Quei piccoli… pendii alpini


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Parliamo dei “masi”; in Alto Adige. Sparsi fra le Valli, all’ombra delle montagne. Ne scrive benissimo Elena Luraghi su “In Viaggio”; precisando subito che essi si trovano soprattutto in Alto Adige “ma anche la provincia trentina vanta degli esempi notevoli”. Per andare sul sicuro, conviene puntare sui dintorni di Merano, Siusi-Fié-Castelrotto, Oltradige, Val Casies, tutte zone ad alta concentrazione di masi. Meno ricche, invece, le valli di Sarentino, Passiria, Aurina, Venosta (il resto dell’Alto Adige è classificato a media concentrazione). Il Trentino non ha zone ad alta concentrazione, ma si trovano esempi interessanti a Campiglio/Paganella e nelle valli di Fiemme e Fassa. Interessante anche la valle dei Mocheni, enclave di lingua tedesca in provincia di Trento, ai confini con le Dolomiti.

Ma che cosè esattamente un “maso”?

La risposta e apparentemente semplice: è un’azienda agricola autosufficiente, più diffusa in Alto Adige che in Trentino, con edifici e terreni di proprietà di un’unica famiglia di contadini. In realtà, dietro a quegli zoccoli in muratura sormontati da una struttura in pietra e legno che fa tanto montagna, ce qualcosa di più interessante da raccontare. Ce la storia di una civiltà, quella contadina, c’è la vita nelle valli, scandita dai ritmi della natura e delle stagioni (il taglio dei prati, l’alpeggio, la transumanza, le feste religiose, il lungo letargo invernale … ), ce una stanza, la stube, rivestita in legno, dove la famiglia si raccoglieva per pregare, cantare, cenare, riscaldarsi (e dormire) nella stagione invernale. La stube, insieme alla stalla, era il cuore del maso. La sua regina era la donna, ma la fattoria, in generale, era il regno dell’uomo. E a lui normalmente spettava in eredità, come un piccolo feudo alpino. Già nel XVI secolo si parlava di Geschlossener Haf, “maso chiuso”: un istituto giuridico per designare la successione ed evitare il frazionamento della proprietà terriera. Abolita durante il fascismo, la legge sui masi chiusi venne reintrodotta negli anni Cinquanta dalla provincia di Bolzano. E oggi, delle 19.000 fattorie dell’Alto Adige, oltre 11.000 sono “aziende agricole non frazionabili. Anche la tipologia dei masi si rifà a regole antiche: tetto a capanna per via della neve, copertura in scandale (oggi, in lamiera), stube sotto, nella parte centrale della casa, camere da letto al piano superiore (a volte la sola camera da letto dei genitori al piano terra, vicino alla stube). Il fienile al primo piano, con l’immancabile foro nel pavimento per lasciare cadere il fieno direttamente nella mangiatoia. Un intreccio di ballatoi lungo il perimetro esterno. Casa e stalla, insomma. Ma non necessariamente in un unico edificio. Le forme architettoniche più diffuse, infatti, sono 3: Haufenhof, un maso composto da più costruzioni; Paarhof, una coppia di edifici separati; Einhof, rustico e casa insieme, sotto lo stesso tetto ma nettamente distinti per ubicazione e destinazione d’uso.




Alta Val Tiberina: le “bellezze sconosciute”


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Ce ne sono di “angoli” ancora poco conosciuti; e che ancora si salvano dal turismo di massa! E ce ne sono di borghi antichi da “riscoprire” e apprezzare.

Leggiamo insieme quello che descrive, con stile tanto appassionato quanto competente, Gianni Giorni, che definisce quella zona come “la porzione più originale” dell’Appennino Toscano, con la sua “vallata sconosciuta”. Lì il Tevere è ancora “giovane, poco  più di un torrente su cui si affacciano piccoli borghi ricchi di storia”. E, tra le vie antiche capita che nelle mattine assolate i ristoranti espongano i tavoloni di legno su cui le donne hanno tirato la pasta e alla sera la gente esca di casa, sedia alla mano, per “frescheggiare” e fare due chiacchiere col vicino. Scene usuali in Alta Val Tiberina. Le campagne sono coltivate in appezzamenti ordinatamente separati da filari di cipressi; è raro imbattersi in un campo incolto, in un filare d’uva abbandonato, in un oliveto non lavorato. Le piazze dei paesi sono curate e fiorite come un giardino privato, che si tratti del rinascimentale centro storico di Sansepolcro, come delle viuzze medievali di Anghiari. Lasciando i paesi del fondovalle il paesaggio muta rapidamente, da morbide campagne a foreste e montagne: le cime dell’Alpe della Luna sono a portata di mano. L’integrità degli ambienti naturali, i vasti spazi, la temperatura mai eccessiva, i numerosi sentieri, la tranquillità delle vie secondarie rendono questo territorio ideale per gli appassionati delle due ruote. Il ciclista può disegnare ogni itinerario secondo le proprie esigenze e il tempo a disposizione: un percorso che impieghi quattro giorni di bicicletta, può essere la giusta dimensione per conoscere il territorio della Val Tiberina toscana. Partenza dal centro storico di Sansepolcro, non senza aver dedicato la giusta attenzione al Museo Civico, che ospita affreschi di Piero della Francesca. Nel pomeriggio si iniziano a riscaldare i muscoli percorrendo il facile fondo valle verso Pieve Santo Stefano, dove si pernotta presso la Locanda Sari, poco oltre il paese. Il giorno seguente si entra nel vivo del percorso, alla volta di Caprese Michelangelo, ammirando anche la Pieve di San Cassiano che si trova lungo la via. Caprese in alto conserva parte del trecentesco castello dove nacque Michelangelo Buonarroti, mentre il padre ne era podestà: proprio in onore dell’artista una mostra permanente di scultura abbellisce il giardino del castello. Discesa veloce, toccando il singolare borgo fortificato di Macciano, verso Anghiari, dove si pernotta presso l’Albergo Meridiana. L’indomani, dopo una visita al Museo di Palazzo Taglieschi e un gustoso pedalare tra le viuzze del centro, ci si allontana alla volta di Monterchi. Il borgo offre al visitatore la dolcezza delle sue campagne e l’affresco di Piero della Francesca, La Madonna del Parto. Quindi attraverso il paese di Pistrino si rientra a Sansepolcro in tempo per gustare la cucina locale al ristorante Fiorentino, dove si pernotta per un meritato riposo. – Gianni Giorni.

Gli indirizzi: Locanda Sari, S.S. 3bis km. 177, Pieve Santo Stefano tel 0575/799129. – Albergo Meridiana, Piazza IV Novembre 8, Anghiari, tel 0575/788102. – Fiorentmo, via L. Pacioli 60, Sansepolcro,  tel 0575/740350. – Informazioni: Ufficio Turistico della Comunità Montana Valtiberina, tel 0575/730231. –  Artigianato. A Sansepolcro esiste una forte tradizione locale nei merletti: Centro Culturale (tel 0575/733412), per avere un filo diretto con le donne che lavorano in casa oppure il punto vendita “Il Telaio”, via Matteotti 18, Sansepolcro. Ad Anghiari si fa visita alla tessirura Busatti, via Mazzini 14, da più di un secolo nei locali di Palazzo Morgalanti: si possono ammirare i telai di inizio secolo conservati nel laboratorio.




Tra i monti del Cadore sempre più ricco il “Museo del Rite”


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Cibiana – L’uomo di Mondevàl lascia le sue tracce al «Museo nelle nuvole» (o «Museo della neve» dopo la recente precipitazione) del monte Rite, che darà spazio anche al carbone prodotto a Zoppé di Cadore. Lungo la scala della prima cupola, infatti, Elettra Monico, direttrice della struttura, ha sistemato interessanti resti animali.

«Si tratta», spiega, «di ossa pietrificate di un caprino (forse uno stambecco), possibile preda dell’uomo che saliva in quota per inseguire la cacciagione. Il periodo è contemporaneo all’uomo di Mondevàl».

Lungo la scala della seconda cupola, troverà posto il carbone prodotto a Zoppé di Cadore e indispensabile un tempo per l’attività fusoria. «Il carbone ci verrà portato tra una settimana fresco di produzione da Zoppè dove sabato», spiega Monico, «è partita un’interessante manifestazione su iniziativa del museo Etnografico di Zoppè di Cadore e dell’Union di Ladin de Zoppè: incentrata sulla rivisitazione dell’attività dei carbonai, un tempo diffusissimi in tutte le nostre vallate».

La carbonaia (detta «pojàt») è una grande catasta di legname, ricoperto di rami verdi e di terra, con appena qualche foro ben piazzato per permettere la fuoriuscita del vapor acqueo e del fumo: è stata incendiata lo scorso fine settimana. «La particolarità è che le fiamme non devono spegnersi e devono avanzare nella combustione lentamente e in modo costante per una settimana, notte e giorno», sottolinea ancora la direttrice del museo, «Ecco che entrano in gioco l’abilità e le conoscenze del buon carbonaio, pronto a ravvivare o a lasciar calare il fuoco. E se un tempo alcuni bravi carbonai erano proprio di Zoppè (come attestano alcuni documenti di fine ‘700 in una richiesta formale di una loro prestazione a Cortina), per questa manifestazione i carbonai arrivano dalla Baviera. Grazie ai forti legami che si sono instaurati tra i nostri emigranti e il popolo germanico ospitante, numerosi sono gli scambi culturali in gioco».

Così qualcuno è entrato in contatto con l’associazione bavarese dei carbonai (Europaische Natur und Kulturlandschaft Hauselloh) di Selb, cittadina della Baviera nord orientale. Dal momento che loro fanno parte dell’Unione Europea dei Carbonai, e quindi sono abituati a realizzare delle carbonaie giganti che durano anche due settimane (e lo fanno anche più volte all’anno, sempre a scopo dimostrativo), sono stati chiamati e ospitati con le famiglie a Zoppè. In futuro, il paese vorrebbe ospitare l’annuale raduno europeo dei carbonai. I carbonai tedeschi hanno approfittato della circostanza per visitare il museo dov’è stata, recentemente, il loro cancelliere Angela Merkel, alla quale ha dedicato un piatto («Ravioli alla Merkel») Irma Bedin, vincendo il concorso di Cibiana dedicato ai menù tipici.

Ritornando alla carbonaia di Zoppè, era stato lo stesso Messner a sollecitare un’offerta di carbone dal Museo Etnografico di Zoppè, in modo da rimandare l’attenzione dei visitatori anche a questo piccolo e interessante museo.

E nell’esposizione sul Rite hanno trovato posto anche le caratteristiche chiavi fabbricate a Cibiana: «Le chiavi sono state prodotte e date in comodato d’uso al nostro museo dalla ditta Bianchi Enrico snc, fondata a Cibiana nel 1760, e che oggi è attivissima a Ponte nelle Alpi», sottolinea Monico, «L’antica produzione di chiavi per serrature tradizionali, dunque, continua a vivere: le chiavi vengono stampate a caldo in acciaio e ottone. li vano in plexigas della nostra scalinata conta la bellezza di 945 chiavi vecchie originali, un po’ arrugginite e un po’ usurate, ma incredibilmente belle per fattezze e dimensioni. Ce ne sono di due centimetri di altezza sino ai 20 centimetri per un peso di qualche etto».

Nuova sistemazione anche per la scala della terza cupola del museo. Vi sono raccolte testimonianze della guerra: alcuni pezzi da artiglieria esplosi e grosse barre filettate con relativi bulloni trovate sul Rite, che costituivano montanti per strutture varie, tra le quali la teleferica che saliva al Rite da Venàs di Cadore.

 

Francesco Dal Mas – “Corriere delle Alpi”




Nel bosco di Palo matrimonio etrusco


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‘La notte è più buia per vedere le stelle e c’é più voglia di fare festa “fuori porta”. Così le pro loco in quasi tutti i centri fuori Roma hanno organizzato eventi culturali e manifestazioni per la notte di San Lorenzo. Tra le più attese la rievocazione storica del matrimonio etrusco nel bosco di Palo a Ladispoli, e tanti appuntamenti per brindare alle stelle cadenti che stanotte saranno più visibili che mai. Quando tutti i desideri possono avverarsi, a Ladispoli, Velthure Larthia saranno salutati dalle loro famiglie etrusche nel Simposio Etrusco a cui ogni anno partecipano in migliaia. Oggi in via dei Delfini (biglietto 10 euro) la pro loco e Claudio Nardocci, del Gruppo Storico Romano hanno organizzato la rievocazione del matrimonio. Nella festa saranno presentati spettacoli, prove atletiche e acrobatiche, con l’utilizzo di stuntmen di Cinecittà. Un sontuoso banchetto, corse di bighe, danze con 150 figuranti, rievocheranno l’atmosfera della lontana civiltà etrusca. Un tuffo nel passato per rivivere misteriosi quanto affascinanti rituali.

Sette telescopi puntati verso il cielo dalle 21 in poi; davanti al convento di San Francesco a Labro. Con l’aiuto di Stefano Tocchio e altri astrofili dell’associazione Sabina, la notte sarà dedicata a osservare le “lacrime di San Lorenzo” ovvero le stelle cadenti. «Di alcuni bolidi in caduta è possibile sentire anche il rumore – spiega Tocchio – Guardare lo sciame meteorico delle Perseidi, la costellazione che produce le stelle cadenti è bellissimo». In caso di pioggia tutti dentro il convento di San Francesco. Brindisi sotto lo stelle a Genzano, invece, organizzato dal consorzio di tutela vini Colli Lanuvini doc. Stasera e domani dal1e ore 19 fino al1e prime luci dell’alba a piazza Tommaso Fiasconi si potranno alzare i calici con il meglio dei vini locali, i prodotti tipici genzanesi come il pane, la porchetta, gli affettati ed i dolci. Gratis le degustazioni. Carpe Noctem tra musica, sentiero enogastronomico e arte di strada a Licenza, oggi alle 21, per conoscere un bellissimo paesi no medievale immerso in un parco naturale.
(Marcella Smocovich – “Il Messaggero”)



I masi: dove si riproduce tutto


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Straordinaria, in Alto Adige, la trasformazione di tanti “masi” che adesso sono diventati – ma nel rigido rispetto di ambiente e territorio – lussuosi mini-alberghi. Una vera e propria “mutazione” che vede le camere con arredi rustici d’epoca a pochi metri da splendide discese nevose. A Vipiteno, ci sono masi-fattoria che offrono “charme e relax” (a 19 euro!). Secondo Matthias Horx, esperto di megatrend economici del Future Institute di Kelkheim (Francoforte), l’incalzare di notizie catastrofiche di cronaca e l’incertezza per il futuro favoriscono vacanze, non importa se brevi o lunghe, nella tranquillità e nel silenzio: “C’è il bisogno di rifugiarsi in ambienti integri dove passare il tempo con gli amici o con la famiglia, in un’atmosfera di semplicità ma senza negarsi i comfort”. Un riscontro a queste affermazioni è “la crescita continua del turismo rurale di qualità in Alto Adige che ha superato i 40 milioni di euro del fatturato 2004″, sottolinea Hans Kienzl, direttore del Gallo Rosso, marchio registrato che riunisce masi e agriturismo tirolesi. “Il trend, oggi, è proprio quello di preferire i masi-fattoria rispetto ad altre forme di ospitalità”. A incoraggiare questa scelta contribuisce anche il prezzo contenuto: una camera con prima colazione in una fattoria costa circa 19 euro, mentre gli appartamenti per 2 persone partono da 30 euro a notte.

Vipiteno è al centro di un carosello bianco suddiviso in quattro teatri naturali, ciascuno con identità proprie, panorami, attività sportive e offerte culturali diverse. Raggiungibile con facilità grazie all’autostrada del Brennero che passa appena fuori dall’abitato, senza però intaccarne il fascino, Vipiteno è circondata da 50 chilometri di piste, suddivisi tra i comprensori Racines-Giovo, Colle Isarco – Ladurns, Vipiteno – Monte Cavallo, serviti da un unico skipass (3-23 dicembre 133 euro a settimana, 24 dicembre – 7 gennaio 166 euro) e dotati di impianti di ultima generazione. A questi si aggiungono altri 120 chilometri di tracciati sempre battuti per il fondo.
La Val di Fleres, l’ultima valle italiana prima del Brennero, è famosa per il Tribulaun (3096 m) che la sovrasta, montagna severa e difficile, nota perché il naturalista francese Déodat de Dolomieu, circa 200 anni fa, fece l’analisi geologica dei minerali e scoprì la dolomia (calcare che battezzò con il suo nome e da cui deriva il toponimo Dolomiti).
Tradizioni?

Per capire bene, riflettere sul fatto che tra i masi più selezionati intorno a Vipiteno c’è il “Saxlho”, nel minuscolo borgo di Stilves, che risale al 1490; e se si va a Mules, si trova l’Hotel Stafler, costruita come locanda nel 1270.




Ci sono ancora “Certose” attive


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Tempo fa, un lettore di “Bell’Italia” protestò perché si era scritto che quella di Serra S. Bruno – in Calabria – era l’unica in Italia, insieme a quella di Farneta. E la rivista precisò quanto segue:

“Il nostro servizio presentava una sola certosa, la più antica e importante. Ma può essere interessante sapere quali sono le altre certose di San Lorenzo a Padula, nel Salernitano, con i suoi 50 mila metri quadrati di estensione per cui è sempre detta grandiosa, ancora più bella dopo i restauri di pochi anni fa. Quanto alla certosa di Farneta (in provincia di Arezzo) è più correttamente un’abbazia. E poi sparse un po’ in tutta Italia le altre più famose: la certosa di Galluzzo a Firenze, San Martino a Napoli, la certosa di Caregnano a Milano, la scenografica certosa di Pavia, quella di Bologna fondata nel 1434, per concludere con la certosa di Pesio nel Cuneese, in un paesaggio magnifico. Quanto alle certose femminili, sono cinque nel mondo; in Italia si trova la certosa della Trinità, in provincia di Savona e precisamente in località Ca’Bulin nei pressi di Porri di Diego, che ospita 20 monache “Solitarie per Dio”.

(U.G.)



La Valle del Treja selvaggia, solitaria


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Sembra incredibile che non molto lontano da Roma ci sia un “territorio” così selvaggio e solitario, come lo descrisse qualche tempo fa “Bell’Italia” e come è ancora rimasto.

Le acque di Treja scorrono verso il Tevere; ma è un tutto susseguirsi di salti e cascate.

All’interno di quel Parco naturale, due “gioielli” medievali, Calcata e Mazzano; a suo tempo “borghi imprendibili”, eretti come nidi d’aquila sulle rupi di tufo. Un terzo insediamento “appartiene all’archeologia: si tratta di Narre, antica cittadina balisca”.

Da ricordare anche un percorso che porta da Mazzano Romano alle cascate di Monte Gelato e una seconda “via” che era la Via Marcense, che collega Calcata con Civita Castellana.

C’è l’”Associazione delle Forre”, che cura il sentiero; e altri recapiti utili sono:

– Parco Suburbano – Mazzano via Roma, 1 – 106.9049295 – www.parks.it/parco Valle Treja;

– Centro visite di Calcata: 0761.587617;

– Escursioni guidate: Cooperativa Arcobaleno: 0761-587616

– Cooperativa Sole: 0761-587628




Mantenga: la fine degli “affreschi”?


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Qualche tempo fa, su “Bell’Italia” si affrontò il problema degli affreschi padovani di Andrea Mantenga. Come si ricorderà, tra i tanti bombardamenti “criminali” degli Alleati nell’ultima fase della guerra, ce ne fu uno – l’11 marzo del ’44 – che colpì la chiesa degli Eremitani a Padova “riducendo in briciole gli affreschi di Andrea Mantenga nella cappella Ovetari”.

Ma quel capolavoro della pittura dell’ 400 – ricordava la Rivista – non andò del tutto perduto: “scavando tra le macerie della chiesa, i padovani salvarono decine di migliaia di frammenti che furono riposti al sicuro in casse, improvvisate. Oggi, dopo sessant’anni, si vaglia la possibilità di ricomporre questo immenso mosaico: Domenico Toniolo e Massimo Fornasier dell’Istituto di Fisica dell’Università di Padova hanno messo a punto un programma in grado di confrontare e ricollocare i frammenti su una mappa basata sulle fotografie in bianco e nero scattate dai Fratelli Alinari nel 1920, unico documento rimasto di quel ciclo pittorico. Dal maggio 2001, nel dipartimento di Fisica, 31 operatori si sono dati il cambio intorno a 12 computer in rete, esaminando 80.735 frammenti di affresco, i più estesi della dimensione di un pacchetto di sigarette, la maggior parte non più grandi di un francobollo; in due anni di lavoro, migliaia di frammenti sono stati virtualmente ricollocati a loro posto, ricomponendo circa un decimo della superficie originaria. Ma sarà possibile passare dalla ricostruzione virtuale a quella reale? Dopo la presentazione dei risultati della ricerca, la parola passa ai tecnici del Ministero per i Beni Culturali.

(U. G.)




La Valle Antrona, bella e sconosciuta


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Da tenerle ben presenti, le belle località (poche, purtroppo) che sono ancora poco conosciute e che comunque sono ancora immuni dal turismo di massa.

Come la Valle Antrona, la più “appartata” delle valli assolane; una sorta di “terra vergine” – come ne scrive Claudio Finanzo; che comincia il suo viaggio di scoperta del borgo “Alpe dei Cavalli”, con i suoi 700 metri di lunghezza, 600 di larghezza e 4 milioni di metri cubi di acqua. Ma ci sono, numerosi, altri “laghetti”, intorno ai quali si snoda un’ottima rete di sentieri per escursioni; si va anche molto in alto, sino al pizzo d’Andolla, a 3.656 metri.

Tipica, l’architettura in pietra dei paesi, dove “si incontrano ancora antichi forni per il pane, abitazioni rustiche e torchi da uva (uno dei quali, risalente al 1745 e ristrutturato, è ancora in uso.

Nella parte alta, il solco vallivo si divide in due tronconi: a sinistra, si sale al lago Antrona; a destra, si prosegue verso Cheggio.

Nella valle, due Oratori, sono di particolare interesse turistico. Il primo è quello di San Bernardo, a Cheggio, che sorge dove originariamente esisteva una minuscola cappella dedicata a San Bernardo, venerato come protettore degli alpigiani.

Il secondo è l’Oratorio di San Gottardo, a Rovesca: è uno degli edifici più antichi della zona, costruito intorno al 1620…

Interessante è anche il borgo Viganella, che fu in passato il centro della lavorazione del ferro, estratto, dal Medioevo fino al 1859, a Ogaggia: le miniere, oggi abbandonate, sono raggiungibili ora attraverso un sentiero che parte dal centro del paese.

Assai ricca di fascino e ritualità è la processione dell’Autani, la più antica dell’intero arco alpino, che ogni anno parte dal paese di Montescheno e percorre i sentieri della montagna (22 chilometri) per tutta la giornata.




Quel “Colosso” che fu il Colosseo


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Non c’è bisogno di “prove” per attestare come i Romani siano stati grandi costruttori; in un’area sterminata, ne esistono ancora oggi attestazioni evidenti. Ma è proprio sul Colosseo che siamo adesso chiamati a riflettere in occasione di una Mostra sul “ Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi”, che ripercorre anche le gesta dei figli, Tito e Domiziano.

Apprendiamo – ne scrive Francesca Bonazzoli sul “Corriere della Sera” – che la sua inaugurazione, nell’estate dell’80 d.C. fu una carneficina: 5.000 fiere vennero uccise in un bagno di sangue che durò cento giorni, sotto gli occhi di una folla sempre più esaltata. La mattanza che “battezzo” il nuovo Colosso fu aperta solennemente dall’imperatore Tito, il quale ricavò un grande consenso (il popolo lo soprannominò <delizia del genere umano>) da quell’ enorme anfiteatro voluto dal padre Tito Flavio Vespasiano. All’epoca, però, non era ancora del tutto terminato e quindi anche il fratello minore di Tito, Flavio Domiziano, che prese il potere nell’81, se ne occupò perfezionando i sotterranei per consentire messe in scena ancora più spettacolari. Ecco perché, dal nome dal nome della famiglia che lo costruì, l’Anfiteatro fu chiamato Flavio, mentre sull’origine del nome Colosseo si sono fatte solo ipotesi. La prima è che sia dovuto alle proporzioni <colossali>; la seconda alla statua bronzea del Colosso di Nerone collocata a pochi passi e quest’ultima circostanza, secondo alcuni, potrebbe avere indotto il popolo ad acquisire l’abitudine di dire <ad  colossum eo> (vado al colosseo).

L’ellisse misura all’esterno 188 x 156 metri (per un totale di 24 mila metri quadri mentre la Basilica di San Pietro ne occupa <solo> 22.067); per erigere i pilastri della struttura portante furono necessari oltre 100 mila metri cubi di travertino. Secondo alcune ricostruzioni, negli archi del secondo e terzo anello, potevano esserci statue di marmo anche se non sono stati trovati né resti, né impronte delle basi; mentre è certo che nell’ultimo ordine, tra una finestra e l’altra, fossero collocati quaranta scudi in bronzo dorato, di cui restano i fori che li sostenevano e in cui erano forse raffigurate teste di divinità.

La capienza di oltre 50 mila spettatori a sedere, era unica al mondo a fronte dei 20/30 mila posti disponibili nei maggiori stadi. Ma straordinario era anche il velario, l’enorme teloni di lino che proteggeva dal sole e le cui funi venivano fissate dai marinai della flotte di Capo Misero su piastrini che circondavano esternamente l’anfiteatro, cinque dei quali sono ancora visibili davanti alle arcate XXIII, XXIV, XXV.

All’interno, il piano di calpestio in legno dell’arena era cosparso di sabbia gialla (rena) proveniente dalle cave di Monte Mario e l’intero perimetro era disseminato di nicchie per gli arcieri con il compito di uccidere le belve che avessero tentato di superare la rete metallica fra gli spalti e l’arena…”.