Anche Mussolini aveva la sua legione straniera


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Ecco un libro – lo recensiva Maurizio Massari sul “Secolo” – che squarcia il velo di un fenomeno a lungo rimosso: l’impegno nelle forze belligeranti, prime fra tutte la Germania, i soldati stranieri – tra cui indiani e arabi pronti a combattere a fianco dell’Asse degli Alleati. E in quest’ottica anche l’Italia ha avuto la sua Legione Straniera, ovvero la presenza di un certo numero di uomini di diverse nazionalità che accettarono di essere inquadrate in vario modo nelle forze armate italiane”. Il libro, il “pregevole lavoro”, scrive Massari, è di Stefano Fabei – uno storico coraggioso già autore de “Il fascio, la svastica e la mezzaluna” – e il titolo del nuovo saggio è “La legione straniera di Mussolini” (casa editrice Mursia – pgg. 386 – euro 22). Fabei analizza “in particolare tutte le circostanze e le motivazioni che spinsero quegli stranieri a schierarsi e a combattere insieme agli italiani. La storiografia aveva sinora descritto ampiamente solo i volontari che si erano arruolati nell’esercito tedesco, in particolare quelli che erano entrati a far parte delle Waffen – SS e che provenivano da ogni parte d’Europa, oltre che dai Paesi arabi. Come sottolinea Fabei, invece anche il nostro Paese ha avuto tra le sue fila soldati arabi perchè intravedevamo nello schierarsi con l’Asse la possibilità di appartenere al primo nucleo dell’esercito di liberazione del proprio Paese: è il caso dei volontari arabi e indiani…”. Quei volontari del vicino Oriente si consideravano a tutti gli effetti “un’avanguardia dei propri popoli” a guidare la marcia delle forze del tripartito alla liberazione del mondo arabo e del subcontinente indiano”. “… Molti personaggi illustri del mondo arabo – che diverranno noti e acquisiranno un ruolo pubblico nel periodo deo dopoguerra – si erano schierati apertamente con l’Asse e lo appoggiarono in tutto e per tutto. Tra questi anche il compianto presidente egiziano Sadat, il quale durante la guerra, aveva operato come agente segreto dell’Asse italo-tedesco. Va inoltre ricordato – come fa Fabei – che il Gran Mufti palestinese di Gerusalemme Ami-el-Husseini era lo zio diretto di Yasser Arafat, futuro rappresentante – simbolo del popolo palestinese”. Fabei non si limita al mondo arabo. Approda anche alle vicende dei serbo-ortodossi “che furono spinti, da altre motivazioni ad arruolarsi anche loro nell’esercito italiano”. Perchè “l’opposizione al movimento partigiano di Tito fu l’elemento decisivo che indusse dalmati, sloveni e croati a schierarsi a fianco degli italiani”…E ancora: “i soldati italiani che si trovano in Russia ebbero modo di arruolare centinaia e centinaia di cosacchi, ostili al regime sovietico. Inoltre, si erano arruolati anche una diecina di maltesi…”.

Pino Rauti




Ecco come avvenne "la resa dell'Italia"


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Anche di recente “Acta”, la rivista dell’Istituto Storico della RSI (Bimestrale culturale-scientifico-informativo- 52028 – Cicogna – Terranuova Bracciolini (AR) Tel.055-9703988) ha pubblicato, con l’abituale rigorestoriografico, notizie e considerazioni di vario genere su come avvenne la “resa di Caserta”, che è, nella storia recente del nostro Paese, “l’unica adempiuta con rigorosa dignità”. Ecco come stanno le cose:

Le formalità di resa del 28 e 29 aprile 1945 nella sede AFHQ, seguite da linee armistiziali dopo le 14 del 2 maggio 1945 a Rovereto (TN) e ad Urea (AO), per gli angloamericani segnano la conclusione della Campagna d’Italia con la capitolazione delle Truppe dipendenti, dal 21 novembre 1943, dal Comando tedesco del Sud Ovest. Ma sono anche il valido documento che pone termine alla guerra dichiarata dall’Italia, ad iniziare dal 1940, contro gli Stati imperialisti.

Dal 26 luglio 1943 i tedeschi avevano cessato di essere l’alleato potente dell’Asse che soccorreva l’Italia fascista, invasa in Sicilia. Poi l’Heeresgruppe B (Rommel), nel Nord Italia dalla Provenza alla Dalmazia. divenuto un occupante, influiva sulle esigenze italiane. Mentre l’Heeresgruppe C (Kesselring) nel Centro Sud imponeva un sovvenzionamento garantito dalla Svizzera, poi a carico della RSI. Tuttavia i tedeschi hanno due importanti meriti:
– non aver infierito, escluse illegali o pericolose ribellioni in Grecia o Dalmazia, sui regi sia franchi tiratori che dopo il 13 ottobre cobelligeranti e sui 600 mila IMI (tra gli internati in Polonia 300 gli uccisi, perche parteggianti per i sovietici vincitori);

– aver tenuto lontano il nemico dalle Alpi con più di 100 mila Caduti in Italia, consentendo per 19 mesi alla RSI di esercitare sovranità su territorio e popolazione e aver donato la propria arte militare e non poche armi al-l’Esercito repubblicano. Per contro, il nemico ha ucciso in Italia, con bombe d’aereo. 65 mila civili e nei mari della Grecia, con siluri, 25 mila italiani disarmati che rimpatriavano a bordo di navi.

Il testo ufficiale in lingua inglese della Resa di Caserta indica in 6 paragrafi e in 3 Appendici (la prima delle quali la “A”, riguarda le forze di terra) gli adempiementi e ehi ha titolo di imporli o l’obbligo di eseguirli. Come riporta ACTA n. 61 German Land Forces, quale responsabile degli obblighi, è un termine che inelude tutte le forze e le organizzazioni militari e paramilitari tedesche e italo-repubblicane. L’Appendice “A” assegna ogni precedenza a Stav-Put, ossia al non doversi muovere dalle sedi occupate, al fine di consentire anche singole capitolazioni sul campo. Poi dettaglia le modalità di disarmo, il mantenimento e lo status dei prigionieri, il non danneggia-mento di impianti civili e strategici, la collaborazione negli smistamenti, nei servizi per l’ordine pubblico e nelle informazioni sulle prigionie di cittadini angloamericani. Deriva da una alta stima militare la premura che un americano attribuisce alle deleghe dei tre Comandanti sconfitti. Si tratta del Vice, da ottobre 1944. del Comandante in Capo Alexandcr e che, da settembre 1945, lo avvincertela per poi comandare le Forze US di occupazione in Germania (ACTA n. 60): Joseph Taggart McNarney. avute le fotocopie dal compatriota Lyman Lemnitzer. chiede al Segretario Bastion di ineluderle nella propria scheda Crossword (doc. B). Promotori della resa anticipata e decorosa con chi difendeva il Nord Italia sono i Comandanti MTO e AFHQ (ACTA n. 60). A loro nome controfirma i documenti il Capo di S.M. Morgan de Rimeer (doc. C), attorniato dal Vice Segretario Sweetman, dal Contrammiraglio Lewis, dal Capo del personale RAF Baker, dal sovietico K.islenko. dal polacco Vraeveskj e dal Vice Capo di S.M. Lemnitzer




E Salò sfida Predappio nei "luoghi" del Duce


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Passano gli anni, anzi i decenni ma c’è ancora interesse e curiosità, diciamo da turismo culturale nei luoghi che in varia misura richiamano o si richiamano a Mussolini. Cosa davvero “universale” fra i grandi personaggi del XXI secolo, perchè lo stesso non accadenè per Stalin, nè per Roosevelt ne per Churchill. E’ da qualche settimana ad esempio, che in materia, Salò sta sfidando Predappio. Ecco cosa abbiamo potuto leggere sul “Corriere della Sera” a firma di Franco Brevini.

Un percorso storico e turistico per scoprire i luoghi e i palazzi della Repubblica Sociale Italiana dal 1943 al 1945. L’iniziativa viene presentata oggi a Salò, la cittadina del lago di Garda che diede il nome a questo strano Stato diffuso sul territorio, da Milano e Bergamo fino a Verona e Venezia, ma privo di una vera capitale. A promuoverla sono il Comune di Salò con il patrocinio del Centro Studi della Repubblica Sociale, animato dallo storico Roberto Chiarini. Oggi l’amministrazione comunale è di centro-destra, ma nel 1996, quando il progetto partì, alla guida della provincia di Brescia come del Comune c’era il centro-sinistra.

L’idea è nata dalle richieste provenienti dai turisti del Garda, in gran parte tedeschi, che volevano saperne di più sulle sedi istituzionali dell’ultimo tentativo di rilancio del fascismo, guidato dal redivi vo Mussolini, liberato dai nazisti dal la prigionia del Gran Sasso il 12 set tembre 1943. «Finalmente siano usciti dalla demonizzazione per fare seriamente i conti con la storia — dice Chiara Chiarini, docente di Stor: contemporanea alla facoltà di Scien ze politiche dell’Università Statale di Milano —. Prima della fondazione del nostro Centro studi, in Italia c’erano una settantina di istituti storici sulla Resistenza e neppure uno sulla Repubblica Sociale.

Grazie all’iniziativa di Salò, i turisti potranno avventurarsi tra le strade della cittadina, dove una serie di pannelli segnaletici permetterà di riconoscere l’uno dopo l’altro l’albergo Laurin sede del Ministero deggli Esteri, il cui scalone scenografico compare nei servizi dell’Istituto Lu ce in occasione delle visite dei diplomatici stranieri. Segue presso la Porta del Carmine il Palazzo della Croce Rossa che ospitava il Ministero della Cultura Popolare, il centro della propaganda fascista incaricato, come scrisse il console tedesco Moellhau-sen, di «far credere ciò che era impossibile poter credere» Nell’attuale sede del Liceo Fermi c’era invece la caserma dei famigerati reparti della Muti e della X Flottiglia Mas, una sorta di esercito privato di 1300 uomini al comandi del principe Junio Valerio Borghese, mentre sul lungolago di Salò, nei locali dell’ex albergo Italia sorgeva la Casa del Fascio, da cui due grossi altoparlanti trasmettevano ogni sera il bollettino dì guerra, da ascoltare sull’attenti e a capo scoperto.

Gli edifici segnalati sono finora una ventina e tutti a Salò, ma nei prossimi mesi l’opera proseguirà a Gardone, Toscolano, Gargnano, dove avevano sede la Presidenza del Consiglio e l’abitazione privata del duce. Tra un anno e mezzo sarà pronto anche il museo multimediale. «Nel frattempo però vogliamo segnalare alcune importanti acquisizioni del nostro Centro Studi —prosegue Chiarini, che ha da pochi mesi pubblicato un fortunatissimo volume illustrato dal titolo Vivere al tempo della repubblica di Salò —. La prima novità sono i tremila volumi della biblioteca dell’Unione combattenti della repubblica di Salò, un gesto emblematico con cui anche i protagonisti di allora si consegnano alla storia. La seconda è la formidabile emeroteca di Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino e sottosegretario agli Esteri al tempo del fascismo, consegnataci dal figlio. Comprende giornali rarissimi dell’epoca, alcuni pubblicati un’unica volta. Infine voglio ricordare un volume presente forse in un solo esemplare: Hitler mi ha detto di Hermann Rausching»




Fascismo: fu una grande modernità architettonica


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Nuova fase du dibattito sull’architettura durante il Ventennio fascista; anzi, come adesso scrivono tutti, sulla sua modernità archietettonica, che indubbiamente ci fu ( e ormai nessuno oserebbe negarla a fu anche “grande”. In un duplice significato: in taluni esempi specifici e nella sua “presenzza diffusa”; che modificò – in meglio- tante città e zone del nostro Paese.

Ne ha scritto tempo fa – riassumendo lo stato del dibattito, allora – “Il Riformista” – un bell’articolo di Paolo Portoghesi – ma ognuno puo’ contrastare, leggendo le cronache di questi giorni d’state, che l’apprezzamento positivo certamente, non è cambiato.

Vediamo dunque cosa ha scritto Portoghesi, per “orientarci” al meglio oggi; ricordando, per completezza informativa, che tutto ha preso avvio da una mostra:Dall’analisi approfondita della tipologia architettonica più rappresentativa del “ventennio nero” nasce la mostra curata da Flavio Mangione e Andrea Soffitta “Le case del fascio in ltalia e nelle terre d’oltremare”. Un itinerario grafico e fotografico tra le architetture in Italia e all’estero del Partito Nazionale Fascista . Il materiale esposto (dal 15 novembre al 15 dicembre, all’Archivio Centrale di Stato) è accompagnato da filmati, dell’Istituto Luce e accompagnato da filmati dell’Istituto Luce e ricostruzioni virtuali dei progetti.

La damnatio memorìae che investì l’architettura costruita in Italia durante il regime fascista non è durata più di trenta anni. È vero che già negli anni Cinquanta, un grande storico come Bruno Zevi, nella sua Storia della architettura moderna ne aveva proposto una parziale rivalutazione. Ma la condizione di questa rivalutazione era la netta separazione tra gli architetti che avevano inteso il rinnovamento disciplinare come un’adesione al movimento moderno internazionale, da quelli che lo avevano inteso come sviluppo dell’eredità storica, anche se questi architetti si ricollegavano a loro volta a un filone di ricerca di dimensioni europee. Sebbene entrambi i fronti condividessero il distacco dallo storicismo ottocentesco e la ricerca di un nuovo linguaggio, ai primi fu riconosciuto il diritto di entrare nella storia della modernità, ai secondi venne riservato un netto giudizio di condanna.

È molto interessante in questo senso analizzare il giudizio di Zevi su Giuseppe Terragni perché esprime molto bene il carattere ideologico delle riserve che impedirono per due decenni di ricostruire una storia attendibile dell’architettura italiana nel “ventennio nero”.

(…) Nel nuovo testo (del 1975, ndr) sparisce la “ricerca … di un linguaggio figurativo pel suo paese”, sparisce la “visione civile… classicamente misurata” e si afferma che “la dittatura lo ha costretto al manierismo”. La complessità e contrarietà del giudizio complessivo dimostra come per la generazione che ha vissuto in prima persona l’agonia del fascismo, dare un giudizio sereno e non ideologico fosse praticamente impossibile, come dimostra efficacemente quanto lo stesso Zevi scriverà nel suo Omaggio a Terragni, dove si legge che la Casa del Fascio di Corno «di fascista non ha neppure una remota impronta».

(…) Chi percorre in lungo e largo l’Italia e osserva architettura e paesaggio con intenti analitici non può non rimanere colpito dal ruolo che tuttora svolgono le “opere del regjme”,le Case del Fascio, ma più in generale le opere pubbliche legate ai programmi politici, come eloquente testimonianza visiva di un ventennio del novecento durante il quale all’architettura fu riconosciuta una funzione centrale come strumento di potere ma anche di comunicazione e servizio sociale.

(…) Un bilancio qualitativo, quello delle Case del Fascio, a favore quindi degli interventi più coraggiosi e innovativi in cui però va riconosciuta alla maggioranza professionale, prudente e poco sensibile ai grandi temi della modernità la capacità ‘corale’di realizzare una tipologia coerente di indubbia efficacia simbolica.

(…) Per concludere questo saggio ci sembra giusto però approfondire il tema del significato della Casa di Corno, riconosciuto capolavoro che è ormai entrato a far parte del piccolo gruppo di edifici chiave che ben rappresentano il secolo in cui sono nati. In quanto opera d’arte questo edificio riassume non solo il lavoro di ricerca fatto intorno a un nuovo tipo edilizio ma ci consente anche di mettere a fuoco il dramma di un grande protagonista della cultura italiana e, nello stesso tempo, un singolare momento di convergenza e di sotterraneo conflitto tra arte e politica. Gli strumenti per un percorso critico che valuti serenamente i rapporti di Terragni con il Fascismo erano già contenuti nella biografia mussoliniana di De Felice, anche se in essa non si nomina né l’architetto né la polemica sulla architettura razionale. Si può tentare di dare una risposta a un interrogativo che viene spontaneo leggendo le testimonianze del lavoro e degli scritti di Terragni: poteva l’idea di cultura portata avanti da Mussolini giustificare la coraggiosa scelta di Terragni per rinnovazione, per la razionalità, la sua battaglia contro l’arte legata agli ideali della piccola borghesia tradizionalista? La risposta negativa di Zevi, di De Seta e degli altri critici influenzati dal conformismo antifascista si basa su una visione sincronica del fascismo che rinuncia a distingue-‘ re tra i diversi periodi della sua storia tutt’altro che monolitica e sottovaluta quindi le alterne vicende della cultura progressista nel ventennio. La verità è che la sconfitta finale dei razionalisti ha la sua ragione storica nella svolta invo-lutiva della politica culturale fascista determinata dalla alleanza con la Germania e una attenta rilettura degli avvenimenti del periodo 1934-38 testimonia che il Duce in più occasioni aveva preso partito a favore di quella avanguardia coerente di cui Terragni era l’esponente più coraggioso.

(…) Nella sua visione, ingenua quanto si vuole, ma sincera e stabile, il fascismo era un movimento rivoluzionario che fin dai suoi inizi, nel 1919, si era legato all’avanguardia futurista e il suo capo, al quale veniva attribuito, non dimentichiamolo, un ruolo ben distinto da quello dei suoi gerarchi, costituiva per il suo passato e per le continue dichiarazioni, una garanzia che la volontà di rinnovamento avrebbe prevalso alla fine su qualunque remora e qualunque necessità di venire a patti con la difficile realtà di un paese come l’Italia.

(…) In questo atteggiamento di fiducia verso il fascismo Terragni non era un isolato. L’architetto che più d’ogni altro apprezzava per il suo coraggio e la sua forza creativa, Le Corbusier, non aveva dimostrato interesse e fiducia per il fascismo? Non si era iscritto, intorno al 1925. al “Fasceau” di Valois (Cfr. R. Gambetti e C. Olmo, Le Corbusier e l’Esprit Nouveau, Torino Einaudi 1975, p. 46, n. 117) e non aveva, nel 1933, nel volume su La ville Radieim, pubblicato la fotografi a di una radunata oceanica a piazza San Marco a Venezia, indicando nella manifestazione un sintomo del fatto che in Europa a Roma, a Mosca, a Berlino «folle immense si riunivano intomo a idee forti»? Non avrebbe poi visitato Roma nel giugno del 1933, mostrandosi disponibile a collaborare con il Regime? E lo stesso non fece, poco dopo, Walter Gropius? La verità è che il fascismo, in quel momento, riscuoteva credito in Europa e un giovane della generazione di Terragni, deciso a sposare la causa del rinnovamento radicale in funzione delle esigenze di un mondo profondamente cambiato, poteva ben credere che il fascismo in quanto “forza rivoluzionaria” fosse più adatto della democrazia a imporre lo stile di vita moderno e l’architettura capace di esprimerlo, realtà decisamente minoritarie specialmente in Italia. Si tenga conto tra l’altro che essendo una sola persona il depositario incontrastato della volontà politica del regime, di fronte alle remore e alle contraddizioni della gestione locale del partito, e di fronte all’ostilità di molti gerarchi verso il rinnovamento e la libertà delle arti c’era sempre la possibilità di attribuire al Duce il ruolo di fare chiarezza a vantaggio della giusta causa. E Mussolini, nella sua ambiguità, era ben lieto di svolgere questo ruolo di Sibilla Cumana e di depositario delle speranze dei giovani.

Nei giovani fascisti come Terragni c’era probabilmente anche la fiducia e la speranza che dopo il consolidamento del potere il fascismo avrebbe riscoperto il suo volto rivoluzionario messo tra parentesi nei primi anni dopo la conquista del potere.




Come si giunse al Concordato. Mussolini e il Vaticano


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Non si arrivo’ facilmente al Concordato; e soprattutto non vi si arrivò “all’improvviso”. Ci fu da ambedue le parti – e soprattutto da parte fascista, che era quella che prendeva l’iniziativa e piu’ aveva fretta di farla approvare – tutta una serie di “atti operativi”, di battute introduttive. Ed è con grande interesse che abbiamo letto nel quaderno 3.750 de “Civiltà Cattolica” – la Rivista dei Gesuiti – uno studio del sacerdote e storico, Giovanni Sale, che dalle primissime “battute” da’ conto sotto il titolo: Pio XI e Mussolini e il sottotitolo: “Primi provvedimenti del Governo fascista in favore della Chiesa” che qui di seguito riprendiamo (P.R.)

Pio XI , i popolari e i fascisti – Pio XI, nei primi tempi del suo pontificato, non si allontano in materia politica dall’indirizzo seguito dal suo Predecessore, Benedetto XV. Anche per lui il partito Popolare (Ppi) rappresentava il partito politico dei cattolici italiani in particolare era lo strumento attraverso il quale far valere sul piano politico-parlamentare i diritti della religione e della Chiesa. Papa Ratti proveniva dalla tradizione conciliatorista e clerico-moderata milanese; la sua idea di «partito cattolico» era differente da quella sturziana di partito laico e aconfessionale, che agisce in politica autonomamente, ispirandosi ai grandi principi sociali della tradizione e della dottrina cristiana, ma senza l’intenzione di servire gli interessi della Chiesa o di rappresentarla. Nei primi tempi del suo pontificato — lino alle vicende che seguirono la «crisi Matteotti» — egli sostenne il Ppi e lo raccomando ai cattolici desiderosi di partecipare alla vita politica . Agli attivisti del partito Popolare milanese, recatisi in visita dal Papa, subito dopo la sua elezione, egli disse «che gli appartenenti al Ppi avrebbero dovuto essere cattolici in tutto». Il che parve strano ad alcuni di quei centristi, che uscendo dall’udienza cosi commentarono: «Forse pretende il cardinale [sic] che si debba chiedere il biglietto pasquale a chi prenda la tessera del partito?»3. Pio XI desiderava che i vescovi, come anche i sacerdoti, non si occupassero troppo di politica. Col passare del tempo, quando la situazione politica nazionale divento più difficile, si andò sempre più rafforzando in lui l’idea di separare 1’ambito politico da quello dell’azione cattolica in generale, senza pero chiedere ai cattolici di abbandonare l’impegno politico. Al suo successore sulla cattedra ambrosiana, che gli chiedeva consiglio sul modo di comportarsi in diocesi con il partito Popolare, egli rispose risoluto: «Ebbene lei deve essere pastore religioso. Intervenga per correggere i devianti ma lasci il partito libero di manovrare. Tenga col partito rapporti di buon vicinato, perché senza il partito [cioè il Ppi] non potremmo far fagotto».

Invece, nel primo anno del suo pontificato, Pio XI come giudicò la rapida ascesa al potere del partito Fascista e che cosa pensò di Benito Mussolini, capo di quel partito? Non è facile dare risposte a queste domande, anche perchè le fonti documentali a nostra disposizione sono piuttosto scarse. Il pensiero del Papa su quelle vicende politiche e sociali, che successivamente avrebbero avuto un influsso importante anche sulla via della Chiesa in Italia, si può cogliere attraverso alcune sue conversazioni private o, indirettamente, attraverso gli articoli dell’Osservatore Romano e della Civiltà Cattolica. I cattolici vedevano con una certa preoccupazione 1’affermarsi del fascismo all’interno della società italiana, nonchè la sua rapida ascesa al potere, avvenuta per vie semilegali e attraverso la violenza squadrista. Sebbene Mussolini negli ultimi tempi — in particolare a partire dal suo primo discorso alla Camera del 21 giugno 1921 — si fosse dichiarato rispettoso del fatto religioso e anzi pubblicamente si fosse impegnato a difendere il cattolicesimo come religione «nazionale», ciò non rassicurava del tutto la Gerarchia ecclesiastica sulle reali intenzioni e mire del fascismo. Anche perché , mentre a parole Mussolini diceva di voler proteggere la Chiesa e andare incontro alle necessità materiali di questa, nella provincia continuavano, da parte dei suoi gregari, spesso al comando di ras locali, gli assalti alle sedi delle associazioni cattoliche e le violenze private contro i loro membri, mentre i suoi compagni di partito troppo spesso si lasciavano andare a gesti blasfemi di irriverenza nei confronti delle «cose più care e sacre ai cattolici». Da parte di molti uomini di Chiesa il fascismo a quel tempo era considerato un movimento massonico», pericoloso per la società civile e per la religione quanto il socialismo sovversivo. Anche le sue manifestazioni di ossequio verso la religione, spesso soltanto esteriori, venivano guardate con sospetto dai cattolici più sensibili.

Una preziosa testimonianza intorno alla mens del Papa circa le nuove vicende politiche si trova in una lettera di Roberto Faino al direttore della Civiltà Cattolica, p. Enrico Rosa: «Il p. Gemelli — scrive 1’attivista popolare milanese — trovandosi lo scorso mese solo col Santo Padre gli chiese quale condotta si dovesse tenere nei confronti del Governo. Il Santo Padre rispose: “Lodare, no. Fare l’opposizione aperta non conviene, essendo molti gli interessi da tutelare. Occhi aperti! “». Questo breve colloquio tra Pio XI e padre A. Gemelli illustra bene la posizione che il Papa assunse nei confronti del nuovo Governo e, più in generale, su ciò che stava accadendo in Italia in quel momento: egli, sebbene anche su questo avesse le sue idee, non si lasciò andare a valutazioni di carattere politico o ideologico, facendo intendere che un giudizio definitivo su quelle vicende sarebbe dipeso anche dal modo nel quale il nuovo Governo avrebbe tutelato gli interessi cattolici in Italia. Per il momento i responsabili ecclesiali dovevano restare vigili e attendere. Per approfondire il pensiero della Santa Sede — e del Papa — intorno al fenomeno del fascismo, nonchè sugli importanti avvenimenti politici del momento, si possono leggere le pagine della Civiltà Cattolica dedicate al dibattilo ideologico-politico e alla cronaca di quei giorni. «Ricordatevi — disse 1’arcivescovo di Milano, card. E. Tosi, ad alcuni dirigenti popolari della città — che gia da tempo sulla Civiltà Cattolica era preveduto che i fascisti sarebbero divenuti pericolosi, e ricordatevi che i gesuiti sono fini e vedono lontano…». In un editoriale pubblicato prima della Marcia su Roma, La Civiltà Cattolica assunse un atteggiamento piuttosto critico nei confronti del fascismo, che indicava quale «fenomeno, meglio che partito [ … ] , mutabile e multiforme». «Se al principio fu un semplice moto di ribellione o di reazione [. ..] contro la violenza C. ..] dei socialisti e comunisti», «do si vide presto travolto in tutt’altro indirizzo, violento e anticristiano, capitanato da torbidi uomini e spesato da mestatori. Cosi il fascismo e ora parossismo della disunione degli italiani, e sforzo impotente del vecchio liberalismo, di massoni, agrari, industriali arricchiti, giornalisti, politicanti e simili», per cui il fascismo non può avere ne il seguito ne 1’approvazione dei cattolici, anche perchè la sua morale appare per molti versi inconciliabile con quella cristiana. Tale articolo, che apparve — a motivo della scadenza quindicinale della rivista — nei giorni di maggiore tensione politica, fu vivamente disapprovato, pur avendo avuto il placet della Segreteria di Stato, dal superiore generale della Compagnia di Gesù, il p. W. Ledochowski, poiché egli temeva, e non senza ragione, una possibile reazione o censura da parte del nuovo Governo nei confronti dei gesuiti italiani. Cosi il Preposito generale scrisse al direttore della rivista, e autore dell’articolo, p. E. Rosa: «Ho letto il primo articolo dell’ultimo fascicolo della Civiltà Cattolica e ne fui molto addolorato. Questo tono veramente in se non e convincente e nelle presenti condizioni potrà più nuocere che giovare. Credo che per il presente non c’e altro da fare che fidarsi della Provvidenza Divina, ma la prego di essere per il futuro più cauto».

La rivista, a partire dalla Marcia su Roma, dovette modificare, o meglio «ammorbidire», il proprio orientamento in materia politica, e un nuovo editoriale, più critico ancora del precedente nei confronti del fascismo, che doveva uscire all’indomani della formazione del nuovo Governo Mussolini fu sostituito — pare su indicazione di Pio XI — con un altro articolo più conciliante, nel quale e fissato, sebbene ancora in luce, l’orientamento che la rivista avrebbe mantenuto nei confronti del fascismo per diversi anni. «Quando una forma di governo sia legittimamente costituita — affermava l’articolo — , sebbene inizialmente difettosa o anche discutibile per diversi rispetti [ … ], e dovere sottostarle, in ciò che richiede l’ordine pubblico oil bene comune della società; ne si fa lecito, a individui o partili che siano, di tramare ad abbatterla o soppiantarla o modificarla con vie ingiuste». Un poco alla volta La Civiltà Cattolica, pur denunciando le violenze delle squadre fasciste, si impegno nell’opera di legittimazione del fascismo anche agli occhi del mondo cattolico: il suo fine professato era quello di «correggere, moralizzare» e insieme «cristianizzare» questo nuovo fenomeno «ancora mutabile e multiforme».

«Mano tesa» di Mussolini alla Chiesa.— Una delle prime significative scelte politiche fatte da Mussolini, dopo aver consolidato il suo potere, fu di promuovere una politica di «avvicinamento», o di «mano tesa», nei confronti della Gerarchia ecclesiastica e in particolare della Santa Sede, come del resto aveva anticipato nel suo primo discorso alla Camera dei Deputati il 21 giugno 1921. In quell’occasione egli disse — sconfessando apertamente e senza pudore uno dei principi fondamentali della propaganda sansepolcrista e della sua stessa attività di giornalista «mangiapreti» — che il fascismo non predicava ne praticava 1’anticlericalismo e che tanto meno era legato alla massoneria, di cui al contrario condannava le mire. Affermo «che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi e rappresentata dal cattolicesimo». « do penso — continuava il neo-onorevole Mussolini, citando Mommsen — che l’unica idea universale che oggi esista a Roma e quella che s’irradia dal Vaticano». E pensare che qualche anno prima dalle colonne del Giornale d’Italia, di cui era direttore, egli aveva rumorosamente tuonato contro il Papa, i preti e il Vaticano, scrivendo che bisognava fare piazza pulita della religione, «liberare l’Italia da questo ciarpame», e che l’unico modo per risolvere la «questione romana» era di far sloggiare il Papa dal Vaticano, accompagnandolo oltre confine. Ora invece, mettendo tra parentesi quel fin troppo rumoroso e agitato passato «rivoluzionario», egli intendeva fare del cattolicesimo «romano» uno dei sostegni della sua politica nazionale. II nuovo capo del Governo si aspettava dalla Chiesa italiana e dalla sua Gerarchia una collaborazione attiva in questo senso: essa avrebbe dovuto mettere al servizio della nuova idea nazionale, cioè dello «Stato fascista», la sua grande influenza morale sul popolo, ancora molto legato alla religione cattolica. In cambio egli avrebbe eliminate 50 anni di legislazione anticlericale, posta in essere dai passati Governi liberali e ne avrebbe favorito la missione religiosa e sociale in tutti i modi possibili. Tale idea di una «collaborazione attiva» tra Chiesa e fascismo era stata espressa da Mussolini nel gia citato discorso alla Camera: «Penso che se il Vaticano rinuncia definitivamente ai suoi sogni temporalistici — e credo che sia gia su questa strada —, l’Italia, profana o laica, dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per scuole, chiese, ospedali o altro, che una potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicesimo nel mondo, 1’aumento dei 400 milioni di uomini, che in tutte le parti della terra guardano a Roma, e di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani». A quel tempo per() 1’autorità ecclesiastica aveva preferito non modificare il suo giudizio negativo sul fascismo, condannandone sia la dottrina, inficiata di statolatria e di teorie irrazionaliste, sia il metodo di lotta politica, basato sulla violenza squadrista e sul ricatto. Essa, pur registrando con un certo favore le «sorprendenti» parole pronunciate da Mussolini sul cattolicesimo «nazionale», preferì per il momento tacere, giudicando più conveniente ignorare le avances che le venivano fatte da quegli stessi uomini che ordinavano la devastazione dei circoli di Azione Cattolica, nonché del Ppi e dei sindacati e delle cooperative bianche, e l’aggressione dei suoi membri.

Arrivato al potere, Mussolini cercò di accreditarsi presso l’opinione pubblica nazionale e internazionale come un uomo politico moderato, rispettoso dei diritti statutari e amante dell’ordine e della religione. A un gruppo di giornalisti il 21 novembre 1922, un mese circa dopo la marcia su Roma, disse a Losanna — senza provare imbarazzo o vergogna — di essere uno spirito «profondamente religioso» e dichiarò essere la religione una forza fondamentale per la nazione e che quindi,andava difesa e rispettata: «Sono pertanto contrario alla demagogia anticlericale e ateista [ … ] . Affermo che il cattolicesimo e una grande potenza spirituale e morale e confido che i rapporti tra lo Stato italiano e il Vaticano saranno d’ora in avanti molto amichevoli». Di fatto, gia dai primi mesi di Governo egli cerco di tradurre in pratica queste affermazioni e di mantenere le promesse fatte alla Gerarchia ecclesiastica un anno prima, quando era soltanto un semplice deputato dell’opposizione. Si interesse di persona perché tutto procedesse in questa materia come egli aveva previsto, anche superando l’opposizione di alcuni suoi compagni di partito, ancora imbevuti di idee anticlericali, nonché dei funzionari dell’amministrazione statale, ligi a una gia sperimentata pratica rigorosamente «separatista» circa le materie ecclesiastiche. Unilateralmente — senza nulla chiedere in contraccambio, almeno nell’immediato, alla Santa Sede — egli, come si vedrà, ordino provvedimenti amministrativi favorevoli alla Chiesa e inizio anche a pensare a riforme legislative in materia ecclesiastica. La Gerarchia cattolica si limitò, per il momento, a ringraziare il nuovo capo del Governo e a commentare positivamente tali provvedimenti. Ma quale scopo Mussolini si prefiggeva con la politica della «mano tesa» verso la Chiesa? Che cosa lo spingeva a modificare la tradizionale politica «separatista», ispirata cioè alla dottrina liberale della separazione tra Chiesa e Stato o, per dirla con Giolitti, «delle rette parallele», che i Governi liberali avevano da sempre seguito nei confronti della Santa Sede? Non certo il sentimento religioso di cui, qualunque cosa egli stesso dicesse, era del tutto privo, ma motivazioni di carattere eminentemente politico. Egli sapeva che l’italiano medio era in generale religioso e «osservante», e che la Chiesa aveva una grande influenza sia nel forgiare la coscienza del popolo, sia nell’indirizzarne 1’azione. Sapeva, inoltre, che sarebbe stato molto difficile combattere la Chiesa su questo piano, come teorizzavano i socialisti massimalisti, togliendole cioè quelle funzioni che da sempre aveva avuto e che le erano riconosciute come pertinenti dalla maggior parte degli italiani. Tanto valeva allora accordarsi con essa e averla dalla propria parte.

Il fascismo, pensava Mussolini, presentandosi come partito d’ordine, rispettoso delle gerarchie sociali e dei «diritti dei proprietari», e quindi antisovversivo e antisocialista, non avrebbe avuto difficoltà a trovare punti in comune con la Chiesa; era necessario pero potare il partito dai rami secchi del vecchio anticlericalismo, e Mussolini lo avrebbe fatto al pin presto. Se il partito doveva espandersi e diventare realmente «nazional-popolare», doveva agganciare e quindi assorbire le masse cattoliche sia del Sud sia del Nord, altrimenti sarebbe rimasto un partito mediopiccolo, destinato a conservare il potere attraverso 1’uso della forza o del ricatto, ma non con il consenso delle masse. I1 fascismo, per diventare un vero partito di massa, doveva assicurarsi la benedizione del Papa e in genere della Gerarchia cattolica. In una parola, lo scopo della politica ecclesiastica perseguita da Mussolini in quei primi anni di Governo consisteva nell’integrare la Chiesa e la Gerarchia all’interno del proprio sistema politico di «rigenerazione nazionale». Per raggiungere tale obiettivo, pero, era necessario prima di ogni altra cosa «svuotare» il Ppi del suo elettorato cattolico, e ciò si poteva fare soltanto cercando di «sganciarlo» dalla Gerarchia ecclesiastica, facendo in modo che questa non lo appoggiasse più come partito cattolico. Mussolini mise in atto tale strategia in due modi: anzitutto facendo si che il Ppi abbandonasse il Governo e si allineasse con i partili di opposizione, e poi mutuando il programma di politica religiosa dei popolari e iniziando a dargli pratica esecuzione. In questo modo il fascismo si assunse davanti agli italiani, e in particolare davanti alla Gerarchia cattolica, il ruolo di difensore degli interessi religiosi nazionali. La Santa Sede si rese subito conto che questa autoinvestitura in fondo le faceva comodo, e lasciò fare. Essa per non si «sganciò», come ritengono alcuni studiosi, dal Ppi per andare verso il fascismo: diciamo che cerco di mantenere una certa formale equidistanza tra le due forze politiche, ormai una di governo e 1’altra di opposizione, sebbene considerasse soltanto i popolari veramente come «uomini suoi». Nei momenti in cui la battaglia politica si fece più aspra essa fece di tutto per difenderli — cercando pet-6 di non esporsi troppo — dalla violenza fascista, e accolse nelle organizzazioni di Azione Cattolica una parte dei suoi sindacati o associazioni destinati allo scioglimento.

Provvedimenti «unilaterali» in favore della Chiesa – anche prima dell’avvento di Mussolini al potere esistevano contatti, spesso improntati a cordialità e correttezza, tra la Santa Sede e il Governo italiano; essi si intensificarono a partire dai primi «colloqui» parigini dell’estate del 1919 tra il presidente del Consiglio V. E. Orlando e mons. B. Cerretti, inviato della Santa Sede, riguardanti una possibile intesa per la risoluzione della «questione romana». Tali colloqui, come e noto, furono immediatamente interrotti a motivo dell’ostilità del re a un qualsiasi progetto che contemplasse una cessione, sia pur minima, di territorio nazionale. I rapporti tra Santa Sede e Governo italiano continuarono per() anche durante i successivi Esecutivi, anzi divennero sempre pin frequenti e cordiali, in particolare sotto la presidenza Nitti. Tutto questo avvenne negli ultimi anni del pontificato di Benedetto XV, grazie alla sapiente e preziosa attività di intermediazione svolta dall’«incaricato di affari» barone Carlo Monti, che era amico personale del Papa. I1 nuovo Governo Mussolini continuo a trattare le questioni di politica ecclesiastica secondo la prassi consolidata sotto i Ministeri precedenti, ma con spirito assolutamente nuovo. Questa volta le richieste fatte dalla Santa Sede all’autorità civile, anziché rimanere giacenti per lungo tempo e inascoltate, venivano, la maggior parte delle volte, immediatamente accolte. Anzi era Mussolini stesso che proponeva ai suoi collaboratori riforme in materia ecclesiastica, secondo lo spirito e le aspettative della Gerarchia ecclesiastica. La prassi che le passate amministrazioni avevano seguito nella trattazione delle questioni riguardanti la materia ecclesiastica era quella della cosiddetta «doppia intesa»: dal punto di vista formale (o legale), sulla base del principio di separazione tra Stato e Chiesa, era escluso ogni tipo di intesa o di accordo palese tra i due poteri, per cui il Governo doveva disinteressarsi di tutte le questioni di carattere religioso; dal punto di vista materiale (o sostanziale), per risolvere alcune importanti questioni in materia religiosa, riguardanti ora il patrimonio ecclesiastico, ora la nomina dei vescovi o altro, si faceva ricorso a un «incaricato di affari», persona generalmente gradita ad ambedue le parti.

In sostanza, per i Governi liberali era importante che il principio di separazione tra i due poteri rimanesse valido e senza eccezioni, mentre segretamente, a livello operativo, si poteva manovrare come si voleva, e quindi stringere accordi vincolanti con la controparte. In questo modo furono risolte, nell’interesse di tutti, importanti questioni in materia ecclesiastica, ma soprattutto si evitarono scontri aperti tra le due autorità. A Mussolini tale principio sembrava un inutile feticcio del passato, un anacronismo storico che non aveva pin senso continuare a porre come principio direttivo del rapporto tra la Chiesa e il nuovo Governo fascista, impegnato a mettere in forte rilievo 1’«italianità» e la «latinità» della patria. Un rapporto che si voleva il pin ampio e convergente possibile; per cui era compilo dello «Stato fascista» disfarsi di questo inutile residuo storico. «Il regime fascista — dirà Mussolini qualche anno dopo — superando in questo, come in ogni altro campo, le pregiudiziali del liberalismo, ha ripudiato cosi il principio dell’agnosticismo religioso dello Stato, come quello di una separazione tra Chiesa e Stato, altrettanto assurda quanto la separazione tra spirito e corpo». I primi contatti fra il nuovo Governo fascista e la Santa Sede si ebbero già a partire dalla fine di dicembre del 1922. Fu l’On. Fulvio Milani, sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia e Culti, a chiedere al p. Giovanni Genocchi dei Missionari del Sacro Cuore — uomo di grande prestigio intellettuale nella Roma del tempo, legato agli ambienti della Curia romana e bene introdotto in alcuni «salotti bene» della Capitale, frequentati da intellettuali e politici — un incontro «segreto» per trattare questioni concernenti la materia ecclesiastica. In una lettera inviata alla Segreteria di Stato, il religioso cosi riportava quell’importante incontro: l’on. Milani [. ..] ha voluto avere un colloquio con don Minozzi e me in luogo nascosto alla curiosità dei giornalisti e di altri. A lui il ministro Oviglio ha affidato quanto appartiene alle questioni ecclesiastiche, di cui lui e ignaro. E noto pure l’ordine e lo spirito di Mussolini, che vuole largamente favorire le aspirazioni dei cattolici e dell’Autorità ecclesiastica». ‘incontro era stato sollecitato dall’On. Milani perché il Governo Intendeva provvedere seriamente alle «condizioni finanziarie e morali del Clero italiano, sottoposto all’arbitrio degli economati e d’una burocrazia massonica», e su questa materia «non ufficialmente, perché adesso non si può, ma privatamente, per modo d’informazione su cui regolarsi, il Milani vorrebbe sapere che progetto preferisce la Santa Sede e che cosa di nuovo avrebbe da suggerire. Altrimenti ‘ progetti che egli presenterà potrebbero essere incongruenti». Sottosegretario, che agiva su incarico del ministro Oviglio e Mussolini, chiese poi al p. Genocchi che la Santa Sede indicasse un uomo di sua fiducia che potesse, anche in futuro, come di fatto era avvenuto negli ultimi tempi, fare da tramite fra il Governo e la Segreteria di Stato. «Si vorrebbe una persona di piena fiducia e che non destasse sospetti», disse l’On. Milani, meglio un religioso che un laico.

Escluse come «candidato» il vecchio barone Monti, troppo compromesso con il passato, e in qualche modo anche il sen. C. Santucci, oche ha troppo affari e non sembra soddisfare». Il p. Genocchi faceva il nome dello stesso don G. Minozzi, ma questi per qualche ragione non dovette convincere a pieno la Segreteria di Stato. Sappiamo che successivamente fu scelto come intermediario tra il Governo e la Santa Sede il gesuita Pietro Tacchi Venturi, che troviamo gia attivo nella sua nuova missione di «incaricato d’affari» a partire dalla meta di febbraio del 1923. Nei primi anni di Governo, Mussolini si mosse nei rapporti con la Santa Sede secondo la prassi sperimentata dai passati Governi liberali, secondo la quale, come si e detto, le materie di politica ecclesiastica venivano trattate e risolte attraverso accordi segreti, e non attraverso leggi dello Stato approvate dal Parlamento. Appena consolidato nuovo Governo Mussolini diede subito prova di voler prendere sul serio le questioni religiose e di voler instaurare rapporti «amichevoli» con la Santa Sede, dando attuazione, unilateralmente, a tutta una serie di provvedimenti amministrativi riguardanti la materia ecclesiastico-religiosa che si trascinavano da lungo tempo. Altri ne prese o ne fece prendere di propria iniziativa. Tra questi ricordiamo: il provvedimento votato dal Consiglio dei ministri che stabiliva il trasferimento in Vaticano della Biblioteca Chigiana, acquistata dallo Stato insieme al palazzo nel 1918; la delibera che stabiliva 1’erogazione di tre milioni di lire per il restauro delle chiese danneggiate dalla guerra, nonché le sostanziose sovvenzioni date a scuole italiane all’estero tenute da congregazioni religiose; l’ordine di mettere il crocifisso nei luoghi pubblici, come scuole, aule giudiziarie ecc.; i provvedimenti per la tutela della moralità pubblica (come quello sulla repressione dei giochi d’azzardo) insistentemente chiesti al capo del Governo dall’Azione Cattolica .Ma i provvedimenti che maggiormente furono apprezzati e lodati dalla Gerarchia ecclesiastica furono due: la riforma scolastica e la delibera del Gran Consiglio del Fascismo sulla incompatibilità tra i principi del fascismo e quelli della massoneria.

La cosiddetta riforma Gentile», in materia scolastica, fu certamente uno dei provvedimenti più significativi presi dal nuovo Governo. In realtà essa fu più apprezzata dai cattolici e dai popolari — i quali a quel tempo facevano ancora parte della coalizione di Governo — che dagli altri gruppi politici. Infatti essa faceva propri alcuni principi del programma popolare in materia scolastica, quali l’introduzione dell’esame di Stato e l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole primarie. Nuovo pero era lo spirito che animava tale riforma, la quale si muoveva secondo la ben nota direttiva: l’insegnamento religioso — disse il ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile deve diventare il principale fondamento «dell’educazione pubblica e di tutta la restaurazione morale dello spirito italiano». In realtà, Gentile lavoro per dare all’istruzione pubblica un nuovo fondamento teorico ispirato alla filosofia storico-idealista: si voleva, cosi, superare la vecchia impostazione positivista data alla scuola pubblica dalla vecchia legge Casati ed esaltare i valori della patria e della latinità. L’insegnamento religioso era da lui considerato come uno (non certamente il solo) dei valori di questa tradizione storica che bisognava riscoprire e rimettere in onore. La politica di cordiale avvicinamento del Governo fascista alla Chiesa trovo presto pronta accoglienza in quella parte della Gerarchia ecclesiastica, a quanto pare non poco numerosa, che vedeva nel fascismo, e nel suo capo, nonostante alcune sue intemperanze o esagerazioni, l’unica forza politica capace di riportare l’ordine nel Paese e soprattutto di saper tenere a bada le forze eversive (socialisti e comunisti) e i nemici della Chiesa (massoneria). Per la prima volta nella storia unitaria, si sentirono vescovi dire, al momento della presa di possesso della loro diocesi: «Sento il dovere di mandare pure il mio saluto a colui che indirizza l’Italia sulla via retta, a colui che da nuovo vigore alla Nazione, al capo del Governo». Cosi fece monsignor Paino, vescovo di Messina. Si videro, inoltre, vescovi e cardinali partecipare a cerimonie pubbliche accanto a rappresentanti dello Stato o a gerarchi fascisti, per commemorare il Milite Ignoto, i caduti in guerra, o qualche altro avvenimento della recente storia nazionale.

Ciò che fece rumore a quel tempo, sia negli ambienti cattolici sia in quelli liberali, fu lo scambio di visite, avvenute a breve di-stanza di tempo, fra il nuovo regio commissario per la città di Roma, F. Cremonesi, e il cardinale B. Pompilj, vicario del Papa: visita quest’ultima che L’Osservatore Romano del 14 marzo 1923 definì come «privata» e di semplice cortesia. Ciò avvenne dopo che il Governo aveva ottenuto le dimissioni del Consiglio comunale di Roma e del suo sindaco, e la nomina al suo posto di un egregio rappresentante»: per la «città eterna» si voleva un uomo fedele al fascismo e soprattutto non inviso alla Santa Sede. Egli infatti avrebbe dovuto curare i rapporti con il Vaticano secondo le indicazioni del regime e accoglierne, nella misura del possibile, le richieste, in particolare quelle concernenti la preparazione del grande giubileo dell’Anno Santo 1925. Tutto il mondo in quell’occasione avrebbe constatato che Roma era ritornata ad essere il centro dell’universo cattolico e che, per merito del Governo fascista, il Papa ritornava a esservi rispettato e ascoltato come non era accaduto nell’ultimo cinquantennio di storia unitaria e liberale. L’On. Cremonesi da parte sua fece di tutto nei suoi anni di «governatorato» per guadagnarsi la fiducia dei cattolici romani e della Santa Sede, anche andando incontro ad alcune richieste di quest’ultima, che per lunghi anni erano rimaste inascoltate dalle amministrazioni liberali della Capitale. Sebbene i rapporti tra autorità pubblica civile e autorità ecclesiastica diventassero sempre pin «amichevoli» e rispettosi, soprattutto a Roma, non va dimenticato perchè in alcune regioni del nord Italia, dove la presenza dei popolari era più forte e attiva, ci furono spesso tensioni tra autorità civili, spesso fasciste, e autorità religiose. Queste divennero sempre pia forti col passare del tempo: vale a dire quando a partire dal febbraio del 1923 — cioè dopo il congresso del Ppi a Torino e l’uscita dal Governo dei popolari — si intensifica la lotta del fascismo contro il partito di don Sturzo e le organizzazioni politiche ed economiche popolari. Sebbene alcuni prelati di curia o alcuni vescovi residenziali si lasciassero andare a considerazioni pin che generose nei confronti dell’operato del nuovo Governo, Pio XI al contrario mantenne su questo tema il massimo riserbo. Pubblicamente non disse una parola sull’indirizzo politico del Governo Mussolini, ma privatamente a chi gli chiese consiglio sul come agire nella presente situazione, disse parole chiare e inequivocabili, come quelle gia ricordate, dette al p. A. Gemelli nell’autunno del 1923: ««Lodare [il fascismo], no; fare l’opposizione aperta, non conviene, essendo molti gli interessi da tutelare. Occhi aperti!».




Una mostra a Palazzo Venezia. Mario Mafai, a Roma. "Corretto" politicamente


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Nella rassegna – che resterà aperta sino al 27 febbraio del 2005 – Duccio Trombadori fa notare, in un articolo su “Panorama” che c’è una pesante “correzione” politica in atto su Mafai. Ecco il testo dell’articolo di Duccio Trombadori, che ha per titolo “Fa ancora paura l’affresco fascista”:

E’ un peccato che l’affresco di 15 metri inneggiante al Trionfo di Cesare, eseguito nel 1937 da Mario Mafai nella trasteverina ex Gil (Gioventù italiana del littorio), sia ancora oggi coperto dal «braghettone» di intonaco imposto dopo il 1945 alla memoria del «clima imperiale del fascismo» in cui l’opera venne concepita. Di temperamento anarchico e libertario, Mafai mal sopportava le parate del regime, tanto che il suo Trionfo pare recasse evidente simpatia visiva per i prigionieri condotti a Roma dai legionari vittoriosi.

Se si pensa poi che Mafai dipinse l’ affresco più o meno nello stesso periodo in cui elevava un malinconico lamento per gli sventramenti edilizi di Roma con le sue raffinate Demolizioni, appare tanto più colpevole il «pregiudizio antifascista» che portò a cancellare forse irrimediabilmente 1’opera.

In attesa che le autorità (sindaco di Roma Walter Veltroni in testa) si decidano a riparare i guasti della indecente rimozione, ci godremo ancora una volta solo una versione «politicamente corretta» di Mafai, nella mostra di Palazzo Venezia (dal 7 dicembre a1 27 febbraio 2005) per il quarantennale della scomparsa di un protagonista dell’arte «entre deux guerres», nonché testimone e interprete della successiva catastrofe nazionale e ricostruzione postbellica.

Con il suo affascinante colorismo febbrile e lirico, che risentiva di Henri Matisse e in genere del gusto fauve (in sodalizio col genio di Scipione, l’accesa fantasia di sua moglie Antonietta Raphael e l’arguzia di Marino Mazzacurati), Mafai (1902-1965) fissò una certa immagine aristocratica e plebea di Roma, molto meglio di quanto non fosse già capitato ad Alberto Moravia con gli Indifferenti, interpretando così la crisi, le inquietudini e la insofferenza di una nuova generazione artistica che considerava retorico e celebrativo il gusto Novecento.

Accadde così che i giovani contestatori (Roberto Longhi li promosse a Scuola romana di via Cavour) furono appoggiati prima dal sapiente camerata Cipriano Efisio Oppo, segretario generale della Quadriennale, e successivamente dal frondismo intellettuale di Giuseppe Bottai, che nel 1940 fece vincere proprio a Mafai il premio Bergamo di pittura in antagonismo col «fascistissimo» premio Cremona voluto da Roberto Farinacci.

Nacque in questi frangenti il mito di Mafai «antifascista militante», alimentato ad arte nel secondo dopoguerra, quando egli aderì al Partito comunista per distaccarsene poco dopo.

Approdato negli ultimi tempi a una sofferta espressione quasi informale, Mafai terminò la vita in semplicità con lo stesso spirito di bohème che lo aveva visto nascere. E questo suo modello di libero comportamento artistico non corrivo alle mode e ideologie dominanti è una eredità morale che oggi vale forse ancora di più delle eccellenti pitture esposte a Palazzo Venezia

Per meglio capire quale fu il “percorso artistico” del Mafai e soprattutto per rendersi conto del fervido, qualificatissimo e “vitalistico” contesto in cui esso si svolse, pubblichiamo qui di seguito una nota informativa – con relativa bibliografia – reperibile su Internet:

 

Mario Mafai 1902-1965.

Il padre è notaio, la madre dirige la Pensione “Salus” a Piazza Indipendenza. Il giovane Mafai abbandona gli studi regolari intorno al 1917 per dedicarsi alla pittura. Nel 1924 stringe amicizia con Gino Bonichi (Scipione) e insieme frequentano la Scuola libera del nudo all’Accademia di Belle Arti.

Nel 1925 si lega alla Raphael da poco giunta da Parigi, dalla quale avrà tre figlie, Miriam (1926), Simona (1928) e Giulia (1930).

Nel 1927 Mafai e Antonietta vanno ad abitare nella casa-studio in Via Cavour, frequentata anche da Scipione e Mazzacurati e nello stesso anno Mafai esordisce nella “Mostra di studi e bozzetti” organizzata dall’ Associazione Artistica Nazionale in Via Margutta.

Nel 1928 espone alla XCIV Mostra degli Amatori e Cultori di Belle Arti.

In questo periodo Mafai frequenta insieme a Scipione la Biblioteca di Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, stringe rapporti di amicizia con Ungaretti, de Libero, Sinisgalli,

Beccarla, Falaui.

Nel 1929 espone, con Scipione e altri, al “Convegno” di giovani pittori a Palazzo Doria. C.E. Oppo appoggia il gruppo dei giovani romani e scrive dell’antimpressionismo di Mafai, che espone paesaggi e ritratti, richiamando i nomi di Utrillo, Derain, Vlaminck.

Di lì a poco Longhi, recensendo la I Sindacale del Lazio, conia per il terzetto Mafai- Scipione- Raphael la fortunata definizione “Scuola di Via Cavour”.

Ai primi del 1930 parte con la moglie per Parigi, ma nel novembre è di nuovo a Roma per una personale, con Scipione, alla Galleria di Roma diretta da P.M. Bardi. E’ una fase di transizione; i tenebrosi impasti che gli derivano dalle suggestioni museali cedono a un rinnovato interesse per la luce. Nel 1931 espone alla I Quadriennale di Roma, che farà conoscere la sua opera, con quella di altri esponenti della Scuola romana, in una mostra itinerante negli Stati Uniti (1931-32); esordisce alla XVIII Biennale di Venezia (1932).

Gli anni 1933-34 lo vedono impegnato in un intenso lavoro, che produrrà alcune fra le sue opere maggiori, Donne che distendono al sole (1933), Nudo in riposo (1933, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), Lezione di piano (1934) e la serie dei Fiori. Nel 1935 la II Quadriennale accoglie una sua personale con 29 dipinti, che sancisce la sua posizione e gli frutta un premio di 25.000 lire. Nello stesso anno si inaugura a San Francisco la “Exhibition of Contemporary Italian Painting”, mostra itinerante organizzata da Sabatello, che rappresenta la recente svolta in senso tonale della pittura romana. Il successo è ribadito dalla personale alla Galleria della Cometa (1937), dove compaiono fra l’altro alcune delle sue celebri Demolizioni, raffinate meditazioni coloristiche che traggono spunto dagli sventramenti in atto nel centro storico. Alla XXI Biennale di Venezia (1938) ha una sala insieme a Ziveri. Nel 1939 si trasferisce con la famiglia a Genova, per sottrarre Antonietta alle discriminazioni razziali; gli sono vicini i collezionisti e amici Jesi e Della Ragione, incontra Manzù, Guttuso, Birolli, si lega di amicizia con Sbarbaro. Alla seconda mostra milanese di “Corrente” alla Galleria Grande (1939) espone le prime Fantasie, grovigli di nudi in conflitto o grottesche mascherate, dove i più vari riferimenti (Goya, Géricault, Grosz) si affollano, in una concitata atmosfera di terrore che preannuncia la guerra.

Tra il ’43-’44, Mafai aderisce al PCI; e continua la sua attività fra mostre e premi, fino all’ultimo periodo, che si conclude “con le spoglie e drammatiche corde” del 1960-‘63.

 

Ed ecco una sintetica Bibliografia:

L. de Libero, Mafai, Roma 1949; Mario Mafai, V. Martinelli, Mafai, Roma 1967; Catalogo della mostra Mario Mafai, a cura di G. Sangiorgi e J.Recupero, Roma 1969; La pittura di Mafai, R. De Grada, La pittura di Mafai , Milano 1969; M.Mafai, Diario 1926-65, a cura di G. Appella, Roma 1984; Catalogo della mostra Mario Mafai 1902-1965, a cura di F.D’Amico, G. Appella, F. Gualdoni cat. mostra, Palazzo Ricci e Pinacoteca Comunale, Macerata 1986; M. Fagiolo Dell’Arco, V.Rivosecchi, Mafai , Roma 1986; Catalogo della mostra I fiori di Mafai, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Roma 1989; Catalogo della mostra I Mafai – Vite parallele, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, “apparati critici” di F.R. Morelli Roma 1994.

(a cura di Umberto Giusti)




Antifascisti: ma come sono ridotti male!


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

I tanti libri che escono sul fascismo – in Italia come in tutto il mondo – sono più o meno decisamente “pro” oppure di tono documentaristico. Difficile trovare un volume che sia francamente “contro”. Ma poiché uno ne è uscito di recente (“Le veline del Duce” – edizioni Sperling Kupfer, pagine 179 – 18,00 euro) dobbiamo qui, per correttezza informativa, darne conto. L’arrivo nelle librerie, è stato “salutato” dal “Corriere della Sera” con un articolo di Antonio Carioti; un articolo che è ancora più polemico del volume, perché tra occhiello e titolo siamo a questo: “Un libro raccoglie le disposizioni grottesche del fascismo ai giornali. Vietate anche le foto troppo “umili” di donna Rachele – «Ignorate Greta Garbo»: veline da ridere del Minculpop”.

C’è da essere interessati, non è vero? C’è da andare a leggere il libro, naturalmente. Ma prima di tutto, c’è da leggere l’articolo.

Per scoprire – e ci aiuteremo, oggettivamente, con qualche stralcio dello scritto di Antonio Carioti – per scoprire, dicevo, che le cose non stanno affatto come viene chiassosamente proclamato.

Perché è vero che qualche “nota” del Minculpop è redatta in tono eccessivamente enfatico – ma è un pò lo stile dell’epoca; e anche le pubblicazioni antifasciste che uscivano in Francia, per non parlare dei toni dei tanti “comunicati” della Mosca stalinista ne erano abbondantemente intrisi ma, tutto sommato, e scendendo nel merito, cosa c’è di grottesco, cosa c’è di “roba da ridere”?

Si tendeva a dare, ad esempio, consigliando la pubblicazione di un certo tipo di foto femminili e sconsigliando quelle di altro tipo, una “immagine” di donna non troppo “divistico”. Discutibile? Opinabile? Certo; ma non grottesco.

E lo stesso può dirsi di quel che l’articolo sostiene, quando denuncia e contesta “l’ossessione di controllare ogni centimetro quadrato di carta stampata, pubblicità e annunci matrimoniali inclusi”. Il fascismo era un regime autoritario, sotto molti aspetti “totalitario” (nel senso che mirava ad inserire “tutto”, la totalità della vita nazionale nella struttura “organica e corporativa” dello Stato) e operava in un’epoca nella quale non esistendo la TV, quasi ogni espressione propagandistica e di “immagine” si giocava nell’area della carta stampata.

“Ed è a quel contesto che bisogna rifarsi – e non ci vuole molta fantasia; e volumi a diecine lo hanno fatto! – per capire lo spirito e le motivazioni di certe <<note>> del Minculpop”, scrive Carioti ricordando che l’autore del volume è un <<giornalista di lungo corso del Mattino”, anche quelle a proposito di Greta Garbo o, mettiamo, a proposito di donna Rachele.

Cosa c’era di male, sempre ad esempio concreto, nello sconsigliare o proibire troppe foto di Donna Rachele? Oppure di non citarla nei sommari e, durante la guerra, di consigliare di non citare “una sua visita in taluni ospedali?”.

Diremmo che si tratta di una specie di “pudore”, che a nostro avviso andrebbe invece sottolineato in senso positivo. E specie se confrontato con la “libidine” di tante più o meno qualificate protagoniste della vita pubblica attuale che sgomitano a più non posso per essere riprese in foto – o alla TV – anche quando si scambiano le mutandine.

Insomma, se è di cose del genere che si è ridotto a gioire con figio di riscatto, l’antifascismo, ci sembra di poter concludere che si contenta davvero di poco; delle briciole di cronaca…

Ci sono però, anche, nel volume alcuni “errori” dell’autore; e va dato atto all’autore dell’articolo di segnalarli con vigore.

Stralciamo da quello che scrive Antonio Carioti:

Collocare all’estrema destra lo scrittore fantasy Tolkien è un errore diffuso, ma la frase «le radici profonde non gelano», tratta dal suo capolavoro Il Signore degli Anel1i non si può certo far risalire al Duce. Ben più stravagante è tuttavia vestire in camicia nera John Belushi, che rese popolare il detto «quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare» (traduzione dall’inglese «when the going gets tough, the toughs get going»).

Forse sviato dall’elenco incluso nel sito nostalgico www.ilduce.net, Cassero attribuisce inoltre al règime littorio il motto «chi osa, vince» appartenente invece (<<who dares wins») alle forze speciali britanniche. E fa lo stesso con l’antico monito «o con noi o contro di noi», già riportato, sia pure in forma un pò diversa, nel Vangelo di Luca (11, 23). Ma il massimo è assegnare a Mussolini la paternità dello slogan «meglio morire in piedi che vivere in ginocchio», immortalato, nella versione spagnola «antes morir de pie que vivir de rodillas», dalla dirigente comunista Dolores Ibarruri, nota come la Pasionaria.

Pino Rauti




Intervista a Pino Rauti su Fascismo ed Europa


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Il “Corriere di Roma” – che è da 57 anni un mensile culturale a vasta diffusione negli ambienti più qualificati della Capitale ed è il portavoce dell’associazione “Brutium” – ha pubblicato nel numero del 19 aprile scorso, un’ampia intervista con l’onorevole Pino Rauti. Essa è comparsa sotto il titolo “Una vita dedicata alla politica”, a firma di Marco Rheo e contiene in apertura una piuttosto ampia nota biografica su Rauti (“volontario a 17 anni nella RSI” – “Segretario del MSI DN dal 1990 al 1991” e “detenuto” più volte per motivi politici”). L’introduzione dell’articolo ricorda anche qualcuno dei libri scritti da Rauti e alcune delle Riviste da lui dirette. Poi, cominciano le domande, e le risposte, delle quali riportiamo le principali:

- Presidente Rauti, qual è il suo pensiero sulla Giustizia?

– C’è una giustizia di parte, purtroppo. E il mio parere non può che essere negativo. Io sono stato accusato delle stragi di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e di Bologna (2 agosto 1980). Ci ho, messo 4 anni per dimostrare la mia estraneità. Tutt’ora sono imputato per quella di Brescia (28 maggio 1974). Supereremo anche questa.

- Cosa le dà più fastidio nella politica attuale?

– La bassezza di livello e l’incapacità, sia a destra che a sinistra, di elaborare progetti di ampio respiro. Oggi, per i momenti che viviamo, la progettualità è fondamentale; invece…nulla. Si vive di ordinaria amministrazione, si tira a campare e basta.

- Come si colloca lei, con il suo Partito, nello scenario italiano, e non solo in quello?

– Sono sempre stato europeista convinto. Oggi però sono scettico. Si sta costruendo l’Europa dei mercati trascurando la cultura, la sicurezza, una politica estera comune.

- Quale è il suo giudizio sul MSI?

– E’ stato un movimento di passione e di sacrificio. Peccato che nel momento in cui stava per raggiungere obiettivi storici sia stato deviato verso altri lidi….

- In questo cambio di rotta, quanto ha influito il legame con il Fascismo?

– Il legame è stato vissuto in modo sbagliato. La nostalgia non ha fatto bene al MSI. Il fascismo, per come è stato, rappresenta un momento irripetibile perché è legato alle condizioni storiche in cui nacque. Diverso, invece, doveva essere il rapporto con i valori che in quel regime e in quello Stato furono più o meno realizzati. Ad iniziare proprio dall’Europa, una Europa con una sua anima ed una: autonoma operatività.

- Ma lei, cosa rimprovera al Fascismo?

– Domanda complessa, almeno per me… diciamo, il non aver tentato di realizzare, in anticipo, i grandi obiettivi sociali che poi si espressero nella ultima fase della guerra e della Repubblica Sociale. La partenza era stata buona… poi la strada si presentò più difficile del previsto…

- Come giudica, in sintesi, la svolta di Fiuggi?

– “Il mio giudizio è stato subito negativo e lo è ancora di più oggi. Con quel cambiamento la nostra destra ha rinunciato ad essere l’alternativa al Liberal Capitalismo. Una volta c’era il Marxismo e il Capitalismo. Il MSI si batteva per “la terza via” che faceva spesso riferimento alla dottrina sociale cattolica. Caduto il Comunismo, noi avremmo dovuto essere la seconda via alternativa come prospettiva strategica di opposizione al Liberal Capitalismo… invece abbiamo lasciato che la sinistra si riciclasse, come sta facendo, su questi temi. A Fiuggi si è rinunciato alla battaglia sociale.

- Quale sarà la posizione del suo partito alle prossime elezioni europee e successivamente alle politiche italiane?

– Io spero che attraverso le elezioni Europee che si svolgeranno con il sistema proporzionale, Fiamma Tricolore recuperi i consensi che ha perso. Per quanto riguarda, invece, le. prossime politiche italiane, permanendo l’attuale sistema maggioritario,. all’ultimo congresso nazionale si è pensato ad accordi tattici con il Centro Destra. A tal proposito voglio ricordare che il governo attuale, grazie ai nostri voti, ha vinto in Calabria e in Abruzzo e che per questo D’Alema si dimise dalla sua Regione.

- Lei è calabrese. Cosa pensa della sua regione?

– Penso che è una terra tormentata, difficile. Una regione a luci ed ombre. Tante, troppe potenzialità inespresse. E’ una terra da riscoprire…per la sua storia e la sua cultura. Purtroppo si è fatto sempre poco per il Sud. Troppo poco. Il Sud in generale non è solo turismo ma c’è anche arte, storia e cultura. Apprezzo il vostro giornale perché parla della Calabria in Italia e nel mondo. Ottimo lavoro. Bravi!

- Grazie presidente.

– Grazie a voi.




Rauti, il regime e la "terza via"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Tra le numerose segnalazioni e recensioni comparve a suo tempo dopo la conferenza stampa di Rauti a Napoli per la presentazione del 1° volume della “Storia del Fascismo”, riteniamo di dover sottolineare quella comparsa su “Il Tempo” di Roma a firma di Cinzia Tralicci. Il titolo dell’articolo è: “Rauti ripercorre il regime alla ricerca di una terza via”.

Ed ecco il testo:

“Una grande miniera a cielo aperto ancora attuale sotto il profilo culturale. La terza via tra il marxismo e il liberal-capitalismo. Nel primo dei sei volumi sulla storia del fascismo scritto con Rutilio Sermonti, Pino Rauti sintetizza il pensiero di Mussolini, Gentile e degli altri protagonisti dell’Italia del Ventennio, affermando che «tutto sommato il fascismo mantiene una sua specificità rivoluzionaria perché riuscì a creare un suo modello di, Stato e un modello di economia». Nella nuova prefazione l’ideologo della destra valorizza alcuni aspetti del fascismo quali «la forte accelerazione verso una modernizzazione della nazione». «L’Italia era il “terzo mondo” dell’Europa – prosegue l’ autore e si compì in quegli anni uno sforzo poderoso di modernizzazione del Paese che richiedeva ed esigeva una coazione di natura quasi disciplinare e pedagogica. Questo era il fascismo». Ci sono poi quelle che lo scrittore definisce «una singolare massa di premonizioni che si sono verificate». «Ad esempio aggiunge Rauti – il controllo delle migrazioni interne e della crescita esponenziale delle città, la difesa del mondo rurale, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, la difesa delle specificità». Il fondatore del movimento Fiamma Tricolore, ha pronta la struttura di un altro per raccontare la guerra combattuta dall’Italia tra il 1935-1945: «Fu un solo conflitto iniziato e finito con gli stessi protagonisti – sostiene Rauti -; Nel 1935 l’Italia e la Germania ebbero contro tutti a cominciare da Francia e Inghilterra. Con i «Dieci anni più lunghi» Pino Rauti

cerca di precisare le ragioni che indussero Mussolini ad aderire alla volontà belligerante di Hitler. «Bisogna essere ignoranti per non sapere che Mussolini aveva documentato a Hitler l’impreparazione bellica dell’Italia’ – afferma Rauti – il nostro Paese aveva in Etiopia le sue disponibilità logistiche quel poco che era rimasto in Europa era in Spagna. L’Italia, tentò di spiegare Mussolini, sarebbe stata pronta solo nel ‘43, dopo l’Esposizione del ‘42. Ma Hitler gli rispose – “Caro Duce tu hai i tuoi tempi, io ho i miei” – e gli mostrò i piani di riarmo di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Mussolini sapeva che la guerra era un azzardo ma non poté evitarla». Dal passato al futuro, privo secondo Rauti, di particolari entusiasmi. D’Alema è l’«unico cervello politico della sinistra» mentre il centro-destra gli fa, esclamare: «C’è poco da stare allegri. Moriremo democristiani!» ”.

“Storia del Fascismo – Le interpretazioni e le origini” – 578 pgg – Euro 30 – Edizioni “Controcorrente” – Via Carlo de Cesare, 11 – 80132 – Napoli – Tel. 081.421349 – 081.5520024 – Fax 081.4202514.




Intervista sul Fascismo risponde Pino Rauti


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Sul Fascismo – come espressione “storica” e sulle sue valenze attuali, c’è , com’è noto benissimo, crediamo, ai visitatori di questo sito, una “letteratura” davvero straripante. Utile, dunque, aver ben chiari i punti di riferimento adeguati! Ed è a tale scopo che pubblichiamo una “intervista sul Fascismo” con Pino Rauti, raccolta da Gianna Venturini qualche tempo fa, e pubblicata da “Oggi 7”. L’intervista è intitolata “il forzista e il fascista”.

Eccone qui il testo integrale:

“Ennesima raffica di polemiche in Italia per le dichiarazioni su Mussolini rilasciate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi durante un’intervista con una rivista inglese, la stessa che aveva già scatenato un putiferio per le dichiarazioni sui “giudici matti”. Secondo “The Spectator”, Berlusconi, nel rifiutare un paragone tra la dittatura fascista e quella di Saddam Hussein in Iraq, ha dichiarato che “Mussolini non ammazzava nessuno… lui mandava la gente in vacanza al confine”.

“Oggi7” ha intervistato Pino Rauti, leader storico dei nostalgici fascisti italiani, che non ha mai accettato le “defascistazione” del MSI in AN (svolta di Fiuggi, gennaio 95). Rauti è il leader del partito scissionista Fiamma Tricolore. A settantasette anni Pino Rauti appare come un gentiluomo dai capelli candidi, folti e con un accenno di onda argentea sulla fronte. Lo incontro nella redazione del suo settimanale “Linea”, dove pubblica anche la rivista “L’Officina”. E’ in un palazzo alle spalle dell’Ambasciata Americana e di fronte al sindacato UIL.

Come giudica l’uscita Berlusconi su Mussolini, un tentativo di andare verso una sua “ducizzazione” oppure quello di sfilare la terra sotto i piedi a Fini alle prossime elezioni?

“Anche se va detto che la perentorietà berlusconiana va a scapito dell’esattezza storica, indubbiamente la seconda ipotesi, si va alle Europee e senza una lista comune ognuno pensa a se stesso: Forza Italia cerca di demonizzare l’avversario comunista, ma anche a raccogliere voti tra l’elettorato dei suoi stessi alleati. I sondaggi parlano chiaro e Berlusconi, che può farlo tranquillamente perché non ha il passato di Fini che certe cose non può permettersi di dirle, mette le mani avanti con il suo stile, sapendo che rispondendo a quella domanda interpretava il pensiero del settanta per cento degli italiani”.

“Dal punto di vista storico, tutto esatto non ci sono stati delitti di regime? Mussolini stesso assunse in parlamento la responsabilità morale del delitto Matteotti. E poi Amendola, Gobbetti, Gramsci e i fratelli Rosselli più tanti poveri cristi meno noti morti di botte squadriste, le condanne a morte del Tribunale speciale, la persecuzione ebraica niente da dichiarare?

“Mussolini si assunse la responsabilità morale del delitto Matteotti nel contesto politico del momento, con coraggio, ma io sono stato in cella un anno con Durini (uno dei condannati per l’assassinio, ndr) ed egli mi ha sempre detto che non c’era intenzione di uccidere Giacomo Matteotti, ma rapirlo e malmenarlo per spaventarlo. Semplicemente gli morì tra le mani perché era malato. Durini ha scritto un libro sull’argomento: “I diciassette colpi”. E poi nessuno si degna di raccontare che poco tempo prima il deputato fascista Bon Signori, medaglia d’oro e cieco di guerra, era stato accoltellato e ucciso sul tram mentre si recava alla Camera. I fratelli Rosselli vennero eliminati per un regolamento di conti in Francia dove erano stati uccisi sei fascisti. E in quanto al confino, se bene fossero altri tempi, tutte le isole di confino sono di gran moda turistica, non erano certo la Siberia, perfino il paese dove sono nato Cardinale in Calabria, settecento metri di altezza aria fresca e cibo genuino dovette accogliere qualche antifascista non era certo un inferno, né lo furono Ustica, Ventotene, Lipari etc”.

Insomma, lei è d’accordo con la nipote del Duce, Alessandra Mussolini, che ha difeso Berlusconi ?”

“Completamente, e ribadisco che il paragone tra Mussolini e Saddam fatto dall’intervistatore era assolutamente fuor di luogo. Ricevo in questi giorni telefonate di persone che mi invitano a dare a Berlusconi la tessera onoraria del Movimento Sociale”.

Come ci si sente fascisti nel 2000?

“Io mi sento di grande attualità, perché le tesi di fondo dell’ideologia non sono legate agli uomini, alle strutture del tempo fascista. Io penso che uomini e strutture si sono espressi al meglio nelle condizioni date da quell’epoca, ma non necessariamente voglio restaurarli, come non vorrei riportare gli Asburgo sul trono di Vienna, anche se sono ammiratore della forma di civiltà mitteleuropea e sono amico di Otto d’Asburgo. Si crede nella forma di civiltà e nei valori, che si reincarnano nelle varie epoche a diverse condizioni e arricchite delle esperienze personali”.

Ecco, andando sul personale, poiché siamo a sessant’anni dall’armistizio dell’8 settembre, dove era e che faceva quel giorno lontano il giovane Pino Rauti?

“Giovane davvero, avevo sedici anni e dieci mesi. Mi trovavo a Roma, con degli amici e non sapevamo che fare. Avevamo cercato di metterci in contatto con l’ambasciata tedesca, sapevamo che fuori Roma c’era ancora la famosa divisione corrazzata “M” e volevamo raggiungerla, ma intanto cominciarono i primi scontri – non contro tedeschi e nazifascisti, come ho sentito dire ieri in una ricostruzione – ma tra tedeschi e truppe italiane. I fascisti ancora non si erano organizzati, molti giovani erano allo sbando come noi, ed anzi ci ritirammo con l’angoscioso quesito: se andiamo con i tedeschi, dovremo sparare su soldati italiani? Ci tirammo indietro. Ma intanto tutti cercavano di armarsi. A piazza Argentina, per esempio, ci fu una distribuzione folle di armi di tutti i tipi, da parte di gruppi popolari, forse di sinistra che avevano saccheggiato le caserme. Li vicino vedemmo la sede dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, accanto al Ministero di Giustizia a piazza Cairoli, volumi buttati per aria che poi hanno rifornito biblioteche improvvisate e mercatini. Mentre vagavamo per Roma, vedemmo passare a Corso Vittorio, vicino al Liceo Apollinaire, un paio di motociclette tedesche, noi li salutammo e quelli ci puntarono le armi addosso, allora capimmo che c’era l’occupazione tedesca. Però noi cercavamo gli italiani, perché volevamo combattere contro gli alleati non contro i nostri, e li trovammo a Piazza Colonna; nel palazzo ora sede del quotidiano Il Tempo, dove sostavano davanti due autoblindo con gagliardetto nero, sede provvisoria del Partito Fascista. Chiedemmo loro se c’era qualche reparto in formazione e ci mandarono a Monte Mario dove ci arruolammo, anche se data l’età ci dissero di pensarci bene. Lì c’era proprio il Battaglione “M che era tornato dalla Russia, con il marchese Zuccari al comando. Ci mandarono prima a Orvieto e poi a Como.”

In quale atmosfera vi muovevate in quei giorni convulsi e pericolosi?

“Ecco, vede, quello che di cui non ho sentito parlare nelle rievocazioni, era del clima, del pathos che vivevamo in quei giorni. Uno stato d’animo di esaltazione. Anche la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso ci parve un romanzo. Eravamo cresciuti in un clima di guerra, non c’è paragone possibile con i giovani dei nostri giorni”.

Quanto alla “fuga” di Mussolini, pare che di eroico non ci fosse molto, un passaggio di consegne spettacolare ma indolore, pochi dubbi sul fatto che venne lasciato portare via….

“Oggi appare in una luce certamente diversa. Ci sono stati convegni di storici per capire quale fu il motivo della riconsegna del Duce, appena mascherata da ‘fuga’. Una ipotesi plausibile per la contiguità geografica dello ‘scambio’ è stata avanzata circa in appeasement fatto per favorire . l’altra ‘fuga’ eccellente di quei giorni:quella del Re e dei badogliani che attraversarono lo stesso Abruzzo per recarsi ad Ortona, da cui si imbarcarono per Brindisi, attraversando la regione come se fossero invisibili alle postazioni tedesche armate fino ai denti. E intanto aumentava il nostro disgusto per la vecchia classe monarchica e badogliana, mentre la liberazione di Mussolini assurgeva a leggenda. Eccolo, lo spirito di quei giorni per noi ragazzi colmi del senso dell’onore, della Patria. .A diciassette anni queste cose incantano”.

Ma non avevate sentito montare l’ostilità contro Mussolini che ci aveva trascinati in una guerra terribile ed insensata?

“I ragazzi credono nell’ambiente in cui vivono. Io ero cresciuto in una famiglia piccolo borghese, abbastanza povera, e apprezzavamo l’impegno sociale del fascismo. Che ce ne fu tanto, mi ha sempre colpito ed interessato, rimasto legato alla lontanissima radice di questo aspetto del fascismo”.

Se dovesse descrivere il fascismo in due parole?

“Se dovessi riassumere l’essenza del fascismo direi: Terza via. AI di là del liberismo e del comunismo, mostruoso ed asiatico. Se lo sforzo sociale del fascismo sia riuscito bene o no, dipende molto dal fatto che dovettero fare i conti con la realtà, e specialmente con la presenza pesante della chiesa cattolica, e – dopo il 1929 – con la grande crisi mondiale che impoveriva Inghilterra ed America, e causava in Francia scontri sociali. Secondo me il fascismo ci riuscì bene tra il 29 e il 38″.

Che altro ricorda di quel periodo dopo l’armistizio?

“Un fatto che ci colpì enormemente: notammo che in Italia le caserme erano piene di armi, di tutti i tipi; centinaia di cannoni, centinaia di carri armati, centinaia di migliaia di mitra. Domanda, perché queste armi non erano al fronte, dove mancavano?”

Una fronda dei generali?

“Ci fu tradimento, ci fu sabotaggio? Certamente sì, anche se non sufficiente, come scritto nel libro “Navi e Poltrone”, da determinare la perdita della guerra, ma ombre pesanti ci sono sulla conduzione del conflitto”.

Ma Mussolini che faceva?

“Mussolini? Non sappiamo quanto ormai avesse le mani libere. E poi – parrà strano- in quegli anni, specialmente quando si accorse che la guerra era perduta, coltivò segretamente un suo sogno di trasformazione sociale del paese: da fascista a ‘socialista’. Antonio Tabacchi, che fu di Lotta Continua a Latina, e che ora scrive sulla rivista ‘Limes’ in una rubrica chiamata “Socialità del fascismo”, tre mesi fa ha pubblicato una decina di pagine su un fenomeno poco noto: un esperimento voluto da Mussolini in Sicilia: il tentativo di una colossale riforma fondiaria che prevedeva il rimboschimento dell’isola, per riportarla ai suoi splendori naturali, e la fondazione di una quarantina di insediamenti ‘sociali’. Questo suo ostinato progetto si scontrò con gli interessi locali, dei latifondisti, delle famiglie che comandavano e che vedevano di malocchio questo esperimento. Mussolini, mentre tutti pensavano alla guerra, seguitò in queste costruzioni ‘sociali’ alienandosi tutte le simpatie, anche tra i fascisti stessi che non approvavano questo suo lento riapprossimarsi alle origini socialiste. Tra le altre, anche questo suo progetto và annoverato tra le ragioni del voto e della decisione del Gran Consiglio di sfiduciarlo il 25 luglio”.

Mussolini che ritorna al socialismo?

“Socialista, comunitario. Antonio Tabacchi, giornalista e uomo di sinistra, è convinto che il voto del 25 luglio fu provocato anche dal fatto che Mussolini, vedendo l’andamento disastroso della guerra volesse lasciare dietro di sé un grande progetto rivoluzionario: la socializzazione. Pertanto chiese al Ministro Bigini ed altri di stendere un progetto ministeriale in tale senso. Figuriamoci, si sono tutti spaventati, a cominciare dal Re. Hanno cominciato a chiedersi se Mussolini – gira gira – non volesse ritornare ai suoi ideali giovanili”.

Quindi per due anni dal ’43 al ’45 avete combattuto insieme ai tedeschi, e poi cosa le successe?

“Venni fatto prigioniero. Finii in un campo di prigionia ad Algieri, allora colonia francese. Cercammo di raggiungere il Marocco spagnolo per arruolarci nel ‘Tercio’, ma i francesi ci ripresero e consegnarono agli inglesi che dopo un mese; a maggio del 1946 ci rimandarono in Italia, dove mi misi subito a ricucire le fila del partito, e da quel momento non ho fatto altro”.

Ma torniamo alla Terza via.

“E’ quella che era in nuce nel fascismo come l’aveva concepito Mussolini, e che sarebbe stata la sua naturale evoluzione, come dissi in un convegno anni fa a Taormina. Dissi che le forme di cultura politiche più importanti: socialismo, comunismo, liberismo, e lo stesso fascismo erano messi con le spalle al muro da problemi che l’umanità non aveva prima conosciuto: per esempio l’ecologia, il rapporto con l’ambiente, i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione. Quindi quei progetti politici valgono in quanto capaci di rispondere ai problemi nuovi e diventare di nuovo punti di riferimento validi. E mi pareva che la profonda vena populistica del fascismo corrispondesse ad un modo di affrontare questi problemi”.

Lei si sente portatore delle istanze nuove, ma è in minoranza, dopo Fiuggi (il congresso svolta di An del ’95, ndr)

“Nella scissione del partito ha giocato molto il miraggio della presa del potere; in linea teorica erano ancora convinti della validità del progetto fascista, ma hanno ritenuto che senza una cancellazione formale del vecchio partito non avrebbero potuto accedere a posizioni di governo. Dovevano pagare quel prezzo. Io non mi sono sentito di fare quel passo, la storia dirà. Il successo dell’operazione Alleanza Nazionale è da dimostrare”.

La destra Sociale presente in Alleanza Nazionale, quale funzione ha?

“Ritengo che tenti di salvare il salvabile, oppure, se vogliamo essere cinici, che sia la foglia di fico che copre le pudenda dell’operazione finiana. Incontro questi deputati alla camera, in una svolta liberal – conservatrice che riguarda tutto il mondo, in cui è forse possibile salvarsi riciclandosi come Centro Studi. Altro non so, ma accontentiamoci in attesa di tempi migliori”.

E l’abbraccio mortale con Berlusconi, non danneggia enormemente un futuro di Fini e gli altri?

“Certamente, ma pensano di poterlo fronteggiare se fossero tempi brevi il tentativo potrebbe riuscire, ma con tempi più lunghi è destinato a fallire per lealtà debbo dire che neanche il mio tentativo ha avuto successo. Avevamo ambizioni politiche, partecipato alle elezioni, ma in tempi di maggioritario non è facile vita per i piccoli partiti. Resta una affermazione di principio, bella, ma per ora non incide sulla politica corrente”.

Se questa politica improvvisata dovesse finire?

“Dipende da quanto resisteranno alla corrente maggioritaria. Secondo me, se esplode in Italia una grave crisi sociale, se esplode il dramma dei pensionati e la piccola borghesia monta sulle barricate, questo può ridare le ali alla sinistra, ma anche la destra sociale può fare la sua parte”.

Convergenze parallele?

“Entro il 2006 molte cose cambieranno, anche i partiti di centro confluiranno per riformare il grande partito, non vorrei che questo fosse un disegno di Berlusconi. Potrebbe star forse covando qualche situazione, ma ne sarà alla fine usato ed escluso”.

Ritorniamo a passi felpati a sessant’anni fa, tanto chiasso per nulla?

“Qualche avvisaglia c’è, potrebbero essere i ricorsi della Storia”.