla liberazione dell’Italia del Nord, nelle campagne del tristemente famoso “triangolo della morte”.

L’avventura di cui diventa protagonista Giorgio Zavagli comincia nel 1968, quando in un fondo del comune di San Possidonio, piccolo centro della Bassa modenese, vengono alla luce i resti mortali di cinque ragazzi appena diciottenni, allievi della scuola militare di Oderzo della Rsi, i cui corsi gli stessi avevano frequentato per otto mesi fino al 25 aprile, impegnati negli studi e nelle esercitazioni d’accademia. Del camion della Pontificia Opera di assistenza con cui a metà maggio 1945 erano partiti da Brescia per ricongiungersi con le loro famiglie al Sud si erano perse le tracce a Concordia, altro comune del “triangolo” dove l’automezzo era stato fermato da reparti della “polizia partigiana” del luogo.

Il ritrovamento era stato reso possibile dalla rivelazione-confessione resa, da un ex partigiano che aveva reso parte all’eccidio, al medico condotto di San Possidonio dottor Pivetti. Questi a sua volta aveva riferito all’amico e collega Zavagli, come l’ex partigiano comunista, appreso di avere pochi mesi di vita per un tumore, gli avesse rivelato i particolari terrificanti di quel massacro, decidendo di inviare ai carabinieri una descrizione anonima dei fatti e indicando in un sommario schizzo topo grafico il luogo dove i corpi erano stati interrati dopo l’esecuzione avvenuta nella notte del 19 maggio 1945. Il medico condotto ripete a Zavagli il racconto di orrori confessato dall’ ex componente della “polizia partigiana”, di come da quei ragazzi, trascinati seminudi e insanguinati sul luogo dell’esecuzione, si levassero strazianti invocazioni alle mamme, urla che per anni avevano risuonato negli incubi di colui che aveva sparato e ucciso in quella notte maledetta. Da quel giorno del 1968, il docente universitario comincia a immedesimarsi nella tragedia delle vittime e delle loro famiglie. Consapevole che «i morti sono tutti uguali e che la storia non deve essere scritta con una penna sola», dedica tutto il suo impegno perché quella tragedia della guerra civile non sia diménticata sotto una cappa di silenzio ma perché il riconoscimento del martirio patito da giovani che non avevano alcuna colpa potesse contribuire alla pacificazione, nel recupero di una memoria storica condivisa come fattore fondante di una ritrovata coesione e unità nazionale.

Zavagli dunque acquista una striscia di terreno nella campagna di San Possidonio proprio dove, in una fossa comune, vennero ritrovati i resti delle vittime. Sempre a sue spese fa fondere una croce di bronzo alta cinque metri, che oggi alle 11, in occasione della festività dedicata ai defunti, viene innalzata e consacrata. Una croce che dominerà le campagne di San Possidonio in segno di espiazione e perdono.

Ma torniamo a 35 anni fa, quando prese l’avvio l’avventura morale di Giorgio Zavagli, intrecciandosi con l’orrore della tragedia. È un pomeriggio del 14 maggio 1945; la guerra è finita da quasi un mese, i tedeschi hanno abbandonato l’Italia, la democrazia ha trionfato. In una piazza di Brescia una piccola folla si accalca intorno ad alcuni camion che inalberano la bandiera pontificia. Sono gli automezzi che la Pontificia Opera di assistenza ha messo a disposizione dei reduci e degli sfollati per consentire loro di tornare a casa e ricongiungersi con le famiglie rimaste oltre la Linea Gotica. I collegamenti ferroviari infatti non sono,

stati ancora riattivati fra il Nord e il resto d’Italia. In quel campionario di umanità che ha attraversato le tempeste della guerra ci sono molti ex internati nei lager nazisti. E ci sono anche cinque diciottenni ancora quasi imberbi: cinque giovani ex allievi della scuola di Oderzo della Guardia Nazionale Repubblicana, muniti di un lasciapassare rilasciato dal Cln di Oderzo, dove i giovani per otto mesi sono stati impegnati in studi ed esercitazioni senza mai partecipare a scontri armati con i partigiani, rastrellamenti o esecuzioni. Ora vogliono soltanto tornare a casa.

Il camion con a bordo i cinque ragazzi parte da Brescia assieme ad altri automezzi diretto a Bologna per la via di Mantova, passa il Po a San Benedetto ma, giunto a Moglia, piccolo centro al confine tra le province di Mantova e Modena, del veicolo si perdono completamente le tracce. Svanito nel nulla Nei giorni seguenti i parenti dei passeggeri scomparsi, molti dei qua1i hanno annunciato per posta l’imminente partenza da Brescia

per far ritorno a casa, si mettono alla ricerca dei loro cari, vagando in un disperato pellegrinaggio fra campi di concentramento alleati, stazioni dei carabinieri, posti di polizia, carceri. Ma alle loro domande risponde un muro di silenzio e di omertà:

Le indagini dei carabinieri – che porteranno poi a un’istruttoria giudiziaria e a un processo in Corte d’assise con imputati alcuni membri della Polizia partigiana della Bassa – accertano che il camion era stato fermato a Moglia da un reparto armato della polizia partigiana che aveva proceduto all’arresto di un primo gruppo di passeggeri. L’automezzo era stato fatto poi proseguire ma, poco dopo, nel vicino comune di Concordia, era stato di nuovo fermato a un posto di blocco della locale polizia partigiana i cui membri erano tutti militanti comunisti. I viaggiatori furono fatti scendere e rinchiusi nelle soffitte di Villa Medici dove già risultavano imprigionate molte persone, uomini e donne, tutte fermate al posto di blocco.

La sentenza della Corte d’assise di Viterbo (che processò e condannò nel 1951 alcuni

componenti della polizia partigiana di Concordia per sequestro di persona e omicidio continuato e aggravato) riporta le testimonianze di persone che riferivano che «di notte si verificavano gli interrogatori dei fermati e si udivano grida e lamenti che a mala pena erano soffocati dal suono di una radio che i partigiani facevano funzionare ad altissimo volume». Gli stessi testimoni rivelavano i nomi dei responsabili dell’uccisione di 16 prigionieri, avvenuta la notte fra il 16 e il 17 maggio, responsabili che venivano condannati ciascuno a 25 anni di reclusione.

Concordia si trova al centro del cosiddetto “triangolo della morte” rimasto tristemente noto per il numero impressionante di eccidi commessi nei mesi successivi alla liberazione di cui rimasero vittime non soltanto fascisti ma anche sacerdoti, professionisti, industria-.

li, donne e privati cittadini, spesso sulla base di un semplice sospetto o perché ritenuti possibili avversari dell’ avvento di un regime comunista in Italia.

Nel 1968 poi, in un campo del vicino comune di San Possidonio venivano ritrovati, interrati in un ex fossato anticarro, i resti di cinque persone. L’autopsia accertò che la morte era stata causata da colpi d’arma da fuoco e da violenti colpi inferti con una vanga. Il ritrovamento era avvenuto sulla scorta della segnalazione giunta ai carabinieri di Carpi nella quale si precisava che nella notte fra il 18 e il 19 maggio 1945 i fermati erano stati trasferiti da Carpi a San Possidonio e lì, in località Dugole Valletta, passati per le armi da appartenenti alla polizia partigiana di alcuni dei quali si segnalava l’identità, peraltro confermata da numerosi testimoni che rivelarono di essersi imbattuti quella notte in un gruppo di persone seminude e legate tre a tre, scortate dai partigiani e provenienti dalla ex casa del fascio.

Nella sentenza istruttoria del giudice Walter Boni del Tribunale di Modena, in cui il capo e tre membri della polizia partigiana di Sari Possidonio erano imputati di omicidio plurimo pluriaggravato, si legge: «Dalle indagini peritali è altresì risultato che i fermati furono percossi a sangue». Faceva parte del gruppo delle cinque giovani vittime innocenti, mio fratello Marcello, classe 1926, matricola dell’università di Roma, facoltà d’Ingegneria. Nel 1952 venne concessa a mia madre la pensione di guerra per il figlio caduto a San Possidonio.”

E c’è ancora, un “incorniciato”, con il titolo “I luoghi del massacro – Una croce sulla fossa comune”, un altro articolo. Eccolo:

“Aveva scritto: «Mamma torno a casa» la lettera, spedita il 14 maggio, arrivò a Roma, dove Marcello Cozzi abitava con la famiglia, il giorno 20 la sera prima, il 19, Marcello era stato fucilato dalla «polizia partigiana». Sul camion (impropriamente chiamato poi corriera) che proveniva da Brescia, con issata la bandiera bianca e gialla del Vaticano, pare viaggiasse un’ottantina di persone. Fra queste sei ragazzi allievi ufficiali della scuola militare della Rsi di Oderzo: Marcello Calvan, Marcello Cozzi, Niccodemo Della Gerva, Franco Gottardi, Cesare Iannoni Sebastiani, Roberto Lombardi, Sergio Piccinini. Non avevano mai preso parte ad azioni di guerra né a rastrellamenti antipartigiani. Tutti furono uccisi e gettati in una fossa comune vicino a San Possidonio, dove oggi viene eretta la croce in loro memoria. Alcuni giorni dopo, il padre di Marcello Cozzi, non vedendo arrivare Il figlio, si recò a Brescia e poi sui luoghi dove il camion avrebbe dovuto transitare. Domandò ai carabinieri e alla polizia, composta da molti ex Partigiani. Non ebbe risposta. La risposta arrivò molti anni dopo, quando sì diede un nome alle ossa (o almeno a gran parte delle ossa) che andavano affiorando dalle campagne del «triangolo della morte». La madre di Marcello, che non si era mai rassegnata all’idea che il figlio fosse stato ucciso, mori prima di poter assistere all’ esumazione dei suoi resti. L’eccidio di San Possidonio non è l’unico del genere. Alcuni giorni prima, il 14 maggio, la stessa sorte era capitata ai passeggeri di un altro camion, anch’esso messo a disposizione dalla Pontificia Opera di Assistenza di Brescia, sul quale viaggiavano circa 25 persone fra civili, militari, ex internati e lavoratori reduci dalla Germania. A Maglia, ancora in provincia di Mantova, i passeggeri furono prelevati dalla «polizia partigiana» del vicino paese di Concordia, rapinati e massacrati. Difficile fu dare un’identità alle vittime, anche le indagini dell’Istituto di medicina legale di Modena su centinaia di frammenti di ossa umane non riuscirono in molti casi a portare alla identificazione”.

P.R.




Togliatti: ecco chi fu l'assassino di Gentile


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Su Togliatti quale “moderato”, un politico che era sì venuto dalla Russia ma che si era poi calato a tal punto nella realtà italiana tanto da diventare oggettivamente una sorta di <<scudo>> da Mosca, negli scorsi anni sono state scritte – a sinistra – intere biblioteche che oggi stanno andando piano piano e silenziosamente al macero, man mano che emerge – un po’ dai “pentimenti” e dalle abiure di taluni ex comunisti e molto dagli Archivi e dalle ricerche storiografiche – un Togliatti che invece “filosovietico” fu nei momenti essenziali e sui problemi più importanti; e basti pensare a Trieste e alle Foibe. Adesso, è venuta fuori la vicenda dei retro scena dell’assassinio di Gentile, atto “duro” e spietato come pochi altri nella tempesta della guerra civile che allora imperversava in Italia. E risulta, secondo le ultime acquisizioni storiografiche, quell’assassinio fu voluto soprattutto da Togliatti.

Abbiamo sott’occhio l’intera pagina che in proposito ha dedicato “Il Giornale” del 1 novembre scorso, con un inchiesta firmata da Eugenio Di Rienzo. Il titolo, a tutta pagina è: “Ucciso in nome del trasformismo” – e sopra leggiamo: “Gentile – Documenti storici dimostrano che la sua eliminazione porta la “firma” di Togliatti. L’esecuzione avvenne il 15 aprile del ‘44 ma da oltre un anno era in atto una campagna contro di lui”.

Ma ecco il testo completo dell’articolo di Eugenio di Rienzo, che si ri fa al libro recentissimo di Francesco Perfetti: “Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico”. Del libro di Perfetti, ovviamente, torneremo a scrivere per come l’autore e l’argomento meritano, ma intanto ecco l’articolo di Di Rienzo:

 

“Ricca e abbondante la messe del dibattito giornalistico di questa estate, che ha visto concentrare l’ attenzione delle maggiori testate nazionali su tre temi diversi ma in realtà strettamente correlati: la costruzione dell’ egemonia culturale comunista, le ipotesi relative all’esecuzione di Mussolini e quelle che riguardano l’assassinio di Giovanni Gentile.

Su quella morte, avvenuta il 15 aprile del 1944, nei sobborghi di Firenze, ad opera di un gruppo di fuoco del Pci, si è veramente detto di tutto e di più, contribuendo ad ingigantire la cortina fumogena, fatta di false ipotesi e deliberati depistaggi, che ha avvolto la fine violenta del più grande filosofo italiano del ‘900. Alla pista fascista, secondo la quale Gentile venne eliminato dagli ambienti dell’estremismo repubblichino, per il suo tentativo dì gettare un ponte ideale tra i contendenti della guerra civile, a quella dei servizi segreti inglesi, occulti mandanti dell’esecuzione, a quella ancora più fantasiosa della vendetta massonica, si sono aggiunte ancora altre supposizioni. E, mentre alcuni intellettuali non hanno perso l’occasione dì sporcare la loro canizie, rivendicando la giustizia dì quell’eccidio, è anche affiorata l’ipotesi dì un delitto motivato da ragioni erotiche, per le quali il partigiano-conserviere, Bruno Sanguinetti, avrebbe armato la mano della pattuglia gappista per vendicare l’uccisione del fratello della sua fidanzata, Teresa Mattei, trucidato a Roma dalle SS.

La storia di uno degli episodi più oscuri della guerra italo- italiana ha conosciuto cosi una contaminazione di generi letterari (fantapolitica, spy-story, melodramma), tale da costituire un intricato nodo gordiano, che ora Francesco Perfetti si è incaricato dì dirimere con la forza degli argomenti. Volutamente provocatorio e non «politicamente corretto» fin dal titolo (Assasinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Le Lettere), il volume di Perfetti fa giustizia dì molte divagazioni storiografiche sull’ argomento, grazie ad un imponente apparato documentario in molti casi inedito. Viene così confermata la tesi della diretta responsabilità dei vertici nazionali (lel Pci nell’uccisione del filosofo, contro le supposizioni tendenziose avanzate da Luciano Canfora, in un volume del 1985, più recentemente rilanciate da Emanuele Macaluso, in un articolo sul Corriere della Sera dello scorso agosto, secondo il quale l’assenza di Togliatti dall’Italia costituirebbe prova irrefutabile della sua estraneità con l’accaduto.

Come Perfetti documenta, la sentenza di morte contro Gentile portava invece la firma del massimo dirigente del Pci e veniva emanata da Mosca, già in una trasmissione radiofonica del giugno 1943, dove si sosteneva che «la santa rivolta della nazione contro i suoi tiranni ci libererà finalmente anche da questo filosofo venduto ai nemici della patria». Era l’avvio di una preordinata strategia pubblicistica, che avrebbe coinvolto i massimi responsabili della politica culturale del Pci. In appoggio al sanguinoso auspicio del «compagno Ercoli», interveniva Eugenio Curiel, il 5 gennaio 1944, affermando che la gioventù italiana avrebbe fatto presto sentire a tutti gli «intellettuali traditori», cosa significa «tradire la patria e la civiltà italiana».

Il 23 marzo 1944,Mario Alicata denunciava la . collaborazione degli intellettuali alla Rsi e annunciava che la giustizia popolare avrebbe senza indugio fatto pagare il «prezzo del loro tradimento». Minaccioso era anche l’avvertimento di Concetto Marchesi già nella sua prima versione, pubblicata in Svizzera nel febbraio del 1944. A questa poco avrebbe aggiunto la successiva interpolazione di Girolamo Li Causi, uno dei maggiori esponenti del partito comunista nell’Italia settentrionale, che recitava: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!».

Alle rivoltellate di Firenze, seguiva poi l’immediata rivendicazione del Pci e una nuova campagna di odio, che si sarebbe trasformata in vera e propria dissacrazione del cadavere. Al duro commento di Togliatti del 23 aprile, che annunciava una campagna di violenta epurazione contro gli intellettuali collusi con il regime fascista, faceva eco l’articolo di Antonio Banfi che si concludeva affermando che la stessa «crudeltà della morte di Gentile appariva sproporzionata alla persona, e sembrava gettare non una luce tragica, ma un senso di grottesco su una vita e su un’anima mediocre». Erano gli accenti violentissimi di una condanna che dopo l’eliminazione fisica esigeva anche l’omicidio morale.

Accenti che sarebbero stati ripresi da esponenti di altre formazioni politiche. Se i gruppi azionisti fiorentini avevano infatti dissociato la loro responsabilità dal crimine, diverso era l’atteggiamento del Pda settentrionale, che per bocca di Carlo Dionisotti, in un intervento che a lungo e forse non immotivatamente sarebbe stato attribuito a Franco Venturi, paragonava la fine di Gentile a quella del «giocatore abbandonato dalla sorte e ostinato al gioco nella speranza del successo». Né più pietosi erano i commenti di un altro azionista, Egidio Meneghetti, che di Gentile faceva soltanto il «filosofo del manganello», e, quindi, il responsabile, morale se non materiale, dell’eccidio di Matteotti.

Certi quindi i mandanti dell’omicidio del filosofo, ma è ancora non del tutto chiarito il movente. Ed è in questo punto che l’interpretazione di Perfetti mostra a pieno tutta la sua originalità, sostenendo che l’assassinio del filosofo costituì il primo indispensabile atto della costruzione dell’ egemonia culturale delle sinistre nel nostro Paese. Avvenimento che non trovava giustificazione di alcun genere – né militare né politica, essendo Gentile uomo che non ricopriva cariche pubbliche se non di natura culturale e a mero titolo temporaneo -, la sua morte era indispensabile a rendere realizzabile il vasto fenomeno del trasformismo, che avrebbe portato moltissimi intellettuali a transitare da una aperta adesione al fascismo alla collaborazione attiva, politica e culturale, con il Pci e con la sinistra azionista.

Vivo Gentile, e magari giustamente sottoposto ad un processo per le sue responsabilità, quell’esodo affollato e disordinato sarebbe stato impossibile o almeno molto più difficile. Dinanzi a quel testimone scomodo, come avrebbero potuto tessere l’alibi di un loro nicodemitico antifascismo uomini come Delio Cantimori, Ugo Spirito, Galvano Della Volpe? Come avrebbe potuto sottrarsi ai rigori del procedimento epurativo, sfruttando le compiacenti testimonianze a discolpa offertegli da Guido Calogero, Carlo Antoni, Natalino Sapegno, un intellettuale come Antonino Pagliaro, editore del Dizionario di Politica del Pnf, gremito di quelle rivoltanti voci antisemite che Gentile si era rifiutato di pubblicare nell’appendice dell’Enciclopedia Italiana?

In questo contesto, la morte di Gentile non fu necessaria,come pure si è detto. Fu utile. Utile come l’esecuzione del Duce del fascismo, su quel ramo del lago di Corno, che ancora oggi contiene tanti segreti destinati a intorbidare la moralità della prima Repubblica. Ma il passato nascosto o mistificato non fa la storia, né fa la coscienza civile. A metà Seicento, a Napoli, dopo una furiosa pestilenza migliaia di cadaveri vennero sepolti, coperti da calce viva, in una grande fossa. Su di essa una lapide: «Morti in tempo di peste. Non si scoperchi il sepolcro». Ingrato compito dello storico è invece quello di togliere la copertura alle tombe del nostro passato prossimo. Ringraziamo Francesco Perfetti di averlo fatto e ricordiamo a coloro che, come Sergio Luzzatto, in un recente opuscolo (La crisi dell’antifascismo, Einaudi), lamentano che fascismo e resistenza non sono più in grado di coinvolgere le giovani generazioni, che la responsabilità di tale oblio è soprattutto dovuta ai guardiani della memoria rimossa.”

(a cura di Pino Rauti)




Anche il Medio Evo va del tutto “rivisto”


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Perfino il Medio Evo, quello dei “secoli bui” va interamente rivisto e comunque acriticamente rivisitato. Per chi conosce bene – e da decenni! – le pagine lucide di Iulius Evola, questa non è certo una sorpresa; e d’altronde c’è ormai tutta una storiografia qualificata da tirarsi a supporto. E tuttavia fa piacere; e tuttavia è assai importante che questa revisione si faccia strada anche su fogli di larga diffusione. Come ci è accaduto di leggere su “Il Domenicale” del 3 ottobre scorso in due articoli (Ivo Germano e Carlo Stagnaro) connessi sotto il titolo: “Il futuro è il Medioevo” e dedicati ambedue alla recensione di un libro che sta per uscire; libro di Guglielmo Piombini: “Prima dello Stato. Il Medioevo della libertà” (Leonardo Facco editore – Treviglio – Bergamo – pp. 169 – euro 13,00 – tel. 335-8082280). Con il titolo: “Alle radici del vero «miracolo europeo», ecco l’articolo di Ivo Germano:

“Non c’è aria disagra paesana, neppure quel folclore amatoriale da gioco di simulazione medioevale tutto fate, draghi, orchi, maghi e cavalieri. Le categorie, i concetti e le prospettive sul Medioevo come “secoli bui” e “notte dei millenni” sono palesate nella loro infondatezza e curvatura ideologica, per essere puntualizzate sotto forma di pratiche, di attività e di questioni.

Ora, queste dimensioni vengono esplorate nel coraggioso volume di Guglielmo Piombini, Prima dello stato. Il medioevo della libertà (Leonardo Facco Editore, Treviglio [Bg], pp.169, €13,00; tel. 335/8082280). L’analisi di Piombini, giovane studioso di orientamento libertarian, informa come ci sia voluto del tempo per accorgersi che il Medioevo avesse saputo elaborare una idea di libertà non graziosamente ammannita dallo Stato, ma impronta aurorale che anticipa qualsivoglia consesso sociale. Un diritto naturale, cioè, che appartiene all’uomo in quanto tale e che, senza se e senza ma, dovrebbe fondare lo Stato. Da questa intuizione e dallo scenario di pluralismo sociale offerto dalla ricostruzione storica dei termini reali di cui è consistita la cosiddetta “anarchia feudale” è infatti scaturito quel preciso filone che si coniuga oggi per esempio ai principi propri alla cultura federalista e ai criteri di sussidiarietà.

Proprio nel Medioevo viene del resto affermata la radice autonoma della società e della persona, da rivalutare rispetto ad uno scheletro centralista e statolatrico, in un fiorire d’invenzione e d’ingegnosità testimoniate dalla comunione di lavoro artigianale e dalla socialità orizzontale e trasversale, dalla ruota idraulica al libro, dalla notazione musicale alle cattedrali e alle università dei clericos vagantes. Il Medioevo si trasforma così nella “chiave” del “miracolo europeo”, giacché costituisce «l’elemento decisivo che mancò alle civiltà extraeuropee, la molla dello sviluppo che ha permesso agli europei occidentali di surclassare i cinesi, gli indiani, i russi, i persiani, gli arabi, gli incas, i maya o gli aztechi sul piano del progresso culturale e tecnologico».

Argomentazioni forse eccessivamente entusiastiche, ma tutt’ altro che ideologiche che permettono di battere, ribattere controbattere accesamente alla macchina celibe e autoritaria, burocratica e impersonale dello Stato moderno. Al punto da domandarsi chi, veramente, abbia vergato il contratto sociale e perché.

La scaturigine creativa del Medioevo, con le sue strutture spontanee e immediate – i corpi sociali intermedi – sono poi state irrimediabilmente risucchiate dall’ artificialità legislativa e regolamentatrice della Modernità, che rappresenta davvero una desertificazione graduale degli spazi di senso comune e di vita quotidiana: «Se l’organizzazione sociale medioevale ha portato l’Europa dalla barbarie al primato mondiale in poco più di un millennio – osserva Piombini -, sotto l’egida del moderno Stato socialdemocratico, il tramonto della civiltà europea si compirà in tempi molto più brevi».

E, siccome la parola è potere, le cose evidenti vengono omesse e quelle irrilevanti conquistano la fatua vetrina della società liquida, attorcigliandosi in rivo li confusi ben stigmatizzati prima da Piombini e, poi dai commenti aggiunti al suo testo centrale da Pietro Adamo, Raimondo Cubeddu, Carlo Lottieri e Marco Respinti.

Oltre il “mito di Westfalia”

Il multiculturalismo auspicato, 1’omologazione culturale propinata e l’incessante smorzarsi della diversità divengono dunque le fasi evidenti di un percorso inefficiente ed elefantiaco, spacciato per magnifica sorte e progressiva. Non a caso, uno degli autori di riferimento di Piombini è Iosè Ortega y Gasset, che ben traguardò le piste ell’ avvenire europeo sottolineando limiti e incongruenze.

Perché, davvero, non faccia più scandalo ripensare a quando lo Stato non esisteva, occorre meditare poi sul valore delle cariche decentralizzate, chiamate alle armi più per necessità che per circoscrizioni, e sulle metodologie elettive dei migliori e non di chi cerca cul de sac impiegatizi.

Un sentiero della nostra memoria comune che può essere riscoperto, magari attraverso l’arte e la storia; una storia collettiva e un’appartenenza comune che nessun leguleio e costituente europeo può arzigogolare; un destino comune e una comune partecipazione alla libertà: questo è stato insomma il Medioevo prima che le scosse dello sradicamento generale ne contestassero il profilo sobrio.

A ben pensarci, le radici di una comune appartenenza stanno tutte lì: identità culturale ben più che politica, linguistica e simbolica. Dal Medioevo a oggi, si rinnova cioè quel confederarsi cosmopolita, fondamentalmente universale, fondato sul primato della libertà e della conoscenza.

A suo tempo, Gianfranco Miglio ragionò su una simile prospettiva ipotizzabile anche nella globalizzazione. Come a dire che il realismo politico post-westfaliano ricalcherebbe quello che già fu delle libere città commerciali prima che s’imponesse la struttura statuale moderna. Allora, in pieno Medioevo, l’incremento dei commerci e la diminuzione del potere politico centrale garantirono l’indipendenza cittadina e comunale, assieme a sviluppo, libertà, creatività, comprensione, tolleranza e rispetto delle diversità.

Una prospettiva non solo economica, ma, anche e soprattutto politica e culturale che Piombini rilancia e corrobora, rivendicando il sacrosanto diritto/dovere di aprirsi al mondo”.

Ed ecco l’articolo di Carlo Stagnaro, che ha per titolo “L’anarchia feudale come programma politico”:

Vi sono due modi di guardare alla storia. Uno è ritenere che l’umanità sia un gigantesco coro, che anno dopo anno, canta sempre più intonato, quasi che il solo lento procedere del tempo consenta agli uomini di affinare le proprie capacità e garantendo l’automatismo del “dopo” come sinonimo di “meglio”. È una chiave di lettura alla moda, anche se sovente trascura di fare i dovuti conti con clamorose stecche quali i totalitarismi del secolo XX, “peccatucci” che si ritengono, forse, emendati dalla gloriosa sinfonia del Welfare State.

Un altro approccio fa invece perno sulla consapevolezza che la storia non è altro che un lungo e contraddittorio libro colmo del racconto delle azioni di miliardi d’individui. Un condensato misterioso, cioè, di bene e di male, di avanzate e di retromarce. Di alti e di bassi. “Prima”, insomma, può addirittura essere meglio. Ma, se questo è vero, allora occorre soprattutto fissare una stella polare, un criterio rispetto a cui declinare le idee di “meglio” e di “peggio”.

È queE’ questa la strada scelta da Guglielmo Piombini per ritrarre «il Medioevo delle libertà»: l’analisi condotta in Prima dello stato assume infatti come unità di misura la libertà individuale. L’occhio dello studioso passa al setaccio le istituzioni medioevali, domandandosi se esse non siano state in grado, nonostante tutto, di tutelare i diritti umani in maniera più efficace del Leviatano post-rivoluzionario.

Antichità del “Rule of Law”

La risposta, sorprendente per certi versi, è che nei cosiddetti “secoli bui” brillava la fiaccola della libertà, offuscata oggi da un interventismo pubblico intrusivo e impiccione. Di conseguenza, chi ha oggi a cuore quel valore imprescindibile deve guardare al passato per immaginare un futuro più radioso e migliore. Piombini si fa forte della rivalutazione di quella ch’è sovente oggetto di critiche: l”’anarchia feudale”. Essa «significò assenza di Stato e potere pubblico centralizzato, ma non di ordine giuridico, di società organizzata, di comunità: da questo punto di vista non vi fu niente di meno anarchico della società feudale, la quale fu, al contrario, fortemente gerarchizzata».

Il potere medioevale, infatti, non presentava le tre stigmate della statualità moderna: la sovranità, il monopolio legittimo della forza e la territorialità. I monarchi non potevano creare il diritto, facendo il bello e il cattivo tempo. Essi erano al contrario visti come interpreti di un diritto oggettivo che esisteva prima e al di sopra di loro. Non erano legislatori, ma esecutori . per conto di un’Autorità superiore. Dio. Questo richiamo al divino, che oggi potrebbe apparire retrò, è invece uno dei puntelli della libertà medioevale: il popolo, in democrazia, lo si può prendere in giro; Dio, no.

Forse questo significa che il mondo moderno dovrebbe voltare i tacchi? No, almeno nel senso che sarebbe impossibile al lato pratico. Però gli individui di buona volontà potrebbero trarre utili insegnamenti dal passato e vedervi nuove strategie per migliorare, nel futuro, lo stato di salute della libertà. Del resto, nota Piombini, «se l’organizzazione sociale medievale ha portato l’Europa dalla barbarie al primato mondiale in poco più di un millennio, sotto l’egida del moderno Stato socialdemocratico il tramonto della civiltà europea si compirà molto presto». Il fallimento del Welfare State, la pressione immigratoria, il declino demografico dell’Occidente sono tutte spie di un trend che, fortunatamente, è ancora possibile invertire.

“Una polifonia, con pro e contro «L’ideale libertario – nota l’autore – sarebbe un continente europeo in cui gli stati nazionali si disgregano in un mosaico di giurisdizioni concorrenti». E ancora: «Per avvicinarci a una società libertaria fondata sui diritti di proprietà non occorre inventare nulla di utopistico e rivoluzionario. È sufficiente ricuperare gran parte di quelle istituzioni premoderne eclissate nei secoli dall’ininterrotta avanzata dello Stato. […] Al posto di re e principi oggi troveremo più facilmente grandi compagnie assicurative in concorrenza tra di loro, e al posto dei comuni una miriade di privatopie e città private».

Nella miglior tradizione medioevale, Prima dello stato ha la struttura di un coro polifonico. Alla voce di Piombini se ne uniscono altre, che dibattono le sue tesi. Pietro Adamo sostiene che illibertarismo è figlio della Modernità e ravvisa quindi una contraddizione nella rivalutazione delle istituzioni premoderne. Raimondo Cubeddu sottolinea come non si possano trascurare le ombre del Medioevo: in particolare, l’assenza di libertà all’interno delle comunità e il collant e sociale costituito da un diffuso senso religioso, oggi inesistente. È invece di altro avviso Carlo Lottieri, che rileva il ruolo cruciale esercitato dalla morale cristiana nella genesi del pensiero liberale. Marco Respinti, infine, evidenzia come solidi sprazzi di Medioevo riaffiorino nell’Unione nordamericana delle origini e come essi ancora oggi permangano Oltreoceano.

Prima dello stato s’inserisce dunque a pieno titolo nel filone del revisionismo intelligente, attento alle idee che palpitano sotto il tessuto della storia. Le tesi dell’autore – anche tenendo conto delle critiche mossegli da due dei suoi autorevoli commentatori – possono stupire, ma fanno riflettere. Ch’ è il massimo risultato cui un libro può aspirare”.




Quei Borbonici rinchiusi e torturati


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Tra le revisioni storiche che, sia pere tra tante remore e difficoltà, stanno emergendo, di grande rilievo – e per intuibili motivi – è quella relativa al “come” si compì l’unità nazionale; con un’altra riscoperta: del come l’Italia pre-unitaria, nel Regno dei Borboni, non fosse affatto quella specie di MedioEvo selvaggio che ci ha dipinto da sempre la storiografia politicamente e culturalmente “corretta”.

E poi, scendendo all’analisi più specifica e ad indagini storiografiche più approfondite, e poi: e poi come andarono le cose quando i Borboni furono battuti militarmente sul campo? E cosa accadde ai loro soldati, a quelle decine di migliaia di uomini che nonostante il tradimento e l’ignavia di molti loro “capi”, avevano valorosamente combattuto?

Da qualche tempo, vi sono stati “accenni” revisionistici in tal senso sul “Corriere della Sera”, in quella rubrica di lettere e risposte che con grande equilibrio e con quella che non possiamo non definire lucida cultura, porta avanti Paolo Mieli.

Ecco quanto abbiamo potuto leggere l’11 ottobre scorso e che pubblichiamo per intero, in attesa di tornare sull’argomento recensendo il libro di Gigi Di Fiore. Il titolo è: “Quei Borbonici rinchiusi e torturati a Finestrelle”, Paolo Mieli risponde allo scritto di un lettore milanese, Bruno Facchini, che scrive:

Finiamola una buona volta con lo scandalo della censura che sarebbe stata apportata allo scopo di tenere nascosta la conversione alla fede cristiana di Silvio Pellico. «Le mie prigioni» fu un libro di devozione e alcune delle pagine di quel libro furono addirittura tacciate di bigottismo. Il Risorgimento ha scheletri nell’armadio da dover si denunciare? Si denuncino quelli giusti! Per esempio, quello che vide vittime poveri fantaccini borbonici sbattuti a crepare nel gelo invernale di un fortezza sabauda a 1.800 metri d’altezza, con l’unico equipaggiamento costituito dalle proprie divise di soldati d’un esercito meridionale. Perché non ci si occupa e quasi mai si nomina il caso di Finestrelle? – Bruno faccini – Milano”.

Ed ecco la risposta di Mieli:

“Caro signor Faccini,

mi sono visto costretto a sintetizzare questa sua lettera (nella quale gentilmente cita per esteso i passaggi de «Le mie prigioni» che dimostrano come Silvio Pellico disse a chiare lettere che «la religione aveva trionfato nel suo cuore») esclusivamente, mi creda, per ragioni di spazio. Per parte mia continuo a considerare sospetta la censura del brano denunciata da Aldo Mola. Ma, ha ragione lei, chiudiamola qui.

Quanto al caso del carcere di Fenestrelle in cui nel 1861 furono rinchiusi i prigionieri dell’ esercito borbonico, ad esso ha dedicato pagine assai interessanti Gigi Di Fiore nel libro «I vinti del Risorgimento» pubblicato di recente dalla Utet. Di Fiore riporta un articolo dell’ epoca pubblicato da La Civiltà cattolica in cui era scritto che «per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad uno espediente crudele e disumano che fa fremere. Quei meschinelli (i militari borbonici, ndr), appena ricoperti di cenci di tela e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e di altri luoghi posti nei più aspri siti delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gettati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento tra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re!». Il 22 agosto del 1861, prosegue Di Fiore, pur provati e affamati, i soldati napoletani tenuti a Fenestrelle tentarono una rivolta. Prepararono un piano d’azione, ma vennero scoperti, subendo una dura repressione. Ai rivoltosi venne sequestrata anche una bandiera borbonica. In quel periodo, i napoletani detenuti nella fortezza erano mille, mentre altri seimila erano ammassati a San Maurizio, sotto la vigilanza di due battaglioni di fanteria.

Il ministro piemontese della Rovere – riferisce ancora «I vinti del Risorgimento» – diede notizia in Senato che ben ottantamila soldati dell’ex esercito borbonico si rifiutarono di servire sotto la bandiera Italiana. Liberati dai campi di prigionia, i napoletani si allontanavano, fuggendo nello Stato Pontificio, o dandosi alla macchia e ingrossando le bande di briganti nelle loro terre di origine. A centinaia però non riuscirono a tornare dai campi del Nord, dove trovarono la morte. A Fenestrelle, la calce viva distruggeva i cadaveri di chi non ce l’aveva fatta a superare il rigore del freddo e a sopportare la fame. I più deboli, abituati al clima delle Due Sicilie, per la prima volta nella loro vita così lontani dalle loro terre di origine, crollavano. L’ospedale della fortezza era sempre affollato. E, nei registri parrocchiali, vennero annotati i nomi dei soldati meridionali deceduti dopo il ricovero in quella struttura sanitaria, per malanni dovuti alla rigidità delle condizioni carcerarie e per varie malattie contratte. Ma i nomi registrati non corrispondevano a tutti i prigionieri morti in quegli anni. Per motivi igienici ed essendoci difficoltà a seppellire i cadaveri, molti corpi vennero gettati nella calce viva in una grande vasca, ancora visibile, dietro la chiesa all’ingresso principale del forte. Nessuna censura su Fenestrelle, caro Faccini. È solo un’altra storia. Un’altra terribile storia”.




Una marea di gente “se ne va” sottoterra


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Per i motivi più svariati, anche in Italia c’è una marea di persone che ama “andarsene” sottoterra; persone – e non solo giovani – cui piace “viaggiare” in catacombe, condotti sotterranei, antiche cisterne romane abbandonate e via dicendo. Non è possibile nessun calcolo preciso ma, a seguire le attività e le iniziative dei tanti gruppi e delle numerose Associazioni che stanno all’opera, si pensa che si tratti di almeno due milioni di persone. Un turismo culturale, naturalmente – così, almeno, lo definiamo noi – perché a parte la dose inevitabile di curiosità e di spirito di avventura non v’è dubbio che si mira soprattutto a trovare tracce e “testimonianze” dirette di un passato più o meno prossimo – e spesso addirittura remoto – con lo stesso spirito, con lo stesso impulso con i quali altri “fanno” archeologia e, in particolare, quella che viene definita archeologia industriale. Paolo Sacconi ha scritto in merito, di recente, sul “Corriere della Sera” – in <<Corriere Economia>> – che “il sogno di ogni adolescente è scoprire un passaggio segreto da casa propria alla cripta della chiesa all’angolo”; ed è proprio così – almeno fra gli adolescenti ancora oggi in questa società materialistica, in grado di “sognare”; ed è anche importante far notare che comunque, dalle realizzazioni sempre avventurose di quei sogni, spesso si torna con “fotografie digitali, mappe e leggende urbane”.

Torneremo spesso, con tante notizie dettagliate, su questo “mondo sotterraneo” e intanto cominciamo con quanto – tramite Internet – abbiamo trovato sulle fontane di Roma.

La grandezza della civiltà Romana si basò sull’attenzione posta nella costruzione di infrastrutture e opere pubbliche alle quali, fino ad allora non si era data molta importanza. Ci riferiamo in particolare alle strade, agli acquedotti ed alle fognature.

Queste ultime due tipologie di costruzioni sono fondamentali per capire su quali solide fondamenta si basò l’impero romano.

Ancora oggi la città moderna si basa sulle opere costruite dai nostri avi: l’antico impianto fognario del centro storico, la famosa fontana di Trevi, aumentata da un acquedotto, il Vergine, di oltre 2000 anni, sono solo alcuni esempi dell’efficienza di queste opere, troppo spesso dimenticate.

Il patrimonio delle fontane di Roma è immenso: spesso nascoste tra antichi o più moderni edifici, esse ci guidano lungo un suggestivo itinerario, alla riscoperta di un’antica simbiosi tra tessuto urbano e popolazione che purtroppo con la modernità si sta lentamente perdendo.

Elementi che costituivano l’articolato e complesso sistema di alimentazione e fruizione idrica della città, sono di frequente rinvenuti all’interno degli ambienti ipogei dell’Urne.

I Romani raggiunsero livelli veramente eccelsi nelle opere idrauliche grazie alla consapevolezza dell’importanza politica della cultura dell’acqua. L’acqua non era solo un elemento necessario alla sussistenza ma, attraverso l’immissione in città di circa un milione di metri cubi al giorno, divenne un elemento di celebrazione del potere. Gran parte delle acque infatti venivano utilizzate per alimentare le numerose terme e bagni pubblici, le naumachie o per le spettacolari fontane e ninfei.

Nell’epoca imperiale si raggiunse la massima diffusione della fruizione delle utenze idriche: la distribuzione di grandi quantitativi d’acqua alla popolazione, il numero delle fontane, l’altezza e la ricchezza dei getti d’acqua, le dimensioni dei bacini delle piscine, la dotazione di ampi e lussuosi servizi igienici.

I Romani si giovarono delle conoscenze nel campo di tecnica idraulica già raggiunte dagli Egiziani e dai Greci e a loro volta fatte proprie dai popoli del vicino Oriente, abili costruttori di opere quali i famosi Qanat.

Gli stessi vicini Etruschi si dimostrarono eccellenti maestri nella realizzazione di opere idrauliche ipogee, tanto che le prime realizzazioni romane, per fattura e tecniche costruttive, ricalcarono fedelmente quelle etrusche. Le fonti testuali da cui si possono trarre informazioni sulle capacità tecniche romane nel campo dell’idraulica sono essenzialmente due: il De architectura di Vitruvio (I sec. a.c.), dove vengono illustrati i criteri costruttivi degli acquedotti e i sistemi di immagazzinamento delle acque e il De aquaeductis urbis Romae di Sesto Giutio Frontino (fine I sec. d.C.), nel quale vengono descritti in maniera dettagliata gli acquedotti che rifornivano la capitale. Restano, al di la dei testi, le maestose vestigia delle opere idrauliche che, a Roma come nel resto dell’impero, testimoniano il ruolo chiave esercitato dall’acqua nella civiltà antico romana.

Le tipologie più frequenti di opere idrauliche che si possono incontrare nel mondo sotterraneo sono i condotti idraulici, che servivano per trasferire l’acqua da un luogo all’altro, per conservarla (le cisterne cunicolari), o addirittura come sistema di raccolta di acqua percolante alla stregua degli antichi Qanat del Nord Africa, capaci di ricavare acqua perfino in un ambiente desertico. Appartengono a questa categoria anche gli speche degli acquedotti che, tranne che per brevi tratti, si sviluppavano prevalentemente interrati in canali che potevano essere sia semplicemente scavati nel tufo, sia impermeabilizzati con la malta idraulica, o addirittura rinforzati con murature di varie tipologie. Su una lunghezza totale di circa 500 km, pari a quella cumulativa di tutti gli acquedotti che alimentavano Roma, l’acqua correva in sotterraneo, entro gallerie e cunicoli, per oltre 420 km. Per facilitare la costruzione dell’acquedotto e le successive ispezioni e manutenzioni, nelle gallerie venivano scavati dei pozzi provvisti di pedarole per la discesa.

Gli acquedotti che in epoca Imperiale garantivano l’approvvigionamento idrico della città erano undici, costruiti a partire dal IV sec. a.c. in un arco di seicento anni. Prima della realizzazione degli acquedotti, come riporta Frontino i Romani si servivano dell’acqua del Tevere, dei pozzi e delle sergenti presenti alla base dei colli intraurbani. Le sorgenti davano spesso vita a veri e propri torrenti in cui confluivano anche le acque piovane. Questi torrenti, in molti casi, continuano ancora oggi a scorrere nel sottosuolo. Spesso però la loro osservazione è impedita dal fatto che il loro flusso scorre attraverso lo strato di ruderi e detriti che si interpone tra il moderno piano di calpestio e quello della città romana.

Le cisterne e i serbatoi che avevano la funzione di conservare l’acqua e di permetterne un uso procrastinato nel tempo. I Romani avevano elaborato in questo settore un’avanzata tecnica costruttiva che prevedeva l’impermeabilizzazione interna tramite una speciale malta denominata cocciopesto, composta da una miscela di calce, sabbia o pozzolana, frammenti di terracotta e, forse, di un collante vegetale (latte di fico?). Le cisterne generalmente hanno uno o più ingressi per l’acqua e uno scarico di fondo non sempre presente e servivano per accumulare l’acqua piovana. I serbatoi invece appartengono a una categoria costruttiva differente e più avanzata in quanto erano utilizzati per accumuli temporanei d’acqua proveniente da un acquedotto. Immagazzinando l’acqua in questo modo si poteva gestire il flusso da ridistribuire alle utenze in previsione delle ore di punta dei consumi. I serbatoi erano molto spesso collocati in zone sopraelevate per garantire l’approvvigionamento in pressione delle utenze situate a valle mediante tubazioni in pressione.

Generalmente l’acqua, prima di arrivare a destinazione, raggiungeva prima una seria di piccoli serbatoi denominati castella che avevano funzione di ripartitori. Frontino cita l’esistenza, solo nella città di Roma di 247 castella.

L’ultimo aspetto connesso all’antico sistema delle acque riguarda lo smaltimento delle acque “nere” e piovane.

La prima opera ad essere realizzata a tale scopo fu la Cloaca Massima, un gronde canale che originariamente fu scavato per bonificare la valle tra Campidoglio e Palatino. La necessità di bonificare le numerose paludi interne alla città e di eliminare le acque reflue derivate da!!’apporto degli acquedotti, rese indispensabile !a costruzione di numerosi tracciati fognari. La fitta maglia di piccole e grandi cloache rese la città più sana e vivibile, mantenendola in discrete condizioni igienico – sanitarie.

La maggior parte di queste opere, continuano a essere nascoste ai più, in quanto nessun altro aspetto, come quello dell’Ingegneria idraulica romana, è stato così trascurato dall’archeologia ufficiale. L’attività di speleologia urbana che “Roma sotterranea” promuove e orientata al recupero e alla valorizzazione di queste opere,promuovendo campagne di rilievo, di esplorazione e di studio.




Angiola Tremonti: "Mabilla"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Nelle sue realizzazioni artistiche . scrive, fra l’altro, Rossana Boscaglia – Angiola Tremonti “ha sempre privilegiato una tendenza fantastico – surreale che le ha consentito di colloquiare con i bambini – puntando sull’aspetto favolistica dell’immagine – e con il pubblico colto – puntando, in questo caso, sulla complessità dei rimandi che le opere suggeriscono”. Prendiamo le mosse da qui, per scrivere una nota su “Mabilla”, l’opera che Angiola Tremonti dedica a sua madre.

Della Tremonti, sul volume; di lei e della sua casa, scrive anche Mario Cauti. Secondo lui “E’ come entrare in un vulcano in eruzione. Entrare nella sua casa (“castello?” “museo?”) significa far breccia nell’antro della fantasia, dove colori e creatività danzano sui muri, sopra i tappeti, tra le sculture”. Il “cronista” che, come lui, si è avvicinato da profano ad Angiola Tremonti “non può non essere travolto dalla sua personalità straordinaria ed unica”.

Da “dove viene” artisticamente la Tremonti, lo rievoca in sintesi Raffaele De Grada. Scrive che essa non è “una artista occasionale che si diletta di piccole cose viste e intimamente godute”. Ricorda che: Ha studiato alla scuola del nudo di Brera; ha insegnato e si è sperimentata perfino nel campo della grafica pubblicitaria. E’, come si dice, una artista professionista che espone fin dal 1986”. E, confortata da autorevoli critici “insegue con la pittura e la scultura un personaggio di favola nel quale ella identifica se stessa e che chiama Mabilla”. E ancora: la Tremonti dimostra di andare oltre la materia dipinta omodellata per uscire dall’arte di tradizione verso una tradizione di “arte applicata” (spille, bracciali, anelli, oggetti ornamentali che Gillo Dorfles vede “come un trampolino per ulteriori e multiformi ricerche”.

Ed è proprio sulle “arti applicate”, in uno scritto sui Frutti maturi d’una lunga “carriera artistica”, che lo stesso Gillo Dorfles è presente nel volume. Con un articolo che ci dispiace non poter riprendere per intero perché non solo fa notare quanto sia tutt’altro che idonea la terminologia “di quelle che un tempo si definivano <<arti applicate>> (perché non da oggi ma dal più remoto passato, alcuni capolavori appartengono appunto a questo settore)” ma perché affronta poi, il tema del degradarsi della pittura (“eco lontana rispetto agli antichi splendori…”).

Ed ecco per avere le idee più chiare su questo nostro “personaggio”, qualche cenno sulla vita di Angiola Tremonti che, nata a Sondrio, vive e lavora a Cantù (in provincia di Como):

Fin da bambina ha rivelato amore per il prossimo, per lo sport e per l’arte.

Dopo aver conseguito il diploma magistrale, ha frequentato l’Accademia di Arti Applicate a Milano ottenendo il diploma di grafico pubblicitario.

Inizia un periodo di apprendimento in uno Studio Associato di architettura e frequenta i corsi della Davide Campari, Istituto Superiore di Pubblicità, Comunicazione e Marketing conseguendone il Diploma.

Lavora a Como per la Sagsa, casa editrice del quotidiano locale “L’Ordine”.

Risulta poi vincitrice di concorso e inizia a insegnare nella scuola pubblica.

Durante questi anni lo studio della didattica, la sperimentazione e l’osservazione dei bambini la interessano e quindi approfondisce la conoscenza della psicologia frequentando corsi ad ampio raggio.

Lo sport, praticato da sempre, da diversivo si trasforma in professione: è allenatore-istruttore della FIT. Dedica quindi tutto il suo tempo all’insegnamento, se pur in due campi diversi.

Gravi problemi fisici la portano a lasciare l’agonismo e il tennis professionistico. Si crea un vuoto e allora il volontariato emerge come un’esigenza vitale e di riscatto. Segue i corsi di Crocerossina, per due anni non manca agli appuntamenti in corsia e alle lezioni in sede. Non le si addice però la disciplina, per lei poco coerente con il suo ideale caritativo di maggiore umiltà, così si ritira prima dell’esame finale. Liberamente ha luogo un’esperienza esistenziale imprevedibile come ricerca, in paesi lontani come il Burkina Faso, in Africa, e a Calcutta, in India, lavora alla Casa dei bambini, conosce Madre Teresa, ha luogo un intenso arricchimento vitale.

Chiede poi di essere incaricata al carcere del Bassone, dove insegna alle detenute. È proprio durante questa esperienza che, per assecondare le richieste delle sue allieve, riprende a maneggiare i colori e non li lascerà più.

Siamo nel 1988. Inizia il cammino artistico, frequenta gli studi di vari noti maestri e apprende tutto il possibile. Si tratta di recuperare “il tempo perduto”. Con essi mantiene ottimi contatti, non vuole rimanere legata ai loro insegnamenti in quanto consapevole della gravità che su di lei possono avere i loro influssi artistici.

Lei vuole essere se stessa.

Lasciata la scuola frequenta i corsi di nudo all’ Accademia di Brera, segue i corsi di affresco alla Scuola Castellini di Como e nel frattempo inizia a esporre. Impara le tecniche della incisione e della stampa, frequenta le botteghe degli artigiani canturini e scopre un mondo nuovo: produce vetrate a piombo, si avvicina alle tecniche dell’intaglio e del cesello.

La ricerca è per lei la base dell’arte.

Mette da parte le tele e i colori a olio per continuare il suo lavoro su tavole plastiche, intarsiando e usando resine e gessi. Questa tecnica, tutta sua, rende il suo lavoro distinguibile fra tutti. Senza lasciare la sua tecnica di “intarsio pittorico” nel 1994 si avvicina al mondo della scultura, alla creta e alla cera, produce i suoi primi lavori in bronzo, in oro e in argento, aprendo così un filone nuovo, quello del gioiello e dell’oggetto d’arte. Inizia la sua attività anche di design.

La scultura la attira, la fonderia diventa per lei luogo del mistero… con le sue mani crea opere monumentali in bronzo.

Incontra Stefano Ronchetti, titolare della Marzorati Ronchetti, “la boutique del fabbro”. Appoggiata dalla loro tecnologia si cimenta nel realizzare strutture in acciaio acidato.

Angiola vuole essere se stessa.

(a cura di Pino Rauti)




Rauti e "Ordine Nuovo"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Tra i tanti episodi polemici che hanno costellato la lunga e tormentata vicenda del MSI-Fiamma Tricolore del tempo di Rauti, riteniamo di dover ricordare quì – con il supporto di adeguata documentazione – quella relativa al giornale di “Brescia-Oggi”. Il quotidiano in data 3 giugno 2005, pubblicava il seguente articolo:

“Un libro che fa notizia non tanto per l’argomento trattato, quanto per l’identita dell’autrice: Isabella Rauti. Proprio lei, la figlia dell’onorevole Pino Rauti, fondatore di «Ordine nuovo», frangia estrema dei movimenti della destra fascista e protagonista di alcuni dei processi più difficili legati alle stragi degli anni 70 e alla strategia della tensione. Anche Brescia ha un triste posto in quelle cronache di sangue e proprio sabato scorso ha ricordato il trentunesimo anniversario della strage di Piazza Loggia. E’ quasi ovvia la diffidenza nei confronti del libro «Istituzioni e rappresentanza femminile: il caso Italia» di Isabella Rauti, docente di storia delle istituzioni politiche all’Universita di Roma. Desta altrettanto stupore la dedica della scrittrice a tale E. D., nota storica di sinistra che I’autrice non vuole citare. Eppure, come sottolineato da Laura Castelletti presidente del Consiglio comunale di Brescia e da Paola Vilardi, presidente della Provincia, il patrocinio delle due istituzioni era doveroso per il grande rigore storico adottato. «Ampia e dettagliata l’analisi dei movimenti femministi a partire dai comitati “pro voto” dei primi del ‘900». E il parere unanime di entrambe le «madrine» che in un certo senso sdoganano un cognome pesante.

Le tre donne sedute allo stesso tavolo del Sancarlino, sono la testimonianza che su certi temi esiste una singolare trasversalità. Basti pensare che anche durante i lavori della Costituente un filo stretto legava le democristiane e le comuniste, unite per per la lotta al diritto del voto, se pur divise su temi pia attinenti alle politiche famigliari. «E’ comprensibile – sostiene la scrittrice – che le donne, come tutti, si dividano in merito a questioni di coscienza, ma è indiscutibile l’esistenza di una rete di interessi femminili e che una collaborazione senza dogmi ideologici fin dal nascere della Repubblica».

L’accesso alle urne cosi tardi (solo dal 1946) spiega anche ii perchè del ritardo della crescita del popolo rosa nelle istituzioni democratiche, ma non giustifica il disinteresse delle donne nei confronti della politica, visto che comunque la politica si interessa di loro. L’impegno del gentil sesso si caratterizza per la fantasia con la quale sceglie le proprie forme di partecipazione, ma è ancora troppo ostile a una completa appropriazione dei modi e dei tempi della politica. « Una qualità – dice la Rauti – non sempre negativa ma che di sicuro non permette di definire il confine tra pubblico e privato, un opzione che penalizza la rappresentanza istituzionale».

Provocata a questo proposito da Paola Vilardi, I’autrice non nega la validità delle quote, definite «male necessario» a fronte dell’esigua presenza femminile nelle istituzioni. «Sono uno strumento – dice la Rauti – per correggere un difetto, in presenza di un bisogno», senza però cedere sul fronte della credibility delle «donne in quota». In poche parole non basta il sesso debole e un viso fotogenico per rivendicare un posto riservato, altrimenti le quote da strumento di tutela si trasformerebbero in un boomerang contro la stessa causa femminile.

E Laura Castelletti che porta la conversazione fuori dai confini nazionli chiedendo un resoconto della partecipazione della docente agli appuntamenti mondiali con le «colleghe» degli organismi internazionali. In questo senso anche l’Italia non eccelle per numeri del capitale femminile investito da ruoli istituzionali e il deludente 74 posto deve spingere ad un confronto sempre più frequente su scala mondiale.

Isabella Rauti, presente alla conferenza internazionale di Pechino del 95 e a quella recente di New York, non nasconde alcune perplessità sul dibattito attuale. «Soprattutto in occasione dell’ ultima conferenza il dibattito è stato congelato dalla proposta di un emedamento che voleva inserire l’interruzione di gravidanza tra i diritti umani. Senza parlare delle situazioni nei Paesi del Terzo mondo che non trovano riscontro in tali consessi mondiali». Per i Paesi più poveri è troppo forte lo scarto tra i principi difesi sulla carta e la realtà che si presenta agli occhi di ogni «turista per caso». A parere dell’autrice la mediazione tra popoli e culture diverse, strumento doveroso per mettere d’accordo 189 Paesi, sconta però il limite di dichiarazioni troppo annacquate. Isabella Rauti conclude la presentazione e anticipa che è in cantiere un progetto editoriale sul ruolo delle donne di destra in Italia, ingiustemente relegate ai margini della storia. Donne e intellettuali private di una propria specificità politica che, in qualche caso hanno rappresentato la mediazioni nell’epoca «degli opposti estremismi». — Federica Papetti

per la parte che direttamente lo concerneva, l’On. Pino Rauti scrisse al Direttore, quanto segue:

Egregio Direttore,
assente da Roma per qualche giorno ho potuto leggere solo adesso quanto e comparso sul suo giornale in data 3 u.s. in un articolo a firma di Federica Papetti. E mi affretto a scriverle per farle notare che si tratta di un articolo incredibilmente fazioso; peggio, di un articolo “cattivo” oltre che del tutto tendenzioso.

Del libro di mia figlia, hanno scritto molti quotidiani; in tono piu’ o meno critico, dall’Unità a Il Riformista ma tutti hanno trattato del volume e della sua autrice; dei contenuti del libro e del contesto politico-istituzionale in cui esso si situava e che intendeva analizzare e soprattutto confrontare con le situazioni in merito esistenti in altri Paesi.

Sul suo Giornale, sin dalle prime righe dello sconcertante articolo della papetti, si prende a pretesto la presentazione del volume per parlare di me; e l’autrice del libro è proprio lei, la figlia dell’onorevole Pino rauti, fondatore di di «Ordine nuovo»…e del sottoscritto si sottolinea a piu’ riprese che è stato a capo di quella che viene definita “frangia estrema dei movimenti della destra fascista” e protagonista di “processi più difficili legati alle stragi degli anni 70 e alla strategia della tensione”.

Ora – essendo uno dei giornalisti piu’ anziani d’Italia – le chiedo: cosa centra tutto cio’ con il libro? cosa c’entra con mia figlia? e con quale diritto si fa ruotare tutto l’articolo sul fatto che l’autrice, si sostiene, “porta un cognome pesante”?

Non ho mai letto, egregio Direttore, un articolo così sottilmente fazioso, Un articolo “grave” perchè – avendomi tirato in ballo- dimentica di informare i lettori di quale e quanto differenza ci fu fra il Centro Studi “Ordine Nuovo” – da me fondato e portato avanti con quel nome, senza alcun problema giudiziario, dal 1956 al 1969 – e il successivo “Movimento Politico Ordine Nuovo”, nato in una dura polemica contro di me che poi ebbe le sue note vicende giudiziarie. Dimentica anche di dire, lo sconcertante articolo della Papetti, che da quei “processi difficili” io sono uscito assolto con formula piena, dopo quattro anni di inchieste svolte dai giudici di Treviso, Milano e Catanzaro.

E allora perche’, egregio Direttore citare solo le accuse e non le conclusioni delle stesse? Torno a chiedere, indignato e amareggiato: cosa c’entra mia figlia, che all’epoca di quei fatti andava alle Elementari ; che per quei fatti a scuola e per molti anni fu minacciata e perseguitata e che nonostante questo – ricevendo elogi scritti anche da esponenti della Sinistra, come Livia Turco – è andata a pechino e a New York per analizzare a fondo i problemi trattati nel libro; e che di libri ne ha scritti molti altri?

La prego di rileggere con occhio oggettivo l’articolo di cui mi dolgo, egregio Direttore; soprattutto la prima parte a me “dedicata” e converrà con me che c’e’ stata solo faziosità, ignoranza della verità e voluta disinformazione. Con i miei saluti

On. Pino Rauti




Fini: davanti la TV alle prese con Fitch


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Fitch, chi era costui? Sono i giorni dell’ordalia elettorale. Tutti a scannarsi su tutto, a pesare grammi di par condicio. Il vostro Ghost ricorda l’ormai lontana sera del 4 aprile quando Gianfranco Fini, ancora vicepremier, arriva su Raitre, negli studi di Ballarò. L’argomento sono i conti pubblici e c’è poco da scherzare. Fini, però, il modo di far ridere il mondo della finanza lo trova lo stesso, non appena il moderatore Giovanni Floris si collega da Londra con Brian Coulton, capo dell’agenzia di rating Fitch. L’analista finanziario comincia a dire dell’Italia quel che tutti sanno: economia difficile, un debito pubblico cresciuto per la prima volta dal 1993… E la probabilità che il nostro Paese venga presto retrocesso nelle classifiche internazionali.

A questo punto, il celebre economista Fini entra in scena. Per togliere la parola a Coulton: «Ma cosa vuoi che ne sappia questo qui! È un imbroglione! Floris, un po’ di serietà! lo non ho capito nulla. Questa è un’agenzia che conosce solo Floris!». Tutti allibiti: con Moody’s e Standard and Poor’s, gli “imbroglioni” di Fitch stanno in una delle tre grandi agenzie internazionali che danno le pagelle ai Paesi indebitati. II raffinato Fini, però, sembra non saperlo: insulta Coulton: «Non è credibile, non parla neanche l’italiano!» (a proposito: come vanno le lezioni d’inglese del nostro ex ministro degli Esteri?) e dice ma va’ là, tutte balle, i conti non sono così neri…

Due mesi dopo, eccoci qua. L’imperturbabile Fitch lo ripete al neoministro Padoa Schioppa: datevi una mossa, guai se non risanate in fretta il bilancio. E che cosa scrive l’imperturbabile Secolo d’Italia, giornale di An? “Prima clamorosa bocciatura internazionale per il governo Prodi”. Clamorosa? Ma non erano degli illustri sconosciuti? Dalla finanza creativa del buon Tremonti alle cattive creanze di Fini: e nessuno che paghi dazio.

(da “Io-D” – Corriere della Sera – 3 giugno 2006 – “Caduti nella Rete”, a cura di Ghost)