Sapori di antichi frutti dai giardini più belli


Dovrebbe uscire fra non molto la nuova edizione de “Gli agrumi ornamentali”, che nel 2000 rappresento’ una sortra di rivoluzione negli studi in materia, perche’ traeva origine da una “fonte” sino ad allora, quasi del tutto ignorata: la tradizione dei contadini-giardinieri; la loro cultura, i loro “saperi”.

E se ne imparano, di cose importanti – o utili e/o comunque piacevoli – a leggere con attenzione. Che il primo agrume ad essere coltivato in Europa, è il cedro, ad esempio; seguito dal melangolo o arancio amaro e dal limone; mentre l’arancio dolce lo dobbiamo ai Portoghesi, che lo importarono nel 1400 dall’Indonesia; ed era per questo che sino al 18°secolo, quesi frutti venivano chiamati “arance del Portogallo”. Pero’ bisogna arrivare ai “giardini mediceii” del Rinascimento per trovare i frutti soprattutto in Toscana, – come elemento decorativo fondamentale: le famose “spalliere”. Con alle spalle, culturalmente, il mito del favoloso Orto delle Esperidi con relativa sottrazione dei “pomi d’oro”.

A diventare contadini-giardinieri; gente che per tradizione di famiglia durata quasi sempre secoli, sa alla perfezione i “misteri” e i “segreti” di quella coltivazione e giuoca alla perfezione – pur non conoscendo niente, scolasticamente, in merito- fra azoto, fosforo e potassio; gente che , ancora per generazioni, continuerà ad usare quell’ottimo concime organico che si chiamava “cornumaglia” che veniva ottenuto, – leggiamo nel volume – dalla triturazione di corna ed unghie provenienti dalla macellazione di animali”; oltre al sangue di bue “commercializzato” in comode confezioni sia allo stato liquido che in polvere…”

= “Gli agrumi ornamentali” – Calderini Edagricole -form. grande- 210 pgg. a cura Giorgio e Sergio Tintori; e di Giuseppe Franchi e Paolo Galeotti – euro 21.63




Dagli USA ancora un altro "catastrofista"


Bisognerà prenotarselo subito in libreria ad ottobre, quando uscirà con le edizioni Einaudi, il libro di Jared Diamond, uno studioso che ha un lungo elenco di “titoli”, non solo accademici. Anche come antropologo è famoso; ed è in questa veste che ha scritto “Collapse”. Prendendo le mosse da un caso specifico, quello del Montana, che era un Paese ricco ma adesso è in pieno collasso per lo sfrenato sfruttamento del suo territorio e le devastazioni causate soprattutto dalla deforestazione. Anche la popolazione è in calo.

Leggiamo su “L’Espresso” il colloquio di Enrico Pedimonte con Diamond che chiede di potersi esprimere in Italiano. Il Montana, dunque; che se fosse uno stato autonomo, sarebbe nelle condizioni dell’Etiopia o dell’Afganistan, si salva solo per gli aiuti degli stati che compongono gli USA. Più vastamente, l’antropologo statunitense sostiene che la società contemporanea si trova ad affrontare “sfide” simili a quelle che a suo tempo, provocarono la crisi e la scomparsa (il collasso, appunto), di tante civiltà. In “Armi, acciaio e malattie” (questo il titolo del libro, uscito in prima edizione nel 1996), Diamond ricorda i casi dei Vichinghi e dei Maya, scrive degli abitanti dell’Isola di Pasqua e dei Giapponesi; ed elenca le sfide alle quali non ci sappiamo confrontare: crollo dei commerci, attacchi di altre popolazioni, degrado ambientale e cambiamento del clima. Ma soprattutto, la “incapacità politico-culturale di affrontare i problemi urgenti”; e tra questi, in prima linea, “la incapacità di fare i conti con i problemi dell’ambiente”, che potrebbe portare al suicidio le civiltà nelle quali viviamo. Insomma -anche se nel libro non mancano spunti che invitano all’ottimismo- abbiamo un altro catastrofista, nell’ampia gamma di analisi che ebbe origine nel 1972 con il “club di Roma”.

Pino Rauti



Scopriamo i borghi minori. Sannio: natura "unica" in tutta Italia


Seguiamo sempre con particolare interesse tutto quello che viene realizzato nei cosiddetti “borghi minori”; e diciamo cosiddetti perchè poi, spesso è proprio in quei piccoli centri che vengono prese iniziative piu’ intelliggenti e significative.

Troviamo un bel riscontro nelle molte “giornate” che, tra prodotti tipici ed escursioni naturalistiche, ha organizzato di recente Cusano Mutri (Benevento). L’escursione naturalistica piu’ affascinante ed emozionante e quella che si tiene nelle Gole di Caccaviola, in un sentiero che si snoda tra alte pareti rocciose, una vegetazione selvaggia e con specchi d’acqua limpida che incantano giovani ed adulti: il percorso è stato inaugurato nella scorsa estate e rappresenta, pertanto, una vera novità, unica nel suo genere in Italia, che aspetta solo la scoperta da parte del grande pubblico di escursionisti ed amanti della Natura. Altra grande novità, saranno le escursioni al sentiero del Salto dell’Orso, un itinerario affascinante, da raggiungere in fuoristrada, dove si potranno ammirare vedute panoramiche spettacolari e bellezze naturali uniche, tra cui una cascata di trenta metri da ammirare da una terrazza costruita a mezza altezza.

Ma leggiamo ancora nel programma (nel quale spiccano anche le mostre mercato di fossili e conchiglie, di ceramiche antiche e dell’antiquariato):

la buona cucina tradizionale, gli spettacoli, gli intrattenimenti, le visite al Museo Civico del Territorio di Cusano ed al centro storico, le numerose mostre allestite nell’ex- convento, le e escursionii naturalistiche tra bellezze stupefacenti delle Gole di Caccaviola e dell’incantevole sentiero del Salto dell’Orso, le passeggiate a cavallo lungo il Titerno, il parco-giochi gonfiabile predisposto appositamente per divertire i piu’ piccini e rilassare i genitori, la Mostra-mercato dell’artigianato e dei prodotti tipici, sono solo alcuni dei motivi per rendere piacevoli ed indimenticabili le giornate che i visitatori, accorsi sempre numerosi alle manifestazioni organizzate dal Comune di Cusano Mutri, vorranno trascorrere tra le stradine lastricate del nostro boprgo medievale dove la formula delle famose sagre cusanesi crea un atmosfera incantevole, capace di soddisfare le esigenze di tutti i visitatori, prescindendo dall’età, dai gusti e dalle aspettative.

E poi dicono… piccolo borgo!

Pino Rauti



Il "E' l'uomo che uccide le tante "biodiversità"


Quando si parla di “estinzioni di specie” si pensa subito – e soltanto – alla scomparsa dei dinosauri, avvenuta all’incirca 65 milioni di anni fa. Ma il fenomeno è proseguito, con sinistra “insistenza” ed è, da secoli, dovuto tutto agli uomini, come rivela e documenta un rapporto delle Nazioni Unite. La “lista rossa” compilata dall’Onu conta almeno 844 specie animali e piante che sono “sparite” negli ultimi 500 anni, dal dodo, l’uccello delle isole Mauritius, al lupo australe delle Falkland.

Secondo l’analisi redatta dal Segretariato della Convenzione Onu sulla biodiversità, alcuni habitat, dalle barriere coralline alle foresete pluviali tropicali, sono sempre piu’ in pericolo. I fattori che provocano i maggiori danni all’ambiente, nel quale vivono animali e piante, sono ricollegabili all’aumento della popolazione umana: inquinamento, espansione delle città, deforestazione, riscaldamento della Terra e introduzione di “specie aliene” (come ad esempio le circa 300 specie invasive, molluschi, crostacei e pesci, provenienti dal Mar Rosso introdotte nel Mar Mediterraneo, dopo l’apertura del Canale di Suez).

Si calcola che attualmente il tasso di estinzione sia mille volte piu’ veloce di quello storico e cio’ sta mettendo a rischio l’obiettivo fissato nel 2002 in un summit dell’Onu a Johannesburg “di raggiungere, entro il 2010, un significativo calo dell’attuale tasso di distruzione della biodiversità”. Ogni anno vengono distrutti circa 7,3 milioni di ettari di foresta, un area grande come l’Irlanda. La cifra resta preoccupante anche se è un pò inferiore agli 8,9 milioni del decennio 1990-2000.




A Ferrara il meglio delle uniformi storiche


Ferrara ha infiniti motivi di richiamo, soprattutto in termini di turismo culturale. Ma non è certo tra gli “ultimi”, l’esistenza di una delle migliori “sartorie storiche”, secondo molti, la migliore in Italia e tra le più “belle” delle molte che ci sono in Europa.

Al numero 33/a di via Vignatagliata, nel centro storico, vi attendono Renata Baravelli Orlandini e Cristina Verri, che nel 1933 avviarono “Equipe e Maestri Artigiani” e che con grande abilità hanno saputo trasformare la passione per il loro lavoro in motivo di orgoglio professionale.

Vi sono Uniformi “storiche” e Uniformi “attuali”; le prime sono in particolare le uniformi militari dell’epoca napoleonica; quelle del Risorgimento e deòòa “guerra civile” americana; e poi della Grande Guerra e della seconda guerra mondiale e di tutte le altre epoche, con relativi “accessori” ricostruiti alla perfezione grazie all’enorme documentazione storiografica-culturale che è il retroterra della sartoria, “la scelta dei tessuti” e la lavorazione attenta ed accurata garantiscono i risultati di prestiglio; “per questo – leggiamo sul loro sito internet – i nostri abiti hanno contribuito alla migliore riuscita di manifestazioni, rievocazioni storiche, film e spettacoli in costume”

Sartoria “Equipe” – Via Vignatagliata, 33/a – Ferrara – Tel e Fax 0532.202993 – Renata Baravelli Orlandini e Cristina Verri

A cura di Pino Rauti




Il "Paese Civile" è diventato mala-Italia


C’e’ una “mala Italia” enorme, che vive nel sommerso e che solo Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato ogni tanto fanno venire alla luce. Di recente a pubblicare cifre che non trovano riscontro in alcun Paese europeo, sono state le “fiamme Gialle”.

Riprendiamo quelle piu’ significative, perche’ quelli che accedono al nostro possano prendere conoscenza con precisione di come stanno e di come vadano le cose in questa ormai degradata comunità nazionale. E ci riferiamo in particolare a quanto ha pubblicato Lavinia Di Gianvito sul “Corriere della Sera”, a proposito, appunto, del rapporto reso noto dalla Guardia di Finanza.

“Più lavoro nero, piu’ evasione fiscale. Dopo i dati in calo del 2004, nel 2005 la Guardia di Finanza ha aumentato i controlli nei settori dell’economia sommersa. E dalle verifiche è emersa una crescita sia della manodopera clandestina (+26%) sia dei contribuenti che, finora, erano riusciti a non sborsare un euro di tasse (+ 19,5 %). Ieri nella caserma di Via Nomentana, il rapporto annuale delle fiamme gialle è stato presentato dal comandante regionale, il generale Daniele Caprino, e dal colonnello Gioacchino Angeloni, capo di Stato maggiore. ” C’e’ stato un grande sforzo di riorganizzazione – ha spiegato Caprino- . E’ stato ridotto il numero dei presidi sul territorio e si e’ cercato di impiegare nelle attività operative quanto piu’ personale possibile. I dati del lazio sono quasi il 15 per cento del totale nazionale, un risultato che ritengo soddisfacente”. Su 11.530 controlli fiscali, la Guardia di finanza ha individuato un miliardo e 922 milioni di imposte sui redditi e 803 milioni di Iva nascosti all’erario. L’imposta sul valore aggiunto, tra l’altro, e’ stata al centro dell’attenzione dei cittadini, nelle segnalazioni al 117: su 4.408 telefonate, 1.129 hanno riguardato proprio l’Iva. Di evasori, ne sono stati scoperti 872, fra cui 814 totali: la maggior parte nei settori del commercio e della riparazione di veicoli (341), al secondo posto le costruzioni (130), al terzo le attivita’ immobiliari, il noleggio e l’informatica (88). Altre 35.892 verifiche hanno colpito il malcostume di non rilasciare scontrini e ricevute, mentre nei cantieri e nelle fabbriche sono stati individuati 1.425 lavoratori in nero e 646 irregolari: nel 2004 erano stati rispettivamente, 1.125 e303- Per 668 contribuenti disonesti sono scattate le denunce per vari reati (dalla dichiarazione fraudolenta alla distruzione di documenti contabili) e quattro sono stati arrestati. Nel 2005 sono cresciuti anche i controlli sulla spesa pubblica: 623 i soggetti indicati alla Corte dei Conti per aver arrecato allo stato un danno di 629 milioni. Tra i sequestri sono esplosi quelli di giocattoli, capi di abbigliamento, cd e dvd con marchi contraffatti: quasi tre milioni di oggetti. ma anche la criminalità organizzata e’ stata colpita: le Fiamme Gialle hanno bloccato denaro e titoli per 15 milioni di euro.”

Il commento è facile: viviamo in una società che ogni anno diventa sempre piu’ corrotta; perchè la dilagante sub-cultura liberalcapitalisticaintenta solo alla ricerca – comunque- del massimo profitto, a questo conduce e questo provoca. Ma c’e’ un’ altra considerazione, anche, da fare. Che cifre così alte di evasione ed omissioni, da parte di migliaia di persone – e altre migliaia sono state scoperte nel 2004; e altre nel 2003; e così via da molti anni a questa parte – non sarebbero possibili senza complicità diffuse e ramificate che fanno ancora aumentare il numero delle persone coinvolte.

Non è retorica; e non è provocatoria, la domanda da avanzare: ma che razza di società stiamo vivendo? E ci chiediamo anche: ma perchè queste cose, altrove, almeno in Europa non accadono o non avvengono in modo così massiccio?

Pino Rauti



Una vergogna italiana che si chiama “SCIP”


Non è proprio una sigla “felice” quella che è venuta fuori per la vendita della case di proprietà dello Stato e di vari Enti pubblici: si chiama infatti “SCIP”. Un nome, diciamo noi, che è un programma. Perché si tratta di un vero e proprio scippo effettuato in nome del libero mercato ai danni di un  patrimonio che era stato costituito con i contributi di lavoratori di tante categorie; patrimonio che aveva scopi preminenti di carattere sociale e che, dunque, a rigor di logica (oltre che di etica) avrebbe dovuto essere destinato a scopi sociali prioritari; per esempio – lo abbiamo già detto in qualche altra occasione – destinando gli appartamenti, concedendoli a basso fitto, a giovani coppie monoreddito, o a giovani che si sarebbero sposati entrando in quelle case.

Per rendersi conto di cosa sta accadendo basta scorrere con attenzione gli elenchi fittissimi che la SCIP sta pubblicando per l’ennesima volta, con la normativa delle aste attraverso le quali avverrà la “dismissione”. A favore di privati (o società) che potranno permettersi l’acquisto.

Ci sono appartamenti in molte città d’Italia; in quelle città dove la crisi degli alloggi sta imperversando, dove i costi degli affitti sono alle stelle; e dove diecine di migliaia di giovani non possono mettere su famiglia, proprio a causa di questa situazione che tutti riconoscono esser diventata drammatica.

Anche stavolta – e per circa 200 case – chi ha i soldi potrà comprare mentre chi non li ha … resta a guardare.

Vediamo in vendita case a Genova, a Messina, a Roma (tantissime), in provincia di Ascoli Piceno, a Taranto e a Treviso, a Venezia e a Vicenza, a Capua e a Napoli, e via dicendo. Case di 2, 3, 5 stanze, dove, per esempio, avrebbero potuto essere accolte le tante famiglie numerose (spesso monoreddito) che anche di recente, riunendosi a Roma ed essendo ricevute anche dal Papa, hanno denunciato come si siano ridotte alla quasi-povertà proprio per il caro-affitti.

E invece niente. Libero mercato e basta. Il resto non esiste. A vergogna di chi mette in piedi questi infami “meccanismi” liberalcapitalistici contro i quali neanche a sinistra si sente un voce… .

Pino Rauti




Ancora polemiche sulla “flessibilità”


Non c’è, forse, tema sociale più discusso della “flessibilità”; che in Francia sta dando luogo ad una specie di nuovo ’68 e che in Italia è entrato a più non posso nel dibattito pre-elettorale.

Per documentazione attuale, ci riferiamo a quanto ha pubblicato di recente Sergio Romano, nella sua sempre vivace e tempestiva rubrica “lettere al Corriere”, rispondendo allo scritto fattogli pervenire dal milanese Paolo Preci. Che si riferisce a quello che Romano ha detto di recente a “radio 3”, definendo la flessibilità “una buona cosa”.

Il lettore ritiene invece che la flessibilità sia troppa, sia eccesiva, “vista la difficoltà che trovano i giovani a sistemarsi con un minimo di certezza sulla durata del rapporto di lavoro”.

Secondo il lettore milanese è un errore sostenere – come fanno tutti, aggiungiamo noi; anche gran parte della sinistra – che “senza la flessibilità” le aziende non assumerebbero. Le aziende in realtà “assumono così perché è più conveniente (meno contributi), possono disfarsi del personale quando vogliono e tengono gli stipendi più bassi. Mi dica, “ prosegue Preci ” a che carriera può ambire un giovane che viene assunto a progetto per un anno e poi ancora un altro anno, così via? Non le sembra che il precedente contratto di formazione lavoro, al massimo biennale, al termine del quale si poteva licenziare, fosse una flessibilità sufficiente?”

Nella risposta Sergio Romano sostiene che occorre cominciare “con qualche precisazione e qualche dato, in quanto i vecchi contratti di formazione lavoro degli anni Ottanta e Novanta sono stati sostituiti dai «contratti d’inserimento » previsti dalla legge Biagi. Fu necessario “ prosegue Romano” cambiare perché la Commissione di Bruxelles temeva che la vecchia formula nascondesse, soprattutto al Nord, un indiretto aiuto alle imprese e fosse quindi contraria alle regole della concorrenza nel mercato unico.
Ma sembra che alcuni contratti della legge Biagi, tutti generalmente denominati con termini inglesi (job sharing, staff leasing, job on call), siano poco richiesti dagli imprenditori e rappresentino meno del 10 per cento della nuova occupazione.
Restano i co.co.co. della Pubblica amministrazione e i co.co.pro del settore privato, i soli che abbiano goduto di un certo successo. Tenga presente, tuttavia, che la crescita dell’occupazione in questi ultimi anni è dovuta soprattutto alla regolarizzazione di molti immigrati (circa 700.000), resa possibile dalla legge Bossi-Fini, e che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro creati in questo periodo continua a essere a tempo pieno e indeterminato.”

Inoltre, continua Sergio Romano, riferendosi alle ricerche dell’”Associazione Nuovi Lavori”, “ i contratti a tempo indeterminato rappresentano il 73,2 per cento del totale mentre gli altri si dividono in due categorie: quelli a tempo determinato stipulati con leggi adottate prima della riforma Biagi sono il 17,6 per cento e quelli stipulati con contratti successivi alla legge sono il 9,2 per cento.

Insomma il fenomeno del precariato del precariato non è recente perché Come ha osservato Fiorella Kostoris Padoa Schioppa nel Sole 24 Ore del 14 marzo, “la flessibilità nel mercato del lavoro italiano è molto aumentata nel 2003 (l’anno della legge Biagi, ndr) rispetto alla fine degli anni Novanta dove già risultava, grazie al Pacchetto Treu del 1997, in forte aumento rispetto a dieci anni prima”.

Ma è o no “una intollerabile spada di Damocle” come viene percepito nella società, molto esteso o meno esteso che sia?

Continua Sergio Romano: “È certamente vero che i contratti a tempo determinato possono produrre in alcuni casi una evidente ingiustizia. In un articolo pubblicato dal Corriere del 14 marzo Pietro Ichino scrive che molti co.co.co, nella pubblica amministrazione, offrono «una prestazione più intensa e qualificata di tanti dipendenti di ruolo inamovibili» e che questi ultimi «possono permettersi di essere inefficienti, mentre proprio i fuori ruolo sono più efficienti: se non lo fossero perderebbero il lavoro »… ma è il solo modo “conclude Romano” per raggiungere lo scopo senza rinunciare alla flessibilità di cui l’industria ha bisogno per stare al passo con le grandi trasformazioni economiche di questi anni, è quello di riformare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che prevede la giusta causa per il licenziamento dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Tutte le leggi sul lavoro precario adottate negli ultimi vent’anni sono il risultato di un anacronistico provvedimento che ha imprigionato il mercato del lavoro in una gabbia di ferro.”.

Essendo il tema più che aperto, come notavamo all’inizio, avremo modo di tornare sull’argomento ma intanto sottolineiamo che, nella pur lunga ed articolata risposta di Romano, manca del tutto una “analisi sociale” delle conseguenze della flessibilità e di tutte le forme del lavoro precario, tra le quali conseguenze indichiamo innanzitutto il senso di incertezza e quasi “vuoto esistenziale” cui è condannato un giovane che lavori nelle suddette condizioni.

E poi: perché non si pensa alle “ricadute” ancora più gravi che riguardano la possibilità di metter su famiglia e fare, da giovani, bambini?

Chi le paga, che le sconta?

Pino Rauti




Sui prodotti agricoli comanda la malavita


A chi volesse trovare conferma di una situazione che da tempo andiamo denunciando, e cioè l’aumento e, ancor peggio, il “radicamento in profondità” della criminalità consigliamo la lettura di una recente denuncia espressa dalla confederazione degli  Agricoltori.

Siamo arrivati al punto – ripreso nei titoli da alcuni giornali – che c’è un vero e proprio “assedio dei clan” intorno al commercio della frutta e della verdura, e che di conseguenza “così la mafia gonfia i prezzi”.

Un dossier in merito è stato presentato qualche giorno fa all’assemblea della Confederazione, il cui presidente – l’attivissimo e battagliero Giuseppe Politi – non ha avuto remore nel sottolineare la gravità della situazione; e a fare anche qualche cifra. Davvero impressionante. Perché, secondo Politi, ogni anno le varie forma di malavita organizzata che “avviluppano” l’agricoltura, “guadagnano sui mercati ortofrutticoli 10 miliardi euro “sicchè il cittadino finisce per pagare a carissimo prezzo frutta e verdura, anche dieci volte di più di quanto si riesca a dare al contadino” .

A riflettere bene su questa denuncia, è uno scenario del tutto nuovo che ne emerge. Eravamo infatti abituati a ritenere che la cronica e perversa disparità di prezzi dei prodotti agricoli fra origine (contadini) e sbocco finale (consumatori), fosse determinata dalle interferenze della rete dei commercianti. Interferenze “interessate”. E anzi spesso l’Italia è stata presentata come la nazione Europea nella quale i “passaggi” commerciali erano i più numerosi, e i più “vampireschi”.

Adesso invece sappiamo che a determinare in gran parte la disparità dei prezzi  sono le interferenze delle reti criminali, come ben documenta il dossier della Confederazione, un dossier “raccolto a fatica fra silenzi e paura” in un’area di mercato che ogni anno presenta un fatturato di otto/nove miliardi di euro.

Sono state fatte anche le cifre di taluni prodotti di stagione: per un carciofo – che viene venduto ad 1 euro/1 euro e 10 al consumatore il contadino incassa sui 20 centesimi; un chilo di melanzane arriva sui banchi dei mercati a 2 euro, ma il contadino viene pagato 40 centesimi, i peperoni da 35 centesimi ad 1 euro e più; e la fattura “passa” da 30 centesimi al chilo ad 1 euro e 70 ed anche più.

La Confederazione – secondo quanto riferisce Caterina Pisolini in un documentatissimo articolo sul “Corriere delle Sera” – spiega con questa differenza di prezzi che penalizza duramente i consumatori, la diminuzione dei consumi di frutta e verdura; i dati dell’Osservatori o competente parlano “per il 2005 di un calo del 1,3% pari a quasi 3 miliardi di euro per la frutta frasca e del 7,6% in meno per gli ortaggi.

Leggiamo ancora: “storie di pizzo e minacce si rincorrono lungo la penisola tra il lavoro nero di chi scarica le cassette negli ortomercati e l’organizzazione di camorristi che a Fondi si era impossessata della gestione dei trasporti delle merci agricole tanto da fissare lei stessa i prezzi di frutta e verdura dopo aver sottratto ai legittimi padroni gli automezzi. Furti a ripetizione di trattori, e sono centinaia i casi segnalati in Puglia, a coltivatori costretti per questo a vendere la merce sottocosto o a pagare un riscatto. Altrimenti il trattore viene venduto dalla malavita organizzata, da affiliati alla sacra corona unita a cosche di albanesi, in cambio di partite di droga. Furti di attrezzatura anche in Campania, dove la scomparsa di trattori è cosa frequente per piegare i coltivatori a prezzi bassi. A Vittoria, invece, segnala l’indagine, più volte prodotti arrivati dall’Africa sono stati venduti, cambiando l’etichettatura e usando altre cassette, come prodotto italiano a prezzi “italiani” da organizzazioni mafiose che ci hanno così ovviamente guadagnato, mentre i contadini si sono ritrovati la loro merce invenduta o piazzata a prezzi irrisori.

Ci chiediamo e chiediamo: ma le sanno queste cose a Palazzo Chigi e dintorni?

Pino Rauti




La vera "utilità " e' nello Stato Sociale


Escono pochi libri a difesa delle cose così come stanno; pochi libri che tentino di difendere lo status quo economico e sociale qual è ormai evidente in base alle regole e norme del liberalcapitalismo. Mentre ne escono molti, di libri, che sono tutta una contestazione; e che vengono non soltanto dall’aria di sinistra Ne escono anche laddove meno te li aspetteresti; da economisti di scuola ” liberale “. Com’è questo volume di Richard Layard (ed.ni Rizzoli pagg. 357 Euro 18,50) che è intitolato ” Felicità ” e è tutto teso a dimostrare, come rigore scientifico e ricchezza di dati statistici, è quella parola può coincidere solo con lo “Stato Sociale”.E il libro è tanto più sorprendente in quanto è opera di unti docente qualificato della “london School of Economies”, ed è stato a lungo consulente di Tony Blair e adesso è entrato nella Camera dei Lord.E lascia un poco interdetti il fatto che l’autore si richiami alla filosofia di Jeremy Bentham, pensatore ha settecentesco e che fu il ” padre dell’utilitarismo “.Ma, secondo Layard, anche quella ” struttura ” filosofica, per avere uno sbocco logico, e non rimanere confinata nell’astrattismo utopistico, deve arrivare ad una sola conclusione: la ” felicità ” sta nel fatto che ogni singolo individuo deve sentirsi soddisfatto e sereno; soddisfatto dei suoi bisogni essenziali e concreti, nelle sue esigenze quotidiane e sereno quando si rivolge a guardare le sue prospettive future, di quando sarà anziano e pensionato. Tutto ciò è stato ” battuto in breccia “, documenta Layard, soprattutto dell’individualismo economicistico di stampo statunitense mentre l’Europa, sia i sindacati che la ” dottrina sociale ” della chiesa hanno tentato di salvaguardare un ” modello ” appunto, di natura più sociale e comunitaria. Quella che si voleva evitare -e ci si è purtroppo riusciti solo in parte- era la ” condanna ” dei lavoratori ad un ruolo contrassegnato -anche in termini esistenziali-dal precariato, facendo venir meno ‘” lo scopo della politica e della scienza economica” che è quello di ” trasformare il mondo in un posto più amichevole, non in un campo di battaglia tra imprese e singoli individui “.Punto debole del libro, a nostro avviso è l’apprezzamento positivo della “globalizzazione”; ma il valore del libro, il suo vero contenuto culturale, sta in quello che abbiamo detto sopra.

Pino Rauti