Tanti Fatti nuovi “corrono all’impazzata”


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Tutti i giornali ne scrivono ampiamente con preoccupazione crescente, così come “crescono”, aumentano i fatti di cronaca in merito.
Fatti che “corrono all’impazzata”, come scrive in un ampio articolo sul “Messaggero”, Giovanni Bollea; corrono “uno dietro all’altro, in una crescita incontrollabile ed estemporanea…” e “nessuno sa come arginarli”.
Il giornalista chiede “azioni forti e trainanti” ma subito dopo sottolinea che questo dovrebbe avvenire a cura di organizzazioni giovanili, “oggi inesistenti”; e che “scuola e comunità nel loro complesso non fanno nulla per prevenire quel picco di delinquenza dell’adolescenza che ormai sta dilagando”.
In realtà, si deve constatare che esiste un grave “Vuoto giuridico”; perché la legge richiede che i ragazzi più giovani non vengano denunciati “mentre sarebbe utile che venissero segnalati al primo reato…”.
Ancora; in realtà è che ci troviamo di fronte “ad una crisi mondiale, una crisi di civiltà e uno di quei cambiamenti secolari e socioculturali…”.
Ci sono anche “cambiamenti biologici” perché in quell’età “è proprio il cervello che subisce la sua fase evolutiva finale…”.
Per esempio, e tanto per cominciare a passare al concreto: “…il test antidroga deve essere obbligatorio ed eseguito all’improvviso senza segnali di preavviso. La scuola non deve essere mai più una zona franca per lo spaccio…”.
Bisogna ricordare che “la delinquenza minorile e la devianza vanno viste come tali osservate e curate…”.
Insomma – e questa è la nostra conclusione – mentre tanti fatti sociali “corrono all’impazzata” e ce ne sono, tra di essi, anche “fatti” che sono del tutto ignoti alle generazioni precedenti, le leggi dei politici arrancano stancamente, fanno emergere “vuoti” sempre più grandi e preoccupanti. E questo vale sia a Sinistra che nel centro-destra; dove ai valori e ai principi si guarda sempre meno, diremmo sempre più distrattamente, per inseguire gli scenari rutilanti della politica spettacolo.




“Crack Madoff”, Scandalo più grande: tutti hanno chiuso gli occhi


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Più passano le settimane, più si apprendono notizie, più il “crack Madoff” fa paura. Il presidente e gestore imbroglione Bernie Madoff ha “bruciato” 50 miliardi di dollari, cosa mai avvenuta prima nella storia finanziaria e commerciale del mondo. Una sbalorditiva “catena di Sant’ Antonio”dove quelli che entravano per primi, guadagnavano tassi-civetta che funzionavano da esca per quelli che venivano dopo. E non solo singole persone ma società e Banche di gran nome; come, negli Stati Uniti. La “Fairfield”, che si ritrova esposta per 7.500 miliardi e il Banco Santander, spagnolo, con 3.150 miliardi di dollari. Due banche francesi (la Natixis e la BNP – Paribas) totalizzano 1.080 miliardi e l’italiana Unicredit, 380 (di cui 82 sui clienti).

Eppure, c’erano sospetti da anni; già nel 1999, per esempio, il greco Kerry Markopoulos si era rivolto alla SEC (l’organo di vigilanza della Borsa americana) dando un primo allarme. Ma non successe niente; e i maggiori colossi bancari di tutto il mondo si comportarono (guadagnandoci sopra con i loro dirigenti più spericolati) come piccoli risparmiatori sprovveduti. Scrive Federico Rampini – come sempre documentatissimo – su “Repubblica”, “che la lista include il Gotha del capitalismo globale, dal colosso bancario giapponese Nomura alla Royal Bank of Scotland, da Santander ad alcuni fondi esteri Pioneer del gruppo Unicredito. Più il fior fiore degli hedge fund di Wall Street, l’alta società newyorchese, proprietari di squadre di baseball, celebri redditieri che Maloff frequentava in un esclusivo club di golf. Anche Steven Spielberg o il Nobel per la pace, Elie Wiesel, scrittore romeno sopravvissuto all’olocausto. E’ l’antica lezione del 1929, che John Kennedy Galbraith racconta ne “Il grande crollo”: l’euforia delle bolle speculative rende stupidi anche gli straricchi, i presunti guru dei mercati.L’inverosimile “affaire Maloff” forse un giorno ispirerà un altro Galbraith, diventerà il simbolo estremo di un’era in cui tutti hanno perso la bussola, ogni regola è stata stravolta, i controlli sono saltati. Da questa storia grottesca non si salva nessuno. I segugi della Sec nel 1999 chiusero le loro indagini rapidamente: tutto regolare. Nel 2001 un’altra ondata di sospetti su Maloff fu sollevata dalla stampa americana. Inutile. Lui continuava la sua ascesa, culminata con la nomina alla presidenza del Nasdaq.

Forse non lo avrebbero mai scoperto. La ricostruzione dell’Fbi lascia esterrefatti: Madoff non è stato smascherato, si è autodenunciato. Ha fatto tutto da solo. Arrivato a fine corsa ha chiamato i due figli – apparentemente estranei all’azienda paterna e anche loro derubati dei risparmi – e ha detto semplicemente: «Il mio business è uno schema Ponzi» . Proprio come negli anni ruggenti che precedettero la Grande Depressione. Negli anni Venti l’italoamericano Charles Ponzi rovinò 40.000 risparmiatori con un sistema tipo catena di Sant’Antonio o “piramidi albanesi”. Una tipica truffa che garantisce forti guadagni finchè affluiscono nuovi investitori, i cui fondi servono a pagare le prime vittime mantenendo l’illusione. Ponzi nel 1920 venne condannato a cinque anni di galera, ma appena uscito si avventurò in quell’altra fantastica bolla speculativa che fu la corsa ai terreni della Florida: la prova generale dei crac del 1929. Tempo di corruzione ad ogni livello. Leggiamo della Siemens. Il colosso elettronico tedesco pagherà una multa record da 800 milioni di dollari negli Usa, per chiudere uno scandalo legato al versamento di tangenti. Lo rivela il Wall Street Journal, secondo il quale la Siemens pagherà 450 milioni di dollari al dipartimento di Giustizia e altri 350 alla Sec (l’authority di Borsa). Si tratta di una cifra 20 volte superiore alla più alta multa mai pagata in base alla legge Usa sulle sanzioni alle compagnie straniere. La Siemens è da tempo coinvolta in una massiccia frode fiscale e in un giro di corruzione internazionale: i manager del gruppo hanno infatti ammesso di aver speso illegalmente 1,3 miliardi di euro per vincere commesse estere. Secondo gli inquirenti, sono circa 300 i dipendenti compromessi. Lo scandalo ha portato alle dimissioni di alcuni dirigenti di alto livello, tra cui il direttore generale Klaus Kleinfel e il suo predecessore e presidente Heinrich von Piere. La Siemens ha già messo da parte un miliardo di euro per pagare i danni dello scandalo.




Cambiano – e in peggio – le cose in medio oriente


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Israeliani a Gaza…I titoli dei giornali e i servizi sulle TV danno tutti l’impressione che si tratti dell’ennesimo atto del solito conflitto; in corso da decenni. E invece ci sono novità radicali, sulla situazione; che è ormai cambiata; sta cambiando; in peggio. Fa riflettere, in merito, un lungo e lucido editoriale di Angelo Panebianco, sul “Corriere della Sera”, che vorremmo riprodurre per intero se lo spazio ce lo consentisse; e che in sintesi è un argomentato “appello” a non leggere il conflitto di oggi “alla luce degli schemi mentali di ieri”, che furono posti per decenni “con gli schemi della guerra fredda”: un conflitto che faceva parte “pur con le sue peculiarità, del confronto politico e militare fra mondo occidentale e mondo sovietico…”, dove Israele “era un avanposto dell’imperialismo americano…”. Alla “leggera” “l’attuale scontro a Gaza – prosegue Angelo Panebianco – con le categorie del passato” avviene “al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un “cambiamento qualitativo del conflitto israeliano palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere”. C’è in primo luogo l’irruzione della religione, e più precisamente dell’islam politico, nel conflitto. Certo, il conflitto israeliano-palestinese continua ad essere anche ciò che è sempre stato: uno scontro tra due popoli per il dominio territoriale. Ma da tempo non è più soltanto questo. Il rafforzamento di movimenti come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano ha cambiato radicalmente il quadro. Come il fatto che quei movimenti siano interni a una galassia islamista che, in ogni angolo del mondo, si riconosce nelle stesse parole d’ordine e afferma la propria identità contro gli stessi nemici (i musulmani moderati, l’Occidente corrotto e materialista, l’entità sionista, gli infedeli, a qualunque credo appartengano).«Non si può dunque pensare a soluzioni del conflitto nei vecchi modi».«Pace contro territori» è un compromesso realistico (anche se, ovviamente, difficile da imporre agli estremisti delle due parti) se i principali attori in gioco hanno scopi esclusivamente politici. Ma diventa assai più arduo se per una delle parti in gioco (nel caso specifico, Hamas e, dietro Hamas, l’intera galassia dell’estremismo islamico mondiale) rinunciare alla distruzione di Israele significherebbe violare un tabù religioso, peccare di blasfemia. Il secondo fatto nuovo, che cambia la natura del conflitto, è dato dallo scontro per l’egemonia fra l’Islam sciita guidato dall’Iran e quello sunnita. Non è un caso che, nella vicenda di Gaza, i governi arabi sunniti si siano fin qui mossi con prudenza. Nella speranza, non dichiarata, che Israele riesca a ridimensionare Hamas (gruppo sunnita ma legato all’Iran). E non è un caso, come mostra l’assenza di sommovimenti anti-israeliani in Cisgiordania, che anche Fatah, il movimento oggi guidato da Abu Mazen, speri nel ridimensionamento degli odiati «nemici-fratelli» di Hamas. Nulla di tutto ciò si spiegherebbe se i due fatti citati (l’irruzione dell’islam politico e il ruolo dell’Iran) non avessero cambiato i termini del conflitto…Ma la rimozione incombe. «Sorprende ad esempio, scorrere un recente intervento sul conflitto a Gaza, apparso su Repubblica, dell’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema, uomo informato dei fatti, e constatare che né la parola Iran né la parola jihad vi trovino posto. E’ come se per D’Alema nulla di sostanziale fosse cambiato nel corso degli anni: quello israeliano-palestinese viene ancora interpretato come uno scontro fra uno Stato e un movimento irredentista, un conflitto, vecchio di mezzo secolo, per il dominio territoriale in Palestina. Se non che, il conflitto israeliano-palestinese è questo ma non è più soltanto questo…».




Applausi ai soldati la gente è più sicura


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Superiore ad ogni previsione l’accoglienza della gente ai soldati che sono stati “dislocati” sul territorio. Ovunque, sono stati salutati con affetto, spesso con applausi, come in qualche stazione della metropolitana a Roma. La gente ha detto: “ora restate qui”, e anche: “magari ce ne fossero di più”.Definitivamente rimbecilliti, quelli della sinistra radicale e ultrà – che continuano a suicidarsi politicamente ad ogni occasione di rilievo – che hanno lanciato lo slogan: liberiamo la città dai soldati! Chiediamo: ma si può essere più cretini di così? Come si fa a non capire che più divise si vedono in giro, più si vedono ragazzi in divisa e bene armati e meno la gente si sente insicura; e che più grati ne sono le cosiddette “fasce deboli” della popolazione: gli anziani, le donne, i bambini.C’è, in questo inconsulto atteggiamento della sinistra radicale, una ignoranza abissale di “cose” e di stati d’animo, che invece sono evidentissimi per la gente normale; e che tali sono sin da quando l’uomo si è costituito in società e ha cercato un suo “vivere” civile.

Perfino il sinistrorso “Messaggero” che spara a zero su tutto ciò che fa il governo Berlusconi, ha dovuto prenderne atto. Scrive, fra l’altro: “Sono scesi al volo dalle jeep. Addestrati, abbronzati, il basco, la camicia grigio-verde, gli anfibi e le mostrine conquistate nelle ultime missioni…”Ecco: anche questa è una “missione”; è una operazione; ed è anzi particolarmente difficile perchè va a calarsi in realtà di grande degrado, diventate tali per anni di incuria e di colpevole “buonismo” della sinistra, come è facilmente riscontrabile nella Roma dei Rutelli e Veltroni.Leggiamo ancora, nel sinistrorso “Messaggero”: … “e i romani non sembrano sorpresi, anzi sono contenti di questo esercito armato che si posiziona in zona di pace : “Bravi, fate bene. La sera noi abbiamo paura, il sabato e la domenica poi non ne parliamo…” “Adesso capiranno cos’è stata per noi la vita in questi ultimi anni”, si sfoga un vigile urbano in servizio all’Anagnina. E’ il capolinea dei bus diretti all’Anagnina ma anche il capolinea della sopportazione. Tra ubriachi che oscillano a zig-zag in pieno giorno e sbandati che alzano una grata e se ne vanno a dormire nelle condotte come topi, non è un bel vedere. E ci sono anche i topi veri, quelli che a partire da una certa ora, con grande naturalezza, percorrono le pensiline come viaggiatori in transito.

Bagni fuori uso, sale d’attesa chiuse da sempre, videocamere che da anni hanno smesso di comunicare l’immagine alla sala operativa… “La sera spuntano coltelli” – spiega un altro agente – “e noi siamo in due per ogni turno, siamo soli e disarmati”. I giornali – anche quelli di sinistra – debbono prendere atto dei primi risultati; il primo ad essere arrestato, in flagranza, all’ Anagnina, è uno scippatore romeno minorenne: “ha dato cinque nominativi diversi” – si viene a sapere dopo qualche minuto… “Ma la sera, ora, fa già meno paura…”




“A Roma poteri speciali come Londra e Parigi”


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Walter Veltroni ha rilanciato tempo fa la richiesta di “poteri speciali” per Roma Capitale. E ha fatto, secondo noi, benissimo perchè, indipendentemente dall’uso che ne verrà fatto (e Dio sa quali e quanti dubbi noi si nutrano al riguardo) quei “poteri” sono qualcosa la cui assenza definiamo non da oggi una vergogna. Forse Veltroni non lo sa, ma l’idea di attribuire a Roma un “rango legislativo” speciale è nostra, diciamo da sempre. Ed anzi abbiamo sempre pensato che per essere veramente tali, Roma non dovrebbe avere al suo vertice un Comune – come abbiamo chiesto quando abbiamo partecipato alle Amministrative – ma essere gestita come “governatorato”. E sempre abbiamo fatto notare che molte altre capitali, da Londra a Parigi a Berlino, avevano ruoli giuridici di grande rilievo e incidenza operativa, rispetto ai normali Comuni dei rispettivi Paesi.

Leggiamo nel “Corriere della Sera”, come stanno adesso le cose; a firma di Paolo Foschi. La richiesta di Veltroni venne avanzata davanti alle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato riunite in seduta comune. «E’ necessario modernizzare, velocizzare e rendere stabile la decisione politica. I troppi passaggi infatti diventano uno strumento per chi vuole esercitare poteri di condizionamento. Roma deve avere un ambito di poteri in determinate materie, attraverso una legge ordinaria», ha detto il sindaco nel corso di un’audizione, precisando che – a suo avviso – non è necessaria alcuna modifica della Costituzione.

Insomma, secondo il Campidoglio l’iter può e deve essere rapido. Una linea condivisa da Vannino Chiti, ministro per i Rapporti col Parlamento: «Veltroni ha chiesto per Roma non competenze legislative, che richiederebbero una legge costituzionale, ma competenze amministrative, rafforzate e regolamentari. E’ un impegno che si può attuare. C’è la nostra volontà di andare avanti», ha commentato l’esponente del Governo.

I nuovi poteri sono però urgenti, secondo l’amministrazione capitolina. «Roma assomma in sé due funzioni – ha detto Veltroni ai parlamentari – , quella di area metropolitana e quella di capitale. E questo la distingue dalle altre aree metropolitane. E’ sede della cristianità, ospita tre ambasciate per ogni paese, è attraversata ogni anno da centinaia di manifestazioni che richiedono un impegno straordinario e risorse ingenti per i servizi. E potrei citare tanti altri esempi» .Il sindaco ha poi illustrato i numeri del fenomeno-Roma: la città «ha una superficie di 1.290 chilometri quadrati, è grande come 8 città italiane, è in termini di popolazione la terza capitale europea dopo Londra e Parigi. Produce la stessa ricchezza di un paese come l’Ungheria: ma deve essere amministrata con gli stessi poteri di un Comune di 800 abitanti. Una città come questa ha bisogno di altro. Dobbiamo avere gli stessi poteri di Capitale europee come Londra, Parigi, Madrid o Berlino».

Dopo aver punzecchiato il leghista Roberto Calderoli («mi spiace che sia costretto ad ascoltarmi»), Veltroni ha ricordato la penalizzazione di Roma in termini finanziari rispetto alle altre città: «Riceviamo dallo Stato 294 euro pro-capitale all’anno rispetto alla media nazionale di 357 euro. Le ultime leggi finanziarie hanno portato zero contributi per la Capitale» . Nonostante questo, l’economia romana corre: «Il Pil dello scorso anno – ha detto Veltroni – si è attestato al 4,2% contro il 2,4% del Paese e quest’anno segna lo 0,6% contro lo 0 della media italiana. Ma tutto ciò che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto da soli. Esiste dunque un problema di poteri. Vogliamo poteri speciali, senza invadere altri campi istituzionali».




Per smog e città malati a milioni


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Una volta, c’erano le broncopolmoniti. Adesso c’è la “BACO” la temibile “broncopneumopatia cronica ostruttiva”. Dai terribili “costi” sociali: le morto (13.000 bambini l’anno nei primi 4 anni di vita) e per i danni sociali generale prodotti, che vengono stimati in 100 miliardi di euro l’anno solo in Europa.

Solo il 25% dei colpiti, è diagnosticato ma per essi complicazioni a non finire: arrivano la disabilità e la bombola d’ossigeno. Portatile o fissa. Nonostante l’allarme dell’OMS- dicono Andrea Rossi (Bergamo) e Giuseppe Di Maria (Catania), specialisti ad un “vertice romano” sulla COPD (la BPCO, in inglese- non esistono piani sanitari di prevenzione”.

I numeri sono impressionanti, secondo quanto ne scrive Mario Pappagallo, con ampiezza di dettagli e di confronti sul “Corriere della Sera”. Più di 600 milioni di persone nel mondo sono affette da Bpco: il 4-6 per cento della po polazione. n 4,5 in Italia, che sale al 10 per cento conside rando i soli adulti: 2,6 milioni i malati, 18 mila i morti ogni anno. Quattro milioni nel mondo. Secondo l’Oms, la Bpco sarà la terza causa di morte nel 2020, con 20-30 milioni di vittime, il fumo presenta il conto e non solo per cancro. Nonostante l’allarme, il 75% dei pazienti con Bpco non è diagnosticato. In Italia, inoltre, si contano ogni anno circa 130.000 ricoveri ospedalieri con una degenza media di cir ca 10 giorni e le persone in ossigenoterapia indotta da Bcpo, sono circa 30.000. Costi incredibili. L’analisi è di Roberto del Negro, pneumologo della asl 22 del Veneto. Qualche conto, calcolatrice alla mano; 9 miliardi di euro all’anno.

Niente male in tempi da economia con il «fiato corto». A proposito di «fiato corto», sul tavolo c’è anche l’asma Secondo l’Oms, tra 100 e 150 milioni di persone nel mondo ne soffrono e 180.000 ne muoiono ogni anno. L’asma colpisce in Italia circa 3 milioni di persone ed è responsabile di più di mille decessi all’anno. Il costo medio annuo per paziente supera gli 800 Euro. La malattia è in aumento, anche a livello mondiale, soprattutto nei bambini e nei giovani. L’incidenza dell’asma infantile in Italia è del 9,5% nei bambini e del 10,4% negli adolescenti. Critico Francesco Forestiere, epidemiologo dell’Asl Roma E: «Un bambino italiano su 10 soffre d’asma bronchiale ed un adulto su 10 soffre di broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco). Che si fa per ridurre questi numeri?». E che si fa anche dopo, quando il male c’è? L’Associazione italiana pazienti con Bpco (una Onlus) da anni si batte per il riconoscimento dell’impatto sociale della Bpco. «Siamo ancora in attesa che il ministero del Welfare la riconosca come malattia cronica e invalidante, cosa che consentirebbe la gratuità di alcune prestazioni essenziali per il controllo della malattia», protesta la presidentessa Mariadelaide Franchi. Fumo e smog, cocktail micidiale.

Ogni anno muoiono nel mondo 60 milioni di persone, la maggior parte (35 milioni) a causa di malattie croniche complesse a carico dell’apparato cardiovascolare e respiratorio, tumori, e malattie metaboliche. Queste malattie, che si sviluppano soprattutto in età avanzata, sono tutte prevenibili. Bpco in testa. Dice Giorgio Walter Canonica, specialista in quel di Genova: «L’Oms ha lanciato un programma mondiale per combattere queste malattie, che include l’urgenza di ridefinirne diagnosi, valutazione di gravita e tattamento.

Nuovi studi hanno indicato la nuova strategia per mitigare i sintomi dei pazienti affetti da Bpco, e malattie croni-che concomitanti, e aumentare l’attesa di vita. Utilizzando farmaci già in commercio, come il tiotropio e varie combinazioni di broncodilatatori e steroidi inalatori. «Il dato sulla riduzione della mortalità ci fa riflettere — dichiara Pier-luigi Paggiaro, università di Pisa, coordinatore per l’Italia dei 30 (entri che hanno partecipato a uno degli studi (Upli-fit) — e apre prospettive importanti per i malati di Bpco». «Nuove speranze anche per gli asmatici — aggiunge Fabbri —. Si chiamano anticorpi monoclonali e hanno dimostrato una potenziale efficacia nell’asma grave, oggi non solo inguaribile ma anche non curabile….”




Il cielo è di piombo per i giornali americani


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Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera” in una corrispondenza da Washington. Sottolineando che i grandi media americani si trovano nella tempesta della crisi economica; e che si tratta delle “testate piu’ prestigiose del giornalismo di qualità, da sempre modelli per il resto del mondo” e adesso si ritrovano costrette ” scommesse disperate o rischiose in nome della stessa sopravvivenza”; e questo avviene da Los Angeles a Chicago a New York.

Si è dichiarato insolvente, chiedendo la bancarotta il gruppo Tribune Co. proprietario, tra l’altro, del “Chicago Tribune” e del “Los Angeles Times”; mentre il “New York Times”, appena un anno dopo esservisi trasferito, valuta l’ipotesi di ipotecare lo splendido grattacielo, firmato da Renzo Piano, a garanzia di un prestito da 225 milioni di dollari, indispensabile al gruppo della famiglia Sulzberger per evitare una crisi di liquidità nel 2009.

Annunci scioccanti, che confermano il difficilissimo guado nel quale si trova il mondo dei media negli Usa, dove i colpi della crisi cadono in un panorama già rivoluzionato e sconvolto da Internet e dalle nuove tecnologie- Con “Tribune Co.” vacilla un impero editoriale che da costa a costa possiede giornali, stazioni televisive e perfino una grande squadra di baseball, quella dei Chicago Cubs. A fronte di un patrimonio di 7,6 miliardi di dollari, il gruppo è gravato da 13 miliardi di dollari di debiti, quasi tutti ereditati dalla complessa transazione, con cui l’anno scorso il palazzinaro miliardario Sam Zeli acquistò l’azienda.

L’annuncio, dato al termine di una riunione del board, era nell’aria dal fine settimana, quando il management aveva comunicato di avere assunto esperti in fallimenti della banca Lazard e dello studio Sidney Austin, per discutere le proprie opzioni finanziarie. Anche se la più grossa rata sul debito, quasi 600 milioni di dollari, sarebbe venuta a scadenza solo nel prossimo giugno, il gruppo rischiava di mancare gli obiettivi finanziari imposti dai creditori per il 2008.

«È stata la tempesta perfetta — si legge in un comunicato di Zeli ai dipendenti — un precipitoso calo delle entrate e una dura situazione economica si sono combinati con una crisi del credito, rendendo difficile finanziare il nostro debito. Tutti i nostri settori pubblicitari ne hanno drammaticamente risentito». A novembre Tribune Co. ha riportato perdite per 124 milioni di dollari nel terzo trimestre. E le previsioni per il 2009 appaiono ancora peggiori. La decisione di andare al Tribunale dei fallimenti da ora alla compagnia un po’ di tempo per cercare di far cassa, attraverso alcune dismissioni. In maggio, Tribune Co. aveva già venduto Newsday a Cabletelevision per 650 milioni di dollari. Molte speranze si appuntano sulla vendita dei Cubs, che nelle ottimistiche previsioni di Zeli potrebbe portare in cassa quasi un miliardo di dollari: ma la lista dei potenziali acquirenti si è ristretta, dopo che il venerato club è stato quotato in borsa, esponendosi ai venti del mercato. Un’altra soluzione potrebbe essere la cessione del «Los Angeles Times», un giornale che ancora genera profitti e verso il quale anche il mogul di Hollywood, David Geffen, ha mostrato interesse. Ma il gruppo è riluttante a disfarsi della sua testata più prestigiosa.

Meno drammatici, ma potenzialmente molto gravi i problemi della «New York Times Company». L’ipotesi di ipotecare il nuovo grattacielo viene considerata la migliore opzione, per scongiurare un problema di casti flow in primavera: una delle due linee di credito (con un tetto di 400 milioni di dollari ciascuna) di cui dispone il gruppo scade in maggio, ma è improbabile che venga rinnovata. Di recente Standard & Poor’s ha abbassato il rating della Times Company sotto il livello che giustifica un investimento. Nel 2008, il titolo ha perso il 50% del valore in Borsa.




Quadro allarmante per il pianeta che "vive"


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Sul “Rapporto 2008 del WWF” non sono usciti molti comunicati. Il più “sostanzioso” ci è apparso quello del prof. Alberto Martinelli, docente di Scienze politiche all’Università statale di Milano.

Secondo il prof. Martinelli, il Rapporto “Living planet 2008″ presenta un “quadro allarmante della crisi dell’ecosistema terrestre, ma propone anche come concretamente farvi fronte” La crisi finanziaria globale ha messo chiaramente in evidenza i fallimenti del mercato non regolato e i rischi di una corsa incontrollata a guadagni apparentemente facili e a consumi al di sopra delle nostre possibilità. La recessione della economia reale riduce paradossalmente i rischi di degrado ambientale, ma non costituisce certo una soluzione. Non si deve arrestare la crescita economica, ma si deve crescere meglio, in modo sostenibile, rispettando il lavoro umano e l’ambiente. Esiste invece il rischio concreto che si consideri la ripresa economica una priorità assoluta e la politica ambientale un lusso che governi, imprese e cittadini non possono permettersi in tempi di crisi, come ha mostrato anche la recente controversia tra il governo italiano e l’Unione Europea circa l’attuazione della politiche necessarie per conseguire gli obiettivi concordati di riduzione delle emissioni di gas serra e di risparmio energetico entro il 2020. È vero che altri attori, come ad esempio la Confindustria, hanno assunto un atteggiamento più attento alle grandi potenzialità di un’industria ambientale e di una produzione ambientalmente compatibile, ma la tesi «adesso pensiamo a riprendere la crescita, all’ambiente ci penseremo poi» è ancora molto forte e va contrastata

II Living planet report 2008 si compone essenzialmente di due parti, una di «evidenze scientifiche» ampiamente corredata di indicatori e dati, e una di proposte miranti a «ribaltare la situazione». Rispetto alle edizioni precedenti, vi è l’importante novità del calcolo dell’impronta dei nostri consumi sulle risorse idriche della terra ( e va rilevato a questo riguardo che gli italiani sono ai vertici della classifica mondiale degli «spreconi» di acqua).

Due i concetti chiave: l’indice del «pianeta vivente» ovvero della bio-diversità globale, costruito mediante l’analisi di circa 5 mila popolazio ni di 1.686 specie di vertebrati (mammiferi, uccelli, rettili,anfibi, pesci) delle regioni temperate e del le regioni tropicali del mondo; e le «impronta ecologica» che misurò l’entità e la qualità della nostra domanda di risorse produttive della biosfera (terreni agricoli, pascoli, foreste e stock ittici necessari a produrre cibo, fibre, legname, costruire infrastrutture, assorbire i rifiuti che generiamo). Sia l’indice del pianeta vivente sia l’impronta ecologica sono calcolati a livello globale e per singoli Stati e gruppi di Stati del mondo.

Nel 2005 l’impronta ecolo gica globale era di 17,5 miliardi di ettari globali corrispondenti a 2,7 ettari prò capite, a fronte di un’area produttiva globale o biocapacità che ammontava a 13,6 miliardi di ettari globali corrispondenti a 2,1 ettari pro capite.

L’impronta ecologica ha superato per la prima volta la capacità rigenerativa del pianeta negli anni ’80 del secolo scorso e nel 2005 la domanda ha superato l’offerta di circa il 30%. Pjjù di tre quarti degli abitanti della Terra vivono in Paesi in cui i consumi nazionali superano la biocapacità del paese; in Italia l’impronta ecologica totale è di 4,8 a fronte di una biocapacità totale di 1,2. Nell’arco degli ultimi trentacinque anni l’indice della biodiversità globale è diminuito di circa il 30% (nonostante si sia stabilizzato in alcune zone temperate). In altri termini, risorse fondamentali a cominciare dall’acqua diminuiscono sempre più, mentre si accumulano i materiali di scarto nell’aria, nella terra e nell’acqua. Le conseguenze sono il riscaldamento climatico (l’estate scorsa la calotta polare artica è stata per la prima volta interamente circondata dall’acqua), la deforestazione, la diminuzione di biodiversità, la carenza d’acqua. Se la nostra impronta ecologica continuerà a crescere a questi ritmi, afferma il Rapporto in toni drammatici, tra circa 30 anni avremo bisogno di due pianeti per mantenere i nostri stili di vita e modelli di consumo…”




Intorno a Veltroni la sinistra è nel caos


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Il centrodestra ha i suoi problemi; che sono tanti e grossi. Ma appaiono quasi neinte rispetto a quelli, enormi e dirompenti che affliggono la sinistra.

Leggiamo insieme un editoriale di Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” che pure alla Sinistra tira la volata, Battista scrive di “ansia autodistruttiva”, di “atmosfera da sconsiderato cupio dissolvi, che sembra trascinare in un vortice di guerra tribale e insensata, la periferia del Partito Democratico”. Non c’è neanche la scintilla di una riscossa che sappia archiviare i dolori della sconfitta elettorale”. E ancora scrive di “mosaico disordinato e velleitario di personalismi…”.

Dovunque si guardi, dalla Torino di Chiamparino alle “congiure” di Sardegna e Calabria, dalla Campania alla Toscana, dalla “Bologna” di Cofferati,” all’Abruzzo decapitato. Battista sottolinea come Cacciari dica addirittura “di essere così arcistufo del centro del Partito da scegliere ostentamente la diserzione delle “riunioni della capitale”; non cè “nessun contenuto politico convincente….solo un afolle corsa al logoramento….”. Appare “inesplicabile” – ma c’è – la “veemenza autolesionista che sembra rendere ciechi i potentati locali del P.D.. Una morsa – conclude Battista – che vorrebbe depotenziare il ruolo di Veltroni ma che finisce solo per riflettere lo stato di caos…” in cui versano quelli della Sinistra, detrattori di Veltroni.




La crisi delle banche fa a pezzi l'Europa


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Così titola un recente dossier di “Repubblica” a firma di Luca Fezzi, documentando come la diffidenza tra i vari partner europei impedisce il varo di procedure uniformi a difesa del sistema” Le garanzie, in Europa, e cioè lammontare massimo dei debiti bancari garantiti, non hanno limite in Irlanda, Germania e Danimarca; sono fissate a quota 103.291 euro in Italia; e poi scendono: dai 70.000 della Francia ai 64.515 del Regno Unito; e poi calano di molto: 25.000 in Ungheria; 22.500 in Polonia e Slovenia; 20.100 in Lituania e 20.000 negli altri Stati

Ecco qualche altro “dettaglio”, che e bene conoscere per avere il quadro esatto della situazione; Il paese più esposto nel Nord Europa è l’Islanda il cui governo ha già dovuto nazionalizzare due banche: Landsbanki e Glitnir. Ha chiesto un prestito alla Russia da 4 miliardi di euro e la moneta islandese si è svalutata del 30%. Di fatto lo Stato ha assunto parte del controllo di tutto il sistema potendo ordinare , fusione o i fallimenti degli istituti. Soffre anche la Danimarca che ha alzato il costo del denaro al 5% per proteggersi dal calo dell’euro.

La decisione di Dublino ha destabilizzato l’intera Ue. Il governo ha creato una garanzia illimitata per i depositi delle sei principali banche irlandesi. Vale a dire un’esposizione teorica di 400 miliardi di euro, il 200% del Pil nazionale. La commissione di Bruxelles ha accettato il piano nonostante le proteste di molti paesi, in particolare la Gran Bretagna e la Germania, che considerano fortemente distorsiva della concorrenza questa scelta Olanda e Belgio hanno fatto fronte al crollo di Fortis bank e Dexia. In entrambi i casi l’intervento è stato concordato con la Francia. Lo Stato olandese ha comprato per 16 miliardi le attività locali di Fortis, cioè Abn Amro. Il Belgio controllerà con la Francia quello che rimane del portafoglio crediti. Su Dexia un aumento di capitale di enti locali a nazionali franco-belgi ha ripubblicizzato la banca.

In Germania il crollo dei valori immobiliari nei bilanci delle banche nasce anche dal mercato interno e non solo dall’esposizione ai mutui subprime Usa. Già due banche, Ikb e West Ib, sono state salvate dallo Stato. Un’altra, Hypo Re, costerà ai contribuenti tedeschi 50 miliardi di euro. Rimane molta paura: ieri Deutsche Bank e Commerzbank hanno dovuto smentire fa necessità di un aumento di capitale