Un errore storico la guerra in Irak


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Riproduciamo testualmente da quanto scrive il corrispondente da New York del “Corriere della Sera”, Alexandra Farkas: “Tra l’ex dittatore iracheno Saddam Hussein e i terroristi di Al Qaeda non esiste alcun rapporto operativo. Non solo. L’ex Raìs non ha mai dato rifugio o chiuso un occhio sulle attività di Abu Musab al-Zarqawi, il leader di Al Qaeda in Iraq noto come il terrorista sanguinario che ha personalmente decapitato alcuni degli ostaggi occidentali rapiti, morto lo scorso 7 giugno in un attacco aereo americano.
Ad affermarlo non è il columnist liberal di qualche giornale, ma un nuovo rapporto della Commissione intelligence del Senato americano, che raccoglie due anni d’analisi sulle modalità con cui l’amministrazione Bush decise la guerra all’Iraq, smontando, questa volta in via definitiva, il castello accusatorio usato dalla Casa Bianca per giustificare l’intervento.
Il dossier di 400 pagine presentato a Washington è la seconda parte dello studio minuzioso sulla situazione antecedente la guerra. La prima parte, pubblicata nel giugno del 2004, mostrava gli errori di valutazione dell’intelligence americana circa la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq.
Saddam Hussein — si legge in una delle conclusioni del rapporto — non aveva alcuna fiducia in Al Qaeda e considerava gli estremisti islamici come minacce al suo stesso regime, rifiutando tutte le richieste di aiuto materiale e operativo pervenutegli da Al Qaeda». Il presidente Bush ha dichiarato più volte che Zarqawi era presente in Iraq prima dell’inizio della guerra, indicandolo come prova del legame tra Hussein e Al Qaeda. Ma in un passaggio del dossier si legge che lo stesso Hussein, dopo la sua cattura nel 2003, aveva dichiarato che «se avesse voluto cooperare con i nemici degli Stati Uniti, si sarebbe alleato con la Corea del Nord o con la Cina piuttosto che con Osama Bin Laden”.
Insomma, era tutto falso, tutto basato su “tentativi ingannevoli, fuorvianti e mistificatori” quello che ha affermato e sostenuto Bush su Saddam Hussein e l’Irak di allora; quello che ha portato ad una guerra atroce e dalla quale, adesso (neanche gli americani) nessuno sa come uscire.
E anche il 2° Rapporto senatoriale conferma per quanto noi abbiamo sempre scritto, al di là dell’imbecillismo liloamericano di certa Destra e anche di tanta Sinistra: Saddam Hussein era, tutto sommato, il male minore e soltanto il suo regime poteva contrastare o quanto meno bilanciare il peso e l’influenza dell’Iran, che infatti oggi la fa da protagonista.
Bush ha mentito e non solo si è grossolanamente sbagliato; perché – ricordiamolo – ancora di recente ha sostenuto l’esistenza “di un legame tra Saddam e Zarqawi”.
Ma, attenzione: il Rapporto è stato reso noto solo nelle sue «linee essenziali» e nei “contenuti di fondo”; il resto – e non si tratta certo di dettagli perché ci sono proprio lì le prove documentali – il resto verrà fatto conoscere soltanto “ dopo le elezioni di Midterm”, quelle di novembre “per non influenzare il voto”.
Ora, si può e si deve chiedere: quando mai un Capo di Stato si è trovato ad essere così sbugiardato e messo con le spalle al muro da documenti ufficiali, da “prove” fornite dalle stesse massime “ strutture” istituzionali del suo Paese?
E davvero c’è da aggiungere in quali mani siano finite le sorti del mondo; del “ loro” mondo!

P.R.




Tante le ragioni per “essere pessimisti”


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Non è vero – come anche a noi era capitato di scrivere – che la grande crisi americana è arrivata all’improvviso e che non ci sono stati sintomi premonitori né esperti che in qualche modo non avevano messo in guardia in materia.

Ci invita ad una seria riflessione in merito – utile per capire meglio come sono andate le cose – un saggio di Fareed Zakaria appena uscito negli Stati Uniti con il titolo “The Post-American World”.

Diciamo subito – d’accordo con Federico Rampini, che ha dato del libro, su “La Repubblica”, un’ampia e lucidissima analisi; e molto più di una qualsiasi recensione – che il volume induce a conclusioni pessimistiche  quanto alla gravità della crisi, visto che l’ 81 per cento degli americani è convinto che il loro paese è sulla strada sbagliata.

“Le ragioni per essere pessimisti, spiga Fareed Zakaria – che è direttore di “Newsweek International” – non sono solo la recessione, la crisi finanziaria e la guerra in Iraq. L’ ansietà degli americani deriva da qualcosa di più profondo: l’ impressione che delle forze importanti e dirompenti stanno cambiando il mondo. «In ogni settore dell’ economia, in ogni aspetto della vita, sembra che i modelli del passato vacillino. Gli americani sentono che un nuovo mondo sta per nascere, ma hanno paura che esso sia disegnato in paesi lontani e da popoli stranieri. Guardatevi attorno. Il più alto grattacielo del mondo è a Taipei. La società a più elevata capitalizzazione di Borsa è a Pechino. La più grande raffineria del mondo è in costruzione in India. Il più grande aereo da trasporto passeggeri è europeo. Il più grande fondo d’ investimento del pianeta è a Abu Dhabi. Il più grande centro di produzione cinematografica è Bollywood, non Hollywood. Nella classifica dei super-miliardari ci sono solo due americani tra i dieci uomini più ricchi del mondo. Queste classifiche sono arbitrarie e un po’ banali, ma fa effetto ricordare che dieci anni fa gli Stati Uniti le dominavano tutte. Questi sembrano aneddoti, ma riflettono uno spostamento sismico nel potere e negli atteggiamenti». Com’ è chiaro da questa introduzione, la sindrome del declino non è una nevrosi solo italiana. Perfino l’ America in questa fase condivide l’ incubo diffuso in certe fasce dell’ opinione pubblica italiana: il timore di essere tra i perdenti della globalizzazione. Il saggista americano ricostruisce il grande scenario economico che fa da sfondo alle nostre paure. «Nel 2006 e 2007 – ricorda Zakaria – 124 nazioni hanno avuto una crescita economica superiore al 4 per cento annuo. Negli ultimi due decenni i paesi che si trovano al di fuori dell’ Occidente industrializzato hanno avuto tassi di crescita un tempo impensabili. Antoine van Agtmael, il gestore di fondi che coniò l’ espressione «mercati emergenti», ha identificato 25 imprese che hanno la più forte probabilità di diventare le multinazionali leader nel mondo. La sua lista include quattro società per ciascuno di questi paesi: Brasile, Messico, Corea del Sud e Taiwan; tre imprese indiane; due cinesi; una ciascuna per Argentina Cile Malesia e Sudafrica. Quella in atto non è solo l’ ascesa della Cina e dell’ Asia: è l’ ascesa del resto del mondo. E’ il terzo grande spostamento di potere nella storia moderna. Il primo fu l’ ascesa dell’ Occidente, attorno al XV secolo. Il secondo, alla fine del XIX secolo, fu l’ ascesa degli Stati Uniti. Il terzo è l’ ascesa degli altri». Da questa rottura storica Zakaria non trae conclusioni pessimistiche, tutt’ altro. Si potrebbe dire che il suo libro, nel contesto del dibattito americano, è l’ anti-Tremonti. La speranza prevale nettamente sulla paura. Anzitutto perché Zakaria evita di cadere in una trappola: quella di chi rimane ipnotizzato dalle gerarchie, dal rango della propria nazione misurato rispetto agli sfidanti. «Il mondo post-americano turba gli americani ma non dovrebbe. Questo non sarà un mondo definito dal declino dell’ America bensì dall’ ascesa degli altri». E’ una verità elementare troppo spesso dimenticata da chi fa leva su emozioni viscerali: noi non diventiamo più poveri perché altri diventano più ricchi. Come ha sottolineato di recente il nuovo presidente della Banca Mondiale, Robert B. Zoellick, «l’ ascesa economica di Cina, India, Brasile ha rafforzato e riequilibrato l’ economia internazionale, creando nuovi poli di sviluppo». Il presidente della World Bank osserva che più di metà della crescita nella domanda globale di importazioni ormai proviene dai paesi emergenti: le nuove economie asiatiche e latinoamericane in forte crescita offrono sbocchi di mercato sia per gli altri paesi in via di sviluppo, sia per quelli già sviluppati”.

Ma il saggio di Zakaria affronta anche altre paure; lo choc tra il capitalismo liberale e quello dei paesi “illiberali” e i problemi complessi posti dalle superpotenze governate da regimi autoritari.

Pino Rauti




L’offerta politica è “inesistente”


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Si parla del PD, che si avvia al Congresso. Ne scrive, in un lungo editoriale sul “Corriere della Sera”, Angelo Panebianco, che vede la “malattia di quel partito” , appunto, nella scarsa credibilità della sua «offerta politica» complessiva”. C’è  “l’assenza di un insieme di idee e di proposte potenzialmente in grado di convincere una parte rilevante di quegli elettori che, fin qui, si sono tenuti alla larga dal Partito democratico…”.

Panebianco incalza con tante domande: “Come altro si può interpretare il fatto che il gruppo dirigente oggi non speri, per vincere di nuovo, nelle virtù e nelle capacità proprie ma unicamente negli incidenti di percorso altrui? Non è forse vero che, per tornare al governo, il Pd si affida solo alla speranza di una uscita di scena di Berlusconi e della disgregazione del centrodestra? Non è forse vero che esso ripone le proprie chances, anziché nella capacità di attrarre elettori, in quella di attrarre alleati? Puntare tutte le proprie carte, piuttosto che sulle possibilità di sfondamento nell’arena elettorale, sulle manovre nell’arena parlamentare, significa sostituire la tattica alla strategia, sperare che il tatticismo e le capacità manovriere possano sopperire ai ritardi culturali e alle inadeguatezze politiche.

Quando Massimo D’Alema dice che un partito del 27-30 per cento può andare al governo solo costruendo alleanze, rivela la sua sfiducia nelle possibilità di crescita autonoma del partito. Una sfiducia della quale è peraltro facile identificare l’origine: va cercata in una pagina di storia ormai chiusa, quella del partito comunista. Non critico D’Alema per questo: tutti noi siamo condizionati dalle nostre esperienze passate. Ma è un fatto che pensare che un partito del 30 per cento sia condannato a rimanere tale è un portato di quella esperienza. All’epoca del bipolarismo Usa/Urss il Partito comunista non aveva possibilità di espansione al di là di una certa soglia elettorale. Poteva accrescere la propria influenza politica e, eventualmente, entrare nell’area di governo, solo grazie alla sua capacità di costruire alleanze. È quello schema che, consapevolmente o meno, D’Alema oggi ripropone. Ma nel mondo attuale, senza più conventio ad excludendum, guerra fredda e partiti comunisti, quello schema dovrebbe essere buttato via…

Panebianco insiste nella sua tesi: “È nella proposta politica la vera debolezza del Pd. Ne deriva un circolo vizioso: la debolezza dell’offerta politica genera problemi di identità che alimentano la sfiducia, la quale a sua volta impedisce di agire creativamente per modificare l’offerta politica. Faccio solo l’esempio di un problema nel quale la debolezza, di visione e di proposte, del Pd è evidente: la questione dell’immigrazione. Si tratta di una questione decisiva. Nel XXI secolo è uno dei due o tre temi su cui ci si gioca, in Europa, il destino politico. I punti di criticità sono due: il problema dell’immigrazione clandestina e quello dell’immigrazione islamica. Sull’immigrazione clandestina il Pd balbetta. Affiorano qui i cascami di ammuffiti terzomondismi di origine comunista e cattolica. La sola cosa che il Pd sa fare è accusare di razzismo il governo. Ma davvero la politica detta dei respingimenti (in presenza di una colpevole latitanza dell’Unione Europea nel contrasto all’immigrazione clandestina) può essere così liquidata? Zapatero, il premier spagnolo, non risulta iscritto alla Lega Nord. Ma tratta con la massima durezza l’immigrazione clandestina. Non è forse nell’interesse dei Paesi europei mandare messaggi chiari alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani? E, ancora, davvero il reato di clandestinità (che esiste in tante democrazie) è una infamia? Che lo descriva così qualche vescovo poco interessato al fatto che l’Italia possieda dei confini (il reato di clandestinità è proprio questo: la dichiarazione secondo cui i confini dello Stato non sono una finzione o una barzelletta) è comprensibile, ma se lo fa un partito di opposizione esso si condanna a non diventare forza di governo. C’è poi la questione dell’immigrazione islamica. Bisognerebbe smetterla di gridare all’islamofobia tutte le volte che qualcuno ricorda che l’immigrazione islamica è quella che comporta le maggiori difficoltà di integrazione e, in prospettiva, i rischi più seri. Come dovrebbero insegnarci le imprudenti politiche della Gran Bretagna e dell’Olanda, «dialogo» e «accoglienza» non risolvono il problema. Perché non ci siano penosi risvegli fra qualche anno, occorre dettare condizioni chiare. Ma quelli del Pd, quando discutono di immigrazione, sembrano disinteressati al tema…”.

Insomma e in conclusione (è la conclusione nostra): dentro e attorno a sé il PD fa il deserto delle idee.

 

Pino Rauti




Triste “tramonto” per i matrimoni


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A chi volesse chiedere il “punto nodale” della vita sociale italiana del nostro tempo, consiglieremmo di guardare al «dato matrimonio»; e a tutto quello che sta avvenendo su questo versante.
Dire che il matrimonio è in crisi, è dire poco. Il matrimonio è al “tramonto”; si può dire che sta lentamente scomparendo.
Ancora una trentina d’anni fa, erano oltre 419.000; due anni fa erano calati a poco più di 250.000.
Non solo: ormai, quasi il 20% dei matrimoni, fallisce entro i primi 3 anni!
Ne scrive in modo assai documentato Anna Maria Sersale sul “Messaggero” e riprendiamo qualche stralcio del suo bell’articolo.
Ecco, in sintesi, come ci ritroviamo: Prima di arrivare al grande passo ci pensano a lungo, se il matrimonio va in pezzi ci riprovano, più consapevoli e maturi. I matrimoni sono in calo e durano sempre di meno, ma aumentano le seconde nozze, è questa la novità del Rapporto presentato dall’Istat. Gli italiani si sposano tardi: il primo «sì» per i maschi è a 33 anni, quello delle femmine a 30. Tuttavia l’età non è garanzia di durata (il 18,5% dei matrimoni va in pezzi entro 4 anni, la percentuale sale al 21,9% trai 5 ei 9 anni). Comunque in tanti, anche dopo dolorosi fallimenti, tornano alla carica e scelgono di risposarsi. I secondi matrimoni sono in aumento: 33.070 nel 2007 contro i 31.846 dell’anno precedente (il 13,2% del totale). Insomma, dopo la rottura, molti si rimettono in gioco con un nuovo partner. Hanno più chance di successo? «In genere sì, sostiene Maria Luisa Missiaggia, avvocato esperto di mediazione familiare Sono più maturi e fanno meno errori, comunque, risposarsi è una forma di fiducia nei confronti del futuro. Per esperienza professionale, posso dire che è sempre la donna che crede di più nel matrimonio. E’ poi sempre la donna, quando il rapporto è in crisi, a chiedere la separazione». «Si risposano? Senza leggi di tutela per le unioni di fatto molti preferiscono le, garanzie del matrimonio, ma c’è anche un’altra ragione, le nozze dal punto di vista affettivo sono più rassicuranti, sono una promessa di fedeltà», secondo Rita D’Amico, psicologa e ricercatrice del Cnr, autrice di libri sulle dinamiche della coppia, «i fallimenti lasciano un segno, ma non uccidono le nuove speranze». Quanto alle seconde unioni anche la D’Amico pensa che siano meno conflittuali: «C’è una maggiore oculatezza nel valutare l’altro, la precedente esperienza negativa spesso rende più chiare le idee, tanto che si parte da una iniziale “contrapposizione”, affermando non voglio un compagno così e così…».
Aumentati anche i matrimoni con rito civile, non hanno ancora sorpassato quelli celebrati in chiesa ma in 15 anni sono cresciuti del 50%: «Erano l su 5 nel 1995, sono diventati l su 3 nel 2007 – spiega Giancarlo Gualtìeri, uno dei ricercatori dell’Istat che ha condotto l’ìndagìne – Ora rappresentano il 34,6% del totale, l’ultimo confronto rivela che sì è passati dagli 83.628 del 2006 agli 86.639 del 2007». E le separazioni e i divorzi? «Sono l’altra faccia della medaglia – sottolinea Gualtieri – L’aumento delle seconde nozze è legato alla loro crescita». Che cosa determina la rottura di una unione? «La scoperta di una relazione extraconiugale del partner sostiene ancora Rita D’Amico – ma anche la minore tendenza all’adattamento, che la vita di coppia richiede, e la minore disposizione a rinunce personali».

Pino Rauti




Sciopero benzinai; se si fanno i conti...


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Leggiamo su “Avvenire”: Caro Direttore, sono solidale con i benzinai e condivido le ragioni di questo sciopero. Lo sono da quando ho scoperto che il gestore guadagna 4 centesimi per ogni litro di benzina venduto mentre le Società che gestiscono le autostrade se ne prendono ben 20. Uno sproposito se si pensa che le stesse Società ricevono una percentuale anche sulle consumazioni agli Autogrill: di questo passo tra non molto arriveranno anche a pretendere qualcosa sulle vincite dei biglietti della lotterIa che si vendono nelle aree di servizio. Cosa accadrebbe se le aree di servizio, per decisione degli stessi utenti rimanessero vuote? Un’ipotesi possibile visto che con le moderne vetture si possono anche fare 1.000km con un pieno. Sono convinta che basterebbero i 20 centesimi al litro sulla benzina per pagare i costi di manutenzione autostradali, senza bisogno di mettere pedaggi. In più, senza pedaggi ci sarebbe un maggiore utilizzo delle autostrade con minori incidenti sulla viabilità ordinaria. – Laura Poustis.
Leggiamo e ci chiediamo: ma quante persone sanno come stanno esattamente le cose? Quante sanno di quei 20 centesimi di euro?
Leggiamo e riflettiamo ancora: viviamo in una società, anzi addirittura in un epoca storica nella quale riteniamo che si sappia tutto su tutto; e invece, poi, giunti al dunque scopriamo di essere poco – e malissimo – informati anche su vicende che coinvolgono milioni di persone.

Pino Rauti




Gli affitti alti “uccidono” i negozi


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Riscontri in tutta Italia, non mancano, è soprattutto nelle città maggiori che il fenomeno è in atto e a Roma ci sono cifre precise; e quanto mai preoccupanti: perché “dietro” la chiusura dei negozi medi e ancor più di quelli piccoli, c’è – secondo noi – la spinta perversa ad un fenomeno tristissimo: quello della “desertificazione” degli spazi urbani. Dove emergono – come accade già, in tante città occidentali d’Europa – le cattedrali nel deserto che sono rappresentate dai supermercati; e poi intorno, c’è il vuoto. Di vita sociale, di vita comunitaria, spesso addirittura di movimento umano. Di domenica poi, quando il supermercato è chiuso, la città è “morta”.

Leggiamo su “Repubblica”, a firma di Alessandra Paolini, cosa accade a Roma:

Uno via l’altro, hanno tirato giù la saracinesca. E piazzato il cartello, “cedesi attività”, “vendesi locale”, “affittasi”. Duecentocinquanta negozi chiusi tra Montesacro e Talenti nel solo 2008, mangiati dal calo dei consumi, dagli affitti lievitati, dalla crisi che divora gli stipendi. Un primato amaro per il IV municipio che si ritrova in vetta alla classifica delle zone “colpite” da moria di esercizi commerciali. In tutta Roma, nell’anno passato, a dare forfait erano stati 1196 negozianti. Un quinto, dunque, solo in questa area

A Montesacro hanno spento le insegne e messo i lucchetti alle entrate anche esercizi indispensabili per il territorio come la Cartolibreria Volpi, crocevia da più di trent’anni di tutti gli studenti della zona con i suoi libri di testo di medie ed elementari negli scaffali e cataste di fogli protocollo pronti per i temi in classe. Chiusure che stanno cambiando il volto del quartiere. E che hanno gettato i commercianti nel panico. Assemblea pubblica al Teatro di via del Gran Paradiso organizzata dall’associazione “Kommercio”, nata nel 2008 da Claudia Pullara e presieduta da Massimiliano De Toma. Si parla della situazione «che ha comportato un aumento della disoccupazione – spiegano preoccupati dall’ associazione – ed uno sviluppo veloce di sacche di degrado e di illegalità proprio in quelle zone che più di altre hanno risentito della sparizione delle insegne luminose».

“L’economia reale siamo noi” è il titolo dell’ assemblea …

Viene intervistato De Toma, presidente dell’Associazione “Commercio”:

I negozi più in difficoltà « sono quelli di abbigliamento e calzature. Ma nel novero dei 250 negozi con la saracinesca abbassata ce ne sono di tutti i tipi: cartolerie, pubblici esercizi, alimentari». Parla Massimiliano De Toma, presidente dell’associazione Kommercio e titolare di un negozio di abiti accanto allo “Zio D’America” da quasi quarant’anni.

De Toma, la causa delle chiusure?

«Il calo dei consumi, la crisi che morde tutto e i canoni d’affitto troppo alti».

Come ci si rende conto che è inevitabile abbassare la saracinesca?

«Quando non ce la fai più a pagare gli stipendi ai dipendenti. Ma i negozianti sono tenaci. Hanno pudore. E spesso certi drammi li tengono tutti per loro. Così anche noi colleghi veniamo a sapere di chiusure a cose fatte».

Pino Rauti




Non si vive soltanto di PIL


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“Bisogna ripensare in senso ampio le nozioni di progresso e di benessere”.
E’ lucido e incisivo come sempre, Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998.
Lo intervistano per “Le Monde” e l’intervista viene ripresa in Italia da “La Stampa”. Gregoire Albix e Laurence Caranvel, che rivolgono le loro domande – leggiamo – a un uomo che, anche prima della crisi economica, “faceva parte di quegli economisti che difendevano il ruolo dello Stato, contro la moda liberista.
“La crisi – risponde il Premio Nobel offre certamente l’occasione di rivedere i nostri modelli di sviluppo … e spero proprio che non si ritorni al “business as usual” una volta che il peggio sarà passato… Per decenni, negli Stati Uniti, le regole erano state demolite da un’Amministrazione dopo l’altra…, certo, il successo dell’economia liberale è sempre dipeso dal dinamismo del mercato, ma anche dai meccanismi di regolazione e di controllo, per evitare che la speculazione e la ricerca del profitto portassero a correre troppi rischi. E l’intervista continua: È solo un problema di regola mentazione, o bisogna ripensare in senso più ampio le nozioni di progresso e di benessere?
«Sì, bisogna ripensarle. Benessere e regolamentazione sono questioni collegate. Se si crede che il mercato non abbia bisogno di controllo, perché la gente farà automaticamente le scelte giuste, non ci si pone neppure il problema. Se invece ci si preoccupa del benessere e della libertà, bisogna organizzare l’economia in modo tale che queste due cose siano realmente possibili. Allora le domande sono: quali regolamentazioni vogliamo? Fino a quale punto? Ecco le questioni importanti che devono essere discusse collettivamente». Bisogna elaborare altri indicatori della crescita economica, a parte il prodotto interno lordo?
«È assolutamente necessario. L’indicatore del Pil è molto limitato. Utilizzato da solo, è un disastro. Gli indici della produzione o del commercio non dicono granché sulla libertà e sul benessere, che dipendono dall’organizzazione della società. Né l’economia di mercato né la società, sono processi che si autoregolano. Hanno bisogno dell’intervento razionale dell’essere umano.
L’indice di sviluppo umano Idh può essere uno dei nuovi indicatori?
«L’Idh è stato concepito per i Paesi in via di sviluppo. Permette raffronti fra la Cina, l’India, Cuba … , ma dà anche risultati interessanti riguardo agli Stati Uniti, e in genere per quei Paesi che non hanno assicurazione sanitaria universale e che sono contrassegnati da grandi disuguaglianze sociali. Ma abbiamo bisogno anche di altri indicatori per l’Europa e l’America del Nord, pur sapendo che non saranno mai indicatori perfetti». Quando lei ha concepito l’ldh, la crisi ambientale non era ancora stata percepita in tutta la sua gravità. Tenendo conto di questo nuovo aspetto, lei modificherebbe la sua visione della lotta alla povertà?
«Il declino della qualità dell’ambiente incide sulle nostre vite. Lo fa in modo immediato, nel nostro quotidiano, ma anche riducendo le possibilità di sviluppo a lungo termine. L’impatto del cambiamento climatico è più pesante sulle società dei Paesi più poveri. Prendere ad esempio l’inquinamento urbano: quelli che lo subiscono di più sono coloro che vivono in strada. La maggior parte degli indicatori della povertà o della qualità della vita dipendono anche dalle condizioni ambientali. Ecco perché è importante che le questioni della povertà e della disuguaglianza siano tenute in considerazione nei negoziati internazionali sul clima» …”.

(U.G.)




USA in Normandia e negri discriminati


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La celebrazione dello sbarco del 1944 in Normandia – alla presenza di Obama – ha fatto “riemergere” alle cronache, le vicende dei soldati neri USA, in un’epoca nella quale la segregazione era la regola, negli Stati Uniti.
Anzitutto, qualche cifra.
Fra i primi a sbarcare, i 320° battaglione di sbarramento antiaereo. “Tutti neri, qualche ufficiale bianco, appena”.
Leggiamo sul “Sole 24 Ore” nel servizio dell’inviato speciale a Caen, Leonardo Martinelli:
Sui 29.714 americani che misero piede a “Obama beach”, 500 erano neri. E ve ne erano 1.200 sui 31.912 che sbarcarono ad “Hutah beach”. Al porto di Cherboring, in poche settimane si ritrovarono ad operare 30.000 soldati neri.
In gran parte dei casi assicuravano i servizi di logistica», sottolinea Stéphane Lamache, storico. «Scaricavano le merci dalle navi guidavano i camion, facevano addirittura i becchini: emarginati, ma il loro ruolo fu determinante». Alice Mills non è storica, ma specialista di letteratura afro-americana; è docente alla Università di Caen: “Partecipai alle commemorazioni de12004 – racconta – a 60 anni dallo sbarco. I neri non comparivano mai nelle foto o nei documenti esposti. Né venivano citati negli studi pubblicati qui in Francia, a parte quando si trattava degli abusi commessi dalle truppe americane in Normandia». Decise di dare il via a una battaglia personale, inchieste che l’hanno portata negli ospizi della zona a intervistare gli anziani che vissero quei momenti e poi addirittura negli Stati Uniti. Dopo di lei, altre ricerche sono iniziate, soprattutto con l’avvento di Obama.
Come vissero i neri lo sbarco?
Due decreti di Roosevelt, del 1940 e del ’41, avevano proibito la discriminazione all’interno dell’esercito. E, alla vigilia dell’operazione Overlord, nome in codice dello sbarco, Eisenhower fu chiaro: «Nelle truppe neri e bianchi si esercitino insieme, lavorino insieme e vivano insieme». «Ma l’esercito – precisa Lamache – non era pronto a questo: prevalsero l’ipocrisia e la segregazione. Neri e bianchi dormivano e mangiavano separati. Perfino le sacche di sangue per le trasfusioni, non erano le stesse».
«La situazione – aggiunge la Mills – migliorò man mano che gli Alleati avanzarono verso. Parigi. Condividevano momenti forti: si mescolarono sempre di più». Per numerosi soldati di colore quell’ esperienza rappresentò uno stimolo a rivendicare con più forzai propri diritti, una volta rientrati a casa. Quanto alle popolazioni locali francesi, «non facevano differenza fra neri e bianchi: per loro erano tutti dei liberatori – sottolinea la Mills – Tanti anziani mi hanno confermato la stessa cosa: per noi i nemici erano i tedeschi». È vero, però, che di gran parte degli stupri e dei crimini commessi dalle truppe, furono riconosciuti responsabili proprio dei neri (1’85% del totale, secondo un documento dell’esercito Usa del novembre 1944). «Certi eccessi erano forse dovuti al fatto che molti soldati neri continuavano a guardare al conflitto come a una guerra tra bianchi: non era la loro. Si sentivano esclusi dai momenti più importanti. Prevaleva la depressione»; precisa Lamache. Secondo la Mills, invece, «è al razzismo nell’ esercito che si deve il ruolo attribuito ai neri negli atti di delinquenza. I soldati bevevano, la sera soprattutto. Neri e bianchi. Ma poi, se succedeva qualcosa, non tutti erano puniti allo stesso modo».



Solo poche aziende prevedono assunzioni


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C’è un’indagine di Unioncamere alla quale ci si può rifare – come sottolinea, in un articolo ottimamente documentato, su “Repubblica”, Luisa Grion:
“Per quest’anno, fiammella in fondo al tunnel o meno, solo il 20 per cento delle aziende prevede di fare qualche assunzione. L’altro 80 starà alla finestra per vedere se la ripresa davvero arriverà o – peggio ancora – aspetterà soffrendo, non rinnoverà i contratti in scadenza e ridurrà la forza lavoro. Alla fine dell’anno, quindi, secondo quanto dichiarano le stesse aziende, si saranno persi altri 220 mila posti di lavoro (circa il 2 per cento sul totale).
Un colpo più duro per il settore manifatturiero (meno 2,5 per cento) che per i servizi (meno 1,4), che colpisce più le regioni del Sud rispetto a quelle del Nord e che vede come “vittime predestinate” le piccole imprese, quelle dove gli ammortizzatori sociali sono minimi e dove, dunque, il lavoro negato ha un impatto immediatamente devastante sulle condizioni di vita della famiglia.
Quando l’azienda è di ridotte dimensioni, spiega infatti lo studio Unioncamere, “è più difficile e oneroso mantenere inalterata, e quindi in parte sotto-utilizzata, la capacità produttiva in attesa che cresca di nuovo la domanda”. Di fatto, rispetto alle previsioni occupazionali, il pessimismo riguarda soprattutto le aziende artigiane e quelle con meno di dieci dipendenti.
Insomma, se l’area metropolitana più legata alle grandi aziende e ai servizi può in qualche modo pensare di difendersi aspettando tempi migliori e conservando le forze necessarie a ripartire, per la “ditta” (indotto o distretto industriale in primis) cavarsela sarà più difficile. La cartina geografica è in questo senso spietata: le cose vanno decisamente meno peggio nelle province del Nord rispetto a quelle del Centro. E il Mezzogiorno sta peggio di tutti. Le grandi aree dell’industria nazionale assorbono meglio il colpo e, come sempre avviene in stato di crisi, i più fragili pagano lo scotto maggiore. A perdere il lavoro saranno per primi i precari, cui basta non rinnovare i contratti ( le previsioni sul 2009 fissano un dimezzamento delle assunzioni a tempo determinato) e le donne. Risulta più a rischio il personale non qualificato che i quadri o i dirigenti…”. – conclude Luisa Grion – “Detto questo, la durezza della partita non si misura solo sui licenziamenti, ma anche sulla cassa integrazione che – pur garantendo un reddito al dipendente – ne dimezza di fatto il potere d’acquisto. Anche qui i dati confermano le preoccupazione della Cei: nei primi quattro mesi dell’anno, ha sottolineato nei giorni scorsi Confindustria, il ricorso a questa forma di sostegno è balzato ai livelli del 1993. E ad aprile, conferma l’Inps, c’è stato un boom: rispetto allo stesso mese del 2008 le ore la cassa integrazione ordinaria, ha registrato un balzo dell’864,2 per cento.”.

(U.G.)




Vescovi: i licenziati “non sono zavorra”


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Ci volevano i Vescovi della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) a ricordare che un licenziato è un uomo, una “persona”; e che non si tratta – come vorrebbe il liberalcapitalismo, aggiungiamo noi – di “zavorra sociale”. Questi, i termini del Cardinal Bagnasco, che ha auspicato – con insolita durezza di termini – “maggiori tutele” per i lavoratori.
Ecco le parole precise; tanto per rifletterci su specie in quella Destra che ancora si definisce, talvolta, “sociale” ma che ormai si è arresa al liberalcapitalismo. Dice Bagnasco, all’apertura dei lavori dell’Assemblea generale della CEI:

«Troppo spesso, nell´attuale difficile congiuntura economica, i lavoratori sono stati scaricati come fossero un inutile zavorra, una qualunque merce di scambio sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta. Non è accettabile una concezione meramente mercantile del lavoro umano».
La Cei ha anche ricordato che nonostante le previsioni rassicuranti «siamo ancora nel tunnel della crisi»: lo conferma l ´Ocse, l´organizzazione che riunisce le economie più sviluppate del globo, secondo la quale il Pil dell´area si è ridotto del 2,1% nel primo trimestre 09. «È la maggiore flessione dal 1960, quando sono iniziate le rilevazioni» sottolineano gli economisti Ocse. Anche il trimestre precedente si era chiuso con una contrazione del 2% del trimestre precedente. Su base annuale l´economia dei paesi Ocse accusa un crollo del 4,2%. Gli Stati Uniti contribuiscono alla contrazione con uno -0,9%, il Giappone aggiunge un altro -1%, l´area euro -1,3% e gli altri paesi Ocse il -1%.