C’è stata anche la Puglia Longobarda


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Nella Puglia, già “ricchissima”, si scoprono quasi senza interruzione, bellezze storico-archeologiche. E ci ha colpito, su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 22 aprile ’05, leggere la ricostruzione di come è avvenuta la più recente, scritta da Vinicio Coppola con lo stile di chi narra un’avventura, con i suoi dubbi, le sue pause di riflessione e i suoi entusiasmanti approdi. Ecco la nota di Vinicio Coppola, che davvero merita di essere ripresa per intero; e che ha per titolo: “La Puglia dei Longobardi”.

I saggi di scavo condotti da Gioia Bertelli Buquicchio, docente di archeologia e storia dell’arte paleocristiana e alto medievale all’Università di Bari, hanno confermato in pieno i… sospetti dell’archeologa barese sull’esistenza in agro di Fasano di una «longobardia pugliese» .

Tutto è cominciato dal frammento di un affresco rinvenuto nel tempietto di Seppannibale, così denominato per l’omonima masseria, ad un tiro di schioppo da Fasano. La particolare iconografia del frammento mise in allarme la studiosa; riguardava una singolare annunciazione, quella in cui l’angelo informava Zaccaria che l’anziana moglie Elisabetta avrebbe dato alla luce un bambino di nome di Giovanni. Quell’affresco ricordò subito all’archeologa un’ analoga opera esistente nella chiesa di Santa Sofia a Benevento, la cui datazione era collocabile alla fime dell’8° secolo. Il confronto stilistico, poi, fece piazza pulita di altri dubbi in merito alla clamorosa scoperta: la presenza dei Longobardi in Puglia.

L’archeologa cominciò subito a raccogliere qua e là altri indizi in grado di suffragare le sue tesi. In primo luogo. prese in esame l’architettura del tempietto, ne studiò a fondo le sculture, compresi i capitelli a foglie d’acqua. Quindi, analizzò un’iscrizione che correva lungo il catino dell’abside: «Hunc templum d(e)i ego fieri erogavit». Un’iscrizione che, nonostante presentasse al centro un monogramma ancora insoluto, innescò altri quesiti: ma quella discordanza tra la prima persona del pronome e la terza persona del verbo non era una formula in uso nei documenti notarili dell’alto medioevo?

Il bello arrivò successivamente, quando vennero riportati alla luce altri affreschi, celati da una coltre di calce e disseminati sulle pareti curve delle due cupole. Riguardavano un grande ciclo ispirato all’ Apocalisse di San Giovanni. Sulle navatelle laterali erano affrescati altri episodi, non sempre decifrabili a causa dell’avanzato degrado: vi si scorgevano comunque scorci di città dell’età di mezzo insieme con elementi paesaggistici e naturalistici. Ad un certo punto, al cospetto di talune immagini l’archeologa quasi impallidì: i papaveri rossi su fondo giallo erano uguali a quelli delle chiese del monastero di San Vincenzo al Volturno, e in altri luoghi nei quali era storicamente provata la presenza di maestranze legate al mondo longobardo-beneventano.

Ormai il dado era tratto. I lavori andarono così avanti, grazie alla disponibilità del proprietario del fondo, l’ingegnere Giuseppe Calefati, e al concomitante sostegno finanziario della Fondazione della Cassa di Risparmio di Puglia, nella persona del presidente Antonio Castorani. Per accelerare i tempi, la studiosa non ha esitato a servirsi di moderne tecnologie – come il «georadar» – e di foto aeree a raggi infrarossi scattate dagli elicotteri della Guardia di Finanza. È riuscita così a scoprire anzitempo le «anomalie» del sottosuolo e, quindi, ad individuare la presenza di altre strutture sepolte. Come, ad esempio, i resti di un abitato alto-medievale coevo, o addirittura precedente, al tempietto di Seppannibale. E, nel corso della seconda campagna di scavo, sono state rinvenute anche vasche per la raccolta di liquidi e buche scavate nella roccia, utilizzate nella lavorazione dei prodotti agricoli.

(a cura di Umberto Giusti)




Lauro: ancora ricordano Napoleone l’incendiario


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Bisogna davvero “immergersi” nei tanti centri minori d’Italia per scoprire davvero la nostra storia, le ricchezze incredibili della tormentata storia del nostro Paese. E vogliamo continuare a dare un contributo in tale direzione parlando stavolta di Lauro (in Provincia di Avellino) che è abbastanza noto – come ha ricordato un recente numero, la bella rivista “ Plein Air” per aver dato i natali ad Umberto Nobili, “l’uomo che aprì al mondo le vie dell’Artide”; un paese che è, anche, “una delle capitali europee della pittura naif. Ma c’è ancora altro, molto altro – appunto in termini di «memoria storica» – in un paesino che conta appena 4.000 abitanti! E ci chiediamo – in quale altro Paese al mondo esistano centinaia e centinaia di piccoli o piccolissimi centri abitati, così ricchi di “stratificazioni” storiche così complesse, che ovviamente fanno anche cultura nel significato più vasto della parola.

E allora torniamo a Lauro, per sottolineare come ancora oggi venga ricordato – guardando il vanto del paese – il possente castello Lancellotti, del X secolo, opera dei longobardi – una crudeltà dell’occupazione delle truppe napoleoniche, che dettero alle fiamme quel castello nel 1799 e fu poi ricostruito a più riprese in tanti decenni di lavori, nel corso del XIX secolo.

Il castello ha una particolarità, peraltro abbastanza diffusa in costruzioni di questo tipo: che venne eretto su una preesistente costruzione romana, come dimostrano i tanti reperti riaffiorati nella ricostruzione del 1871.

Oggi il castello – leggiamo su Internet – è “uno scrigno prezioso” La grande Sala d’Armi, lunga 21 metri e illuminata da sei finestre, in passato destinata alle solenni cerimonie di corte e alle feste, ospita convegni e manifestazioni. Alle pareti sono esposte armi medievali: elmi, lance, alabarde, corazze. Una rastrelliera contiene antichi fucili che le Guardie del castello avrebbero sequestrato ai banditi che infestavano il feudo. Stemmi, figure allegoriche illustrazioni raccontano in sintesi la storia del feudo di Lauro e delle dinastie cui è appartenuto.

Presso l’ingresso della sala è dipinto un grande affresco raffigurante l’incendio del 1799. Le altre sa e salette sono riccamente decorate e, tra queste, una contiene il bigliardo, un’altra una raccolta di quadretti dipinti ad acquarello che ritraggono il castello, un’altra sala è destinata ad archivio storico e conserva i documenti, riguardanti il feudo, salvati dall’incendio.

La Biblioteca conta oltre mille opere con un totale di circa cinquemila volumi compresi tra il 1500 e il 1800 cinquecentine, opere di autori latini e italiani. Un settore è dedicato alla storia del papato, alla questione romana, al rapporto stato-chiesa. La Farmacia settecentesca contiene oltre a bilance, mortai e pestelli, un gran numero di “albarelli”, vasi di ceramica di forma cilindrica dipinti in azzurro, usati come contenitori di unguenti, pomate, medicine, e allineati sui ripiani di armadi in stile barocco.

La Cappella affiancata dal campanile, è uno degli ambienti più belli del Castello e ricalca motivi di antiche basiliche romaniche. Su tutte le parti vi sono affreschi che illustrano episodi della vita di santi frati della terra di Lauro, San Sebastiano, San Rocco e i Patroni. La cappella ha rosone e vetri policromi e sul fondo dell’abside si aprono sette vetrate istoriate. La sacrestia, decorata d’insegne nobiliari conserva due grandi affreschi recuperati dall’antica cappella demolita: una Madonna con Bambino e Quattro Santi.

(a cura di Pino Rauti)




Pisa: verso il Museo delle Navi Romane


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Il Museo delle Navi Romane di Pisa sarà inaugurato nel 2009, e sarà una struttura dotata delle più avanzate tecnologie multimediali. Tra il 2005 e il 2008 si svolgeranno i lavori per la ristrutturazione degli Arsenali Medicei, futura sede del museo che proporrà, su oltre 6.000 metri quadrati, i resti di straordinarie navi antiche e dei loro carichi, tornati alla luce, nel dicembre del 1998, in un cantiere delle Ferrovie dello Stato a Pisa-San Rossore, a poco più di 500 metri dalla piazza del Duomo dove svetta la celebberima Torre Pendente. Quantità e qualità dei rinvenimenti archeologici hanno calamitato in questi anni studiosi e pubblico alle mostre allestite a Pisa, Firenze e New York. Si prevede che il museo possa calamitare ogni anno un flusso di più di 100mila visitatori.

Il progetto costerà complessivamente oltre 25 milioni di euro. Sono questi i dati principali che emergono dallo studio di fattibilità presentato oggi dal ministro per i Beni culturali, Giuliano Urbani, alla commissione scientifica per il Museo delle Navi di Pisa. Il progetto è promosso e finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa ed e’ sviluppato dall’Università Bocconi – ASK (Art, Science and Knowledge) con la collaborazione della Scuola Normale di Pisa. ”Con la presentazione di questo qtudio, l’idea di creare a Pisa un museo delle Navi Antiche compie un fondamentale passo avanti”, ha affermato Urbani.




All’Alberghiero ma… senza cucina


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Ci chiediamo spesso, leggendo le cronache dei giornali che “grondano” di notizie spesso sconcertanti su quel che accade in questa nostra – e sgangherata! – Italia; e domandiamo spesso come e perché avvengano “cose del genere”; addirittura paradossali.

Leggiamo, dunque, le cronache che riguardano gli studenti dell’Istituto Alberghiero, ad Azio, presso Roma. Scrive Tiziana Paolocci, su “Il Giornale”:

Frequentano l’Istituto Alberghiero ma non hanno i laboratori e la cucina per esercitarsi. È il destino degli studenti della scuola Marco Gavio Apicio di via Nerone, ad Anzio. I genitori dei ragazzi hanno formato un Comitato per denunciare la violazione del diritto allo studio e hanno scritto alla presidenza del consiglio dei ministri e al ministero dell’Istruzione per chiedere di intervenire per risolvere il problema.

«L’istituto è vittima di una situazione di grande disagio – racconta Renato Costi, presidente del comitato genitori -. Dal 1967 aveva a disposizione i laboratori di sala e cucina e diversi locali presso il noto Paradiso sul Mare di Anzio, acquistato dal Comune con fondi dello Stato, nonché mutuo delle Casse Depositi e Prestiti con vincolo d’uso esclusivo della scuola, che nasce con Convitto annesso. Ma il 23 luglio 2009 la Provincia di Roma, organo delegato all’edilizia scolastica, con una delibera ha dismesso l’uso del Paradiso sul Mare, motivando la scelta con i costi troppo elevati per i necessari lavori di adeguamento». Da settembre, quindi, l’istituto si trova improvvisamente privo dei laboratori di sala e cucina e dei locali a essa funzionali, con l’evidente conseguenza di non poter avviare regolarmente le attività didattiche che comprendono anche, e soprattutto, le esercitazioni pratiche.

«Nonostante le reiterate segnalazioni fatte a tutti gli organi istituzionali competenti in materia, la situazione non è stata risolta – prosegue Costi -. Chiediamo quindi la riapertura immediata del Paradiso sul Mare e il completamento dei lavori edilizi per l’adeguamento della sede di via Nerone». Il Comitato sostiene che le alternative proposte in questi giorni dalla Provincia sono assurde, perché le strutture private indicate sono troppo piccole e insufficienti, oltre a non essere state progettate per uso scolastico. «Prevedono poi costi di affitto che la Provincia potrebbe invece usare per il Paradiso sul Mare», conclude il rappresentante dei genitori. I familiari degli studenti hanno chiesto alla protezione civile di realizzare un blocco di laboratori (sale e cucine da campo) in prossimità dell’Istituto, in attesa che si arrivi al più presto a una soluzione definitiva del problema.”.

Pino Rauti




I fondi? Spesi in rappresentanza


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Ne saltano fuori tante, di “vicende” sconcertanti, dopo un terribile fatto di cronaca qual è stato l’alluvione di Messina. E’ risultato, tanto per esempio fra i molti che si possono fare, che i fondi destinati alla cura del territorio, furono “spese in rappresentanza”. Senza che nessuno dei pur numerosi «organi di controllo amministrativo» fra Comune, Provincia, Regione e Stato, trovassero modo di intervenire

Ne scrive a lungo sul “Corriere della Sera” in un articolo che, se solo lo spazio non ce lo impedisse riprenderemo per intero, Alfio Sciacca. Ecco cosa scrive:

Non sarà una grande somma, poco più di 35 mila euro, ma fa un certo effetto vedere da dove sono stati prelevati e soprattutto dove sono finiti. Invece di pensare ad evitare il dissesto del territorio, meglio preoccuparsi di tenere buone relazioni e poi magari riparare il tetto di qualche chiesa. Quelle sì che sono cose che portano voti. E questo non uno o due anni fa, ma esattamente 20 giorni prima della strage di Giampilieri.

Il provvedimento del sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca, porta la data del 18 settembre e preleva quella pur modesta somma dalle spese per il funzionamento dell’ufficio che si dovrebbe occupare appunto della difesa del suolo per destinarne una parte (15mila euro) a «spese per relazioni pubbliche e di rappresentanza e di funzionamento del Sindaco», e il resto a «manutenzione e/o attrezzature per edifici serventi al culto» e alla «quota associativa alla lega delle autonomie locali». Non siamo alla «sagra della salsiccia» di cui parlava il capo della protezione civile Guido Bertolaso, ma poco ci manca…

Ma concretamente questo ufficio difesa del suolo di cosa si occupa? «Ma quale ufficio? — replica sorpreso Carmelo Gioè, unico geologo in forza al Comune —, da noi non esiste un ufficio del genere. Magari ci fosse. Forse ci sarà il capitolo di spesa nella speranza di crearlo, ma al momento non c’è alcun ufficio difesa del suolo». Ma allora ha fatto bene il sindaco a togliere quei soldi? «Sono un geologo, questa è una delle aree più a rischio d’Italia. Non aggiungo altro».

Che sia necessario lo dice chiaramente il Capo del Genio Civile di Messina Gaetano Sciacca. «Caspita se è importante in un’area ad altissimo rischio sismico e idrogeologico. Ma a Messina non mancano solo uffici e fondi necessari, manca innanzitutto la consapevolezza di quanto sia necessaria la difesa del territorio se realmente si vogliono evitare tragedie come quella di Scaletta e Giampilieri. Sono anni che faccio denunce alla Procura: in questa città non si è mosso mai nulla tranne poi fare bei discorsi quando ci sono i morti».

Attacca il consigliere del Pdl Lello Pergolizzi: “Tutto ciò dimostra l’assoluta mancanza di sensibilità verso questi temi che accomuna tutte le amministrazioni che hanno governato Messina». E lui, il Sindaco, come si difende? «Mi sembrano solo speculazioni basate su argomenti speciosi». Quanto all’ufficio difesa del suolo «ma certo che esiste, si occupa di vigilare sul territorio per evitare la cementificazione abusiva o il controllo di discariche lungo il corso dei torrenti ed altre cose del genere».

L’Amministrazione Buzzanca, aveva presentato in pompa magna, alcuni mesi fa il suo bel piano di protezione civile. Ma “tutti sanno che esiste solo sulla carta”.

Anche il prefetto Francesco Alecci conferma: «C’è una sola strada e non c’è nemmeno un punto dove fare atterrare l’elicottero. Vecchi e bambini abbiamo dovuto trasferirli calando il verricello. Si rende conto cosa vuol dire?». Lo stesso piano di protezione civile più che del sindaco è opera del prefetto che lo ha messo giù nel 2008 consegnandolo chiavi in mano a Buzzanca. Ma, appunto, esiste solo sulla carta. Come sulla carta c’è un ufficio tutela del suolo, mentre i soldi (veri) finiscono per spese di rappresentanza.

Pino Rauti




Le “bassezze” del comunismo


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Più si va avanti, più si scava negli archivi e più si trovano “prove” di quanto fu basso e avvilente il regime comunista in Russia. Degli “orrori” suoi è stato detto tutto o quasi ma su questo livello abietto c’è ancora tanto da ritrovare.

Questo pensavamo scorrendo la pagina intera che Stenio Solinas – con la “bella” penna che ben gli conosciamo – ha dedicato su “Il Giornale” al “controllo e alla manipolazione della vita privata” di quel tempo.

E’ un messaggio di Orlando Figes che rievoca “i trucchi e le bassezze degli informatori”.

Dunque, quando Stalin assunse la direzione del partito, e il ’53, quando morì, circa 25 milioni di cittadini russi subirono la repressione. Quei 25 milioni – giustiziati da plotoni d’esecuzione, detenuti del gulag, confinati in insediamenti speciali, membri di nazionalità deportate – equivalevano a circa un ottavo della popolazione all’inizio degli anni Quaranta: in media, due vittime ogni tre famiglie. Inoltre, la vita di decine di milioni di individui (parenti dei perseguitati) ne risultò segnata per sempre, con conseguenze morali e sociali ancor oggi evidenti. Attingendo a numerosissimi archivi privati nascosti nelle abitazioni di ogni angolo del Paese e al materiale raccolto in oltre quattrocento interviste, lo storico Orlando Figes racconta le “storie segrete” – tutte simili in quanto variazioni di un unico tema, lo stalinismo, ma ciascuna con la propria tragica cifra di orrore e sofferenza – di centinaia di famiglie russe di diversa estrazione e provenienza. E analizza come non è mai stato fatto finora la «soggettività sovietica», ovvero il mondo interiore dei cittadini sotto la tirannia di Stalin.

Sospetto e silenzio si intitola in italiano l’imponente saggio di Orlando Figes (Mondadori, pagg. 645, euro 38, traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana) sulle «vite private nella Russia di Stalin», ma noi continuiamo a preferire il titolo originale dell’edizione inglese uscita due anni fa: The Whisperers. I sussurratori. Perché nulla rende meglio l’idea di un potere occhiuto e temuto, insondabile e imprevedibile, di un sostantivo che evoca una società di sudditi dove si vive e si muore sottovoce, ovvero in apnea, consapevoli che ogni giudizio ti può essere imputato, ogni affermazione ti può condannare, ogni sentimento ti si può ritorcere contro.

Ma to whisper può anche voler dire sparlare, fare la spia, calunniare e infatti Figes racconta non solo e non tanto la realtà di un regime totalitario, quanto la costruzione di una nuova psicologia inumana nella sua essenza, dove i figli denunciano i padri, le mogli i mariti, spiare è glorioso, tradire è santificato e giusto essere condannati ingiustamente… Nessun regime autoritario del passato agì così capillarmente sulle vite private di chi gli stava sotto, nessun regime totalitario novecentesco, né il fascismo né il nazionalsocialismo, manipolò così massicciamente le menti delle masse su cui esercitava il proprio dominio. Il comunismo al potere in Urss fu il più sofisticato e il più spregevole esempio di schiavitù intellettuale imposta a tal punto da trasformarsi in habitus mentale, in modo di vivere, in modello comportamentale.

In Sospetto e silenzio il lettore troverà le cifre e le vicende di questa mattanza ideologica e politica, la realtà dei gulag e dei processi-farsa e insomma l’impianto storico-cronachistico in cui essa si incarna, ma a noi interessa di più dar conto dell’altro aspetto, quello relativo alle mentalità, alla orwelliana edificazione di un bis-pensiero e di una neo-lingua, di una «nuova umanità» di segno rovesciato, dove di umano alla fine non c’è più niente e di nuovo l’eterna pratica del terrore. Nelle seicento e passa pagine di un saggio denso di note, memorie, testimonianze dirette, fonti d’archivio, materiale inedito, Figes illumina tutto ciò in maniera rapsodica.

Perché non cercare di scappare, perché attendere rassegnati l’arresto e spesso quindi la morte? La passività fu uno degli aspetti più straordinari del terrore staliniano. C’erano molti modi per evitarlo, nota Figes: «Quelli più semplici consistevano nell’abbandonare le città e assumere una nuova identità acquistando falsi documenti al mercato nero, dal momento che la Nkvd non riusciva a rintracciare le persone trasferite»… E invece tutti aspettavano, una borsa accanto al letto, di essere risucchiati… Era una forma di ipnosi dal potere, secondo la testimonianza dello sceneggiatore Valerj Frid: «Eravamo tutti come conigli che riconoscono il diritto del boa di inghiottirli. Entravamo nella sua bocca con la sensazione di andare incontro al proprio destino…

(P.R.)




Sempre più caos con i “piani casa”


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Ma non va bene proprio niente, in questo nostro benedetto Paese!

Guardiamo da vicino, per fare un esempio concreto, quello che accade con i “piani casa” che erano stati avviati per <<mettere ordine>> e stanno dando luogo ad un disordine devastante.

Perché si è dato luogo ad una Italia di tante “regole diverse”; e ci sono, diverse tra loro, 12 leggi regionali, più la particolarissima situazione di Bolzano e provincia. Più, le Marche, che ancora <<tacciono>>. Più la Provincia di Trento – come scrive in un superdocumentato articolo/panorama sul “Corriere della Sera”, Antonella Baccaro – che non ha aderito all’intesa, confermando gli attuali contributi per le ristrutturazioni senza premi volumetrici. E Giulia Maria Crespi, presidente Fai, insieme a Fulco Pratesi, presidente onorario del WWF-Italia, in una lettera-aperta ai vertici dello Stato, invocano: “Ma non aggrediamo il paesaggio”.

Sottolineando come, ogni Regione, su un tema così cruciale come la pianificazione del territorio, ha fatto da sola e in totale assenza dello Stato.

Leggiamo ancora: “Ci troviamo oggi nella paradossale si­tuazione in cui le Regioni hanno innova­to la normativa in materia di governo del territorio in totale assenza di una legge quadro nazionale e quindi esautorando di fatto il potere legislativo del Parlamen­to. Perché nessuno ha sollevato dubbi di costituzionalità? Come è possibile che su tante altre questioni si discuta per mesi e sulla gestione del futuro del nostro terri­torio neanche un minuto? Vi sembra dav­vero una questione così marginale? Questo comportamento appare esizia­le sia per la palese violazione della omes­sa disciplina comunitaria in materia di Valutazione Ambientale Strategica, sia per il colpo mortale inferto al concetto stesso di pianificazione in quanto impo­ne ai Comuni una deroga totale ai loro Piani regolatori. Una specie di obbligo a non curarsi della pianificazione che non è errato interpretare come un condono edilizio preventivo. Gli effetti del Piano casa si tradurran­no dunque in una nuova aggressione al paesaggio italiano, tesoro insostituibile e non replicabile e primo attrattore della più grande risorsa economica del Paese: il turismo…”.

Pino Rauti




L’Italia “ingiusta” delle disuguaglianze


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Passano i mesi e gli anni. Cambiano i colori dei Ministeri ma l’Italia è sempre quella: un Paese che ha la più grossa evasione fiscale del mondo e la natività più bassa (e quindi è quello che più invecchia); è l’Italia di tutte le disuguaglianze. E quindi è quello più ingiusto dal punto di vista sociale. Ecco il “quadro” che risulta sulla base della dichiarazione dei redditi, elaborati e analizzati dal Ministero dell’Economia. con molti “dettagli” naturalmente, secondo quanto precisano i vari giornali che hanno dato alle analisi il giusto rilievo. Tra i giornali, “Repubblica” la specie per abbondanza di dati; e ne scrive Luisa Grion, al cui articolo ci rifacciamo, notando anzitutto che “un italiano su quattro dichiara redditi da fame e giura al Fisco che a fine anno non riesce a mettere insieme più di 6 mila euro; e dunque; visto che a pagare le tasse sono poco più di 40 milioni e mezzo di contribuenti “per 10 milioni e 200 mila di loro, la miseria è di casa..”.

Qualche altra cifra: il 36,3% 14,7 (milioni di persone) “guadagna fra i 12.500 e i 25.000 euro”; ma il reddito medio imponibile si ferma a 16.210 euro (e l’IRPEF media versata a 4.200).

Insomma “siamo un paese di poveri”; e con ampie disuguaglianze sociali; e bisogna  anche tener conto che anche altri centri di (qualificata) osservazione fanno riferimento a cifre diverse, come ad esempio, l’ISTAT secondo la quale i poveri in Italia non sono i “dieci milioni di cui si diceva poc’anzi ma 7 milioni e mezzo, corrispondente a 2,6 milioni di famiglie.

Così denuncia infatti l’ ultimo rapporto sulla povertà presentato dall’ Istituto, che calcola la percentuale basandosi non sui redditi dichiarati, ma sui consumi effettuati e considera povera la famiglia di due persone che spende meno di 920 euro al mese.

Ma, per tornare all’articolo di Luisa Grion, un aspetto “cruciale” di queste situazioni è dato dalle disuguaglianze. Perché, ad “ammettere una vita di agiatezza” (200 mila euro dichiarati) sono solo 55.733 persone, lo 0,14% sul totale. Ed anche “riducendo di molto la soglia della ricchezza” – prendendo in considerazione come tale i 100 mila euro – il risultato non cambia molto: si sale a 271; lo 0,67 % dei contribuenti. Lo scarto fra i due estremi è enorme e un po’ sospetto, tanto più che – prendendo in considerazione solo le dichiarazioni dei redditi degli autonomi – fra liberi professionisti, commercianti, artigiani e partite Iva uno su quattro dichiara un reddito annuo inferiore ai 6.000 euro. Cinquecento euro al mese, meno di una pensione sociale.

Si arriva così al tema, al cronico e sempiterno tema delle evasioni fiscali, che gli esponenti della sinistra localizzano nell’area degli “autonomi”; ma riferisce ampiamente la giornalista di Repubblica, “i diretti interessati protestano” e fanno notare come del mondo degli autonomi fanno parte anche le mai pagate partite Iva, o la miriade di microaziende che nel 50 per cento dei casi non riesce a superare i 5 anni di vita. «Non bisogna vedere fantasmi che non ci sono per far pagare di più le imprese» – commenta Marco Venturi della Confesercenti. Secondo uno studio degli artigiani della Cgia di Mestre, in Italia c’ è un imponibile evaso di 311 miliardi di euro, pari al 25 per cento del Pil e in termini d’ imposte la ricchezza sottratta alle casse dello Stato è di 130 miliardi. Ma di questa enorme quota solo una piccola parte sarebbe imputabile al lavoro autonomo: l’ imponibile evaso per mancata emissione di fatture e ricevute si fermerebbe ai 4 miliardi di euro. Duecento miliardi sarebbero a carico dell’ economia sommersa, 100 a quella criminale, 7 alle grandi imprese. Così si discute, si dibatte, ci si scontra. Ce n’è di “materiale” sul quale anche noi possiamo e dobbiamo permettere.

Pino Rauti




Quanto cresce l’immigrazione


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Nuove cifre sull’immigrazione.
Le fornisce l’annuale Rapporto Caritas.
Esso documenta come, ormai, vivano in Italia 4,5 milioni di stranieri irregolari; ai quali vanno aggiunti almeno 500 mila – ma forse molti di più – irregolari, del tutto “sommersi” ad ogni rilevazione.
Il Rapporto mette in luce anche quale aumento ci sia stato lungo l’arco degli ultimi dieci anni; durante i quali, gli stranieri in Italia – leggiamo a firma di Giampiero Dalla Zanna sul “Corriere della Sera” – sono aumentati di 350 mila ogni anno, quasi 1000 in più al giorno. E “questi imponenti flussi continueranno anche nei prossimi anni?”. La risposta è positiva, a causa di una doppia spinta demografica. Da un lato, la pressione dei Paesi poveri non diminuirà. Senza emigrati, nel prossimo ventennio gli abitanti in età 20-60 dei paesi in via di sviluppo aumenteranno di 50 milioni l’ anno, perché diventeranno adulti i bambini venuti al mondo nell’ ultimo ventennio, quando la natalità era ancora alta, ma la mortalità infantile in rapido calo. Anche se molti paesi (Cina, India, Brasile e alcuni Paesi africani) hanno ritmi di sviluppo più alti dell’ Europa e degli Usa, è impossibile che tutta questa nuova forza lavoro venga assorbita dalle economie locali. D’ altro canto, se non ci saranno immigrati, i residenti in Italia in età 20-60 diminuiranno di 300 mila ogni anno, perché arriveranno alla pensione i figli del baby-boom degli anni ‘ 50 e ‘ 60, mentre entreranno nel mercato del lavoro i figli del grande calo delle nascite. Quindi, nei prossimi vent’ anni le migrazioni favoriranno l’ incontro fra domanda e offerta mondiale di lavoro. Nei Paesi poveri le migrazioni allevieranno il surplus di persone in età di lavoro, mentre in Italia e negli altri Paesi ricchi questi nuovi cittadini impediranno la riduzione della popolazione in età lavorativa. Alcuni Paesi ricchi – ad esempio il Giappone – bloccano l’ ingresso di nuovi immigrati. Ma nel medio e lungo periodo i risultati saranno drammatici, perché la popolazione invecchierà rapidamente, e mancheranno lavoratori disposti a ricoprire mansioni essenziali per la società. “Conviene quindi operare affinché, come spesso è accaduto nella storia, – conclude il rapporto – le migrazioni esercitino una benefica funzione di riequilibrio demografico, sia nei Paesi di ingresso sia in quelli di uscita.”.

Pino Rauti




Sviluppo “insostenibile” ecco le conseguenze


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Siamo alle conseguenze di un tipo di sviluppo che, per effetto del liberalcapitalismo, è diventato “insostenibile”. E le conseguenze sono tanto più gravi se si verificano nei Paesi dove il liberalcapitalismo è più “egemone” o nei livelli e nelle aree sociali dove esso è – o è stato – addirittura “selvaggio”.

Sullo sviluppo sostenibile, ormai da molti anni, esiste una sorta di cultura consolidata; centinaia di volumi ; diecine di convegni internazionali anche del massimo livello.
Si tratta di rispondere ad una delle domande di fondo dell’epoca nella quale viviamo: se era, cioè, possibile soddisfare i nostri bisogni senza compromettere la vita delle generazioni future. Una domanda che, nell’idea stessa, dello sviluppo sostenibile, “nasce e si sviluppa nell’ambito delle scienze sociali e per questo riflette dimensioni sociali e politiche, importanti; oltrechè contraddizioni spesso irriducibili nei rapporti fra Paesi”.
Ci sono – scrive Alessandro Lanza Nel libro”Lo sviluppo sostenibile” quattro aree di rilievo dalle quali ripartire.
La prima è quella demografica. Essa include non solo il problema del numero degli abitanti che il pianeta può sostenere, ma anche la loro distribuzione, le diverse dinamiche fra Paesi ricchi e Paesi poveri, e molte altre dimensioni certamente non secondarie.
Sebbene troppo spesso ricondotto a un dibattito sul numero degli abitanti del pianeta, l’intero argomento, come vedremo più avanti, è certamente più complesso.
Una seconda area è legata al tema della gestione delle risorse naturali. Il problema dell’inquinamento in senso lato ricade certamente in quest’ambito, anche se spesso si tende a limitare il tema dello sviluppo sostenibile al solo controllo dell’inquinamento.
La terza area rilevante nel dibattito sullo sviluppo sostenibile è quella economia; questo significa analizzare i problemi relativi alla crescita del reddito e alla sua distribuzione fra i cittadini di uno stesso Paese e fra i cittadini del mondo. L’idea di fondo è che un Paese in cui il reddito sia distribuito in modo fortemente diseguale discrimina, di fatto, i propri cittadini in termini di opportunità. Quando poi il confronto diventa internazionale, le differenze distributive, relative all’accesso alla ricchezza e ai consumi, diventano semplicemente imbarazzanti per un cittadino del nord del mondo.
Va infine considerata una quarta area, relativa alle istituzioni e agli strumenti nazionali e internazionali necessari ad affrontare il tema.
Nonostante la sua problematicità, il concetto di sviluppo sostenibile è sempre più presente nel campo dell’informazione e quindi nella vita di noi tutti. La stampa quotidiana ha però smesso da tempo di spiegare cosa significhi davvero sviluppo sostenibile e si ha l’impressione che coloro che scrivono sul tema, talvolta non abbiano in comune nemmeno i termini per definirlo.
Ma come nasce l’idea dello sviluppo sostenibile?
Il concetto di sostenibilità “proviene” – secondo Alessandro Lanza – dalla letteratura scientifica e naturalistica, nella quale si definisce sostenibile la gestione di una risorsa se, nota la sua capacità di riproduzione, non si eccede nel suo sfruttamento oltre un determinata (e, diciamo noi, determinabile) soglia.
Questo, per esempio, significa utilizzare il mare per pescare rispettando il ciclo naturale di riproduzione dei pesci.
Leggiamo ancora che il tema della sostenibilità è riferito in generale alle “risorse naturali rinnovabili” mentre le risorse che non hanno questa caratteristica, come le risorse minerarie, sono dei finte “esauribili”.
Conta poco il riferimento – fatto spesso negli anni ’90 – il rapporto tra consumo e riserve. nel ’72 per esempio, si stimavano a 300 milioni di tonnellate le riserve di rame. Mentre, nel 1980, esse sono state “riviste” a quota 500 milioni di tonnellate.
Tornando al tema, troviamo che l’espressione sviluppo sostenibile è diventata molto popolare sul finire degli anni ’80. Nel 1987 è stato pubblicato il suo testo-base, il Rapporto Brutland, elaborato nell’ambito delle Nazioni Unite.
Nel documento, noto come “Our Common Future”, viene data una definizione: “Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” ( ). Partendo da un dato di fatto: il 20% della popolazione mondiale, che vive nei Paesi industrializzati, consuma il 45% della carne, il 58% dell’energia, l’84% della carta. possiede il 74% di tutte le linee telefoniche e quasi il 90% di tutte le automobili.
E, si badi, nel corso degli ultimi tre secoli, la popolazione mondiale è cresciuta in modo enorme: “da circa 300 milioni nell’anno zero, l’umanità ha impiegato ben 1.700 anni per aumentare di 400 milioni, raggiungendo 730 milioni di abitanti nel 1750…”. Da allora, crescita rapida: dal miliardo (circa) del 1800, ai 6 miliardi alla fine del secolo scorso.
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( ) Cfr. anche: “Economia ambientale”, di Turner. Pearce e Bateman – “Il Mulino” – Bologna – 1996 pgg. 44-45
A partire dal 1804, anno in cui si è raggiunto il primo miliardo, sono stati necessari 123 anni perché si arrivasse (nel 1927) ai 2 miliardi; 33, perché si arrivasse a 3 miliardi (nel 1960); 14, per raggiungere i 4 (nel 1974); 13 per arrivare a 5 miliardi (nel 1987) e 12 per arrivare a 6 miliardi (nel 1999). in quell’anno (12 ottobre) le Nazioni Unite hanno celebrato “il giorno dei 6 miliardi”. Da allora la popolazione continua a crescere al ritmo di quasi 200 individui al minuto ed ha <<aggiunto>> oltre 600 milioni di abitanti “nel momento in cui scriviamo: luglio 2006”.
Si è verificato, anche, un “altro, importante cambiamento nella distribuzione della popolazione tra le varie aree geografiche del pianeta; dando luogo all’espressione “transizione demografica” ormai usata da tutti.
L’America Latina, l’Africa e l’Asia orientale hanno visto più che raddoppiare il loro peso negli ultimi 30 anni, mentre l’Europa, caratterizzata da una struttura per età sempre più vecchia, sta crescendo a un tasso sempre più piccolo (circa 10 volte meno dell’Africa). Un numero sempre maggiore di Paesi, che appartengono alle aree citate, cresce a tassi medi del 3% (il che implica un raddoppio della popolazione in poco più di 20 anni). L’equilibrio Nord/Sud è quindi destinato a modificarsi ancora in modo consistente: a ogni abitante del Nord del mondo corrispondevano 2 abitanti del Sud nel 1950, 3 nel 1960, 4 nel 2000, e si prevede ce ne saranno 5 nel 2025.

Pino Rauti