Ora stiamo arrivando ai "precari per una vita"


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Si sente spesso parlare di “nuova occupazione” e, quando capita qua e là, si canta vittoria per qualche flessione della marea dei disoccupati. Siamo a meno della metà della Spagna del famigerato Zapatero, ma i precari in Italia oscillano tra i 2 e i 4 milioni (a seconda che si consideri “precario” solo chi lavora a tempo determinato o anche i Co.co.co, i finti autonomi e gli atipici). Insomma siamo ad una quota tra il 13 e il 15% del totale degli occupati: “lavoratori deboli destinati alla demotivazione quando la loro condizione si protrae, con conseguenze negative sulla loro vita, sulla competività delle aziende, sulla società”; quando cioè tocca dover pagare quel “costo esistenziale” di cui scrivemmo già da molti anni, in tanti nostri documenti, anche congressuali.

“Altri dati -leggiamo adesso a firma di Maurizio Bologni su “Affari e Finanza” stati portati dai ricercatori dell’Irpet e dal dirigente del settore lavoro della Regione Toscana Marco Matteucci. Nel 2007, su 10 persone avviate al lavoro in Toscana, quasi 8 erano precari o lavoratori a termine. E dopo 6 anni solo il 42% è risultato stabilizzato. Chi è precario, insomma, rischia di restarlo a vita. «La Regione Toscana —ha spiegato Matteucci — risponde con un fondo per l’assunzione nelle imprese private dei laureati con meno di 35 anni, con un fondo per 1’occupazione femminile e per i lavoratori in mobilità, incentivando l’imprenditoria giovanile ad alta innovazione tecnologica e fornendo garanzie agli atipici che chiedono un prestito in banca».




Lazio: ora ci sono 250.000 nuovi poveri


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Sta diventando sempre piu’ iniqua e antisociale, la distribuzione del reddito nella regione Lazio; e sarebbe interessante sapere cosa risponde alle nuove cifre e alle piu’ recenti statistiche in merito, quella Sinistra che del Lazio tenta di fare la sua “bandiera eccellente” contro il Campidoglio e il governo di centrodestra.

Ne scrive Carlo Piazze in un documentatissimo articolo su “Repubblica” che qui vorremmo riprodurre per intero tanto è preciso e dettagliato; ma che invece per motivi di spazio, tenteremo di riassumere.

Ci sono dunque “forti sperequazioni distributive”, nel prodotto regionale, che nel suo complesso è cresciuto; anzi c’e’ “una distribuzione del reddito sempre piu’ iniqua” perchè “concentrata nelle tasche del 10% degli occupati”

Ecco, con esattezza, come si sono messe le cose.
“Sui due milioni e mezzo di lavoratori, 250 mila percepiscono una retribuzione 12 volte più alta di quella di altrettanti occupati più poveri nel Lazio e 9 volte più cospicua di quella media nazionale. Parola del Servizio studi di Sviluppo Lazio, società per il sostegno alle imprese, che sull’economia della regione ha appena concluso il suo terzo Rapporto annuale dei cui contenuti forniamo alcune anticipazioni…” Ed ecco cosa dice, cosa documenta il Rapporto di Sviluppo Lazio; che di fronte al “folto drappello” di quelli che se la passano abbastanza bene in termini di reddito, “ce n’e’ un altro”; c’e’ il drappello di quelli che il Rapporto definisce “working poor”, lavoratori con retribuzione inferiore per il 60% rispetto a quella media nazionale. «Si tratta di oltre 250 mila precari», spiega Marcello Degni, responsabile dell’ufficio studi e coordinatore dell’indagine. E proprio sui contratti atipici il Rapporto getta un nuovo fascio di luce: «La deregolamentazione del mercato del lavoro perseguita nell’ultimo quinquennio», ancora Degni, «ha prodotto nel Lazio un graduale impoverimento diffuso e un incremento dei profitti che non si è tradotto in investimenti produttivi significativi».




Ovunque ci si giri è disastro ambientale


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E’ proprio vero che siamo al disastro; anzi, allo scempio ambientale. E che dovunque ci si giri, per dirla in termini “popolani” è sempre la stessa storia. Adesso hanno scoperto i “fossi”.Ad inquinare -e in modo pesantissimo – il litorale romano non ci sono soltanto il Tevere e l’Aniene ma ci sono, appunto, anche i fossi e cioè una rete di fiumicelli e canali ” che scaricano direttamente nel mare le loro bombe di coliformi fecali e streptococchi, di pesticidi e di fertilizzanti. Veleni organici, chimici e batteriologici che compromettono gravemente lo stato del nostro mare. Ci si puo’ riferire al piu’ recente Rapporto dell’ARPA, l’agenzia regionale protezione ambiente; Rapporto che riferisce che su 42 focimonitorate tra Civitavecchia e Nettuno , 37 presentano un alto livello di inquinamento. Nella classifica dei colori, blu per inquinamento basso, giallo per inquinamento medio, rosso per inquinamento alto, i 37 fossi sono tutti contrassegnati dal colore rosso. «Siamo di fronte ad un problema sanitario, ambientale e sociale», dice il consigliere comunale Athos De Luca, che ha presentato alla Procura una denuncia-querela contro ignoti. Nel documento De Luca ricorda che dal rapporto dell’Arpa molti impianti di depurazione risultano non idonei. «A causa di ciò – scrive il consigliere – numerosi agenti inquinanti compromettono la qualità delle acque del litorale romano, comportando in molte zone il divieto di balneazione». I fossi monitorati toccano tutte le località balneari: Civitavecchia, Santa Marinella, Cerveteri, Ladispoli, Fregene, Fiumicino, Ostia, Pomezia, Ardea, Anzio, Nettuno. «A provocare l’inquinamento dei fossi – racconta De Luca – sono soprattutto le attività agricole e zootecniche diffuse sul territorio. Pensiamo, per esempio, al fiume Arrone a Fregene. I dati dell’Arpa dicono che il fiume presenta segni di inquinamento biologico-organico e chimico che compromettono l’uso delle acque, utilizzate principalmente per l’irrigazione». La relazione dell’Agenzia fa sapere che nel bacino dell’Arrone scaricano «le acque reflue urbane del depuratore Acea Osteria Nuova e dell’abitato di Fregene, le acque reflue di due importanti aziende dedite all’allevamento dei maiali, le acque reflue industriali dell’Enea di Casaccia e del consorzio Agrital». «E’ necessario verificare subito se gli scarichi delle aziende sono a norma – chiede De Luca – per rompere questa catena viziosa di inquiamenti».
E poi ci sono le dolenti note su Tevere e e Aniene. L’Aniene, confermano i monitoraggi dell’Arpa, è il vero killer del Tevere, che diventa davvero inquinato dalla sua confluenza. Nell’affluente scaricano infatti illegalmente le sostanze tossiche di notte attività industriali distribuite lungo il suo corso. Non solo. Secondo una stima di Legambiente Lazio, sono 230 mila gli abitanti che scaricano direttamente nell’Aniene. Carenza strutturale ancora più grave nel territorio attraversato dal Tevere: sono 323 mila i romani privi di sistema di depurazione, la maggior parte residenti in centro.
Vuol dire che dalla rete fognaria gli scarichi vanno direttamente nel fiume. E infatti, a 43 chilometri dalla foce, al porto di Ripetta, cioè all’altezza di piazza del Popolo, l’Arpa ha riscontrato livelli altissimi di inquinamento da colibatteri. A risentirne, naturalmente, i due rami della foce delTevere, ai quali l’Arpa ha assegnato il colore rosso, ad indicare, appunto, il livello più alto di inquinamento, e il nostro litorale.




Roma: come aumentano le famiglie in povertà


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Per sapere come stanno andando “socialmente” le cose, per capire davvero a che punto siamo, a Roma ( e non solo nella Capitale) bisognerebbe andare sulla Casilina Vecchia, all’Emporio della Caritas. Ne fa oggetto di un ampio e ben documentato servizio, sul “Corriere della Sera” Simona De Santis.Ci sono momenti in cui la signora Maria proprio non riesce ad essere fiduciosa: «È dura tirare avanti…» dice. Poi saluta e se ne va con la borsa della spesa; il marito l’aspetta sotto il sole cocente. È un via vai continuo, ma discreto, quello che da una ventina di giorni si scorge al civico 19 di via Casilina Vecchia, sede del nuovo Emporio della Cari-tas Diocesana. L’Emporio della solidarietà è un supermercato speciale: all’interno si trovano beni di prima necessità, ma sui cartellini il prezzo è indicato in «token», gettoni. «Le famiglie hanno una carta gratuita con un bonus mensile di 200 token – spiega Don Paolo, responsabile della struttura -; questa iniziativa supera il tradizionale pacco-famiglia. Si tratta di uno strumento della Chiesa di Roma per dare una risposta alle difficoltà delle fasce deboli, non solo anziani, ma soprattutto giovani coppie». Sono circa mille le persone inserite nella fase d’avvio del progetto. Dei 200 nuclei, solo tre sono famiglie di cittadini immigrati. E c’è già una lunga lista d’attesa: «Siamo all’inizio ma speriamo di creare altri market – aggiunge Don Paolo -. La famiglia con 1000 euro al mese, oggi, non riesce più a mantenersi; tentiamo di dare un supporto almeno a livello alimentare, educando alla spesa intelligente, in vista anche dell’uscita delle famiglie dal programma». All’Emporio Caritas, aperto tre giorni a settimana, dalle 9 alle 13.30, si possono acquistare pasta, riso, olio, caffè, tonno, surgelati. E pannolini: «I panno lini soprattutto – spiega Anna Sacco, vice responsabile – costano e sono molto richiesti». Servono anche latte (ce n’è poco), pane, carne, frutta e verdura all’Emporio; e Don Paolo pensa a un accordo con i Mercati Generali. Con 50 token, una famiglia prende il necessario per una settimana.




Obesità: ecco perchè diventa un vero dramma


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Sembra incredibile ma i è proprio così: in un mondo in cui tanta gente ogni giorno muore di fame, c’e’ tanta altra gente che soffre terribilmente di obesità e delle sue conseguenze gravi, che diventano sempre piu’ gravi

Anzitutto, le cifre; per come le riferisce Vittorio Barreca su un recente numero di “Spazio Rurale”. Scrive dunque Barreca: Nella Tavola Rotonda FeSin dal titolo “Ruolo della FeSin e dei mass media nell’educazione alimentare” che si è svolta durante il XVI Congresso Nazionale SISA ho espresso i seguenti concetti. In Italia l’obesità [IMC (Indice Massa Corporea) superiore a 30] riguarda il 9,8% della popolazione adulta (soggetti maggiori di 18 anni) e il sovrappeso il 34,2% (dati ISTAT – Indagine Multisco-po “Condizione di salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sanitari” pubblicata nel marzo 2007 e riferita all’anno 2005); mentre tra i bambini e gli adolescenti (6-17 anni) il 4% è obeso, il 20% è in sovrappeso (dati ISTAT – Indagine Multiscopo 2000). Ciò significa che in questi anni, grazie all’azione dei medici, dei nutrizionisti, dei medici di base e dei mezzi di comunicazione, si è fatto un buon lavoro. Ricordiamo anche le percentuali di obesità di adulti obesi (15 anni e più) presenti in altri paesi europei: Regno Unito 23,0%; Ungheria 18,8%; Finlandia 14%; Spagna 13,1%,(dati ISTAT – Indagine Multiscopo “Condizione di salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sanitari” pubblicata nel marzo 2007 e riferita all’anno 2003-2004 fatta eccezione per l’Ungheria in cui l’anno più recente è il 1999).

Ma si è anche ultimamente constatato cne in Italia siamo in una fase in cui queste percentuali sono pericolosamente in aumento. Dati statistici recenti indicano che nell’età evolutiva la percentuale dei soggetti obesi e in sovrappeso è in foltissimo aumento (alcune fonti indicano anche il 36% di soggetti in sovrappeso per alcune classi di età). Inoltre in questa fascia d’età sono in aumento i soggetti con ipertensione arteriosa e diabete di secondo tipo. Quindi bisogna impegnarsi per impedire che questo trend in salita continui, anzi è fondamentale adoperarsi per una inversione di questa tendenza. Come strategia fondamentale per arginare questo fenomeno e come mezzo per migliorare la salute della popolazione, bisogna utilizzare come strumento l’educazione alimentare”.




Costi esistenziali


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Già da tempo abbiamo individuato un concetto e un’espressione che vorremmo vedere usata più spesso nella nostra pubblicistica ed anzi entrare a far parte del nostro retroterra culturale: il termine di “costo esistenziale” Che indica a nostro avviso quanto ognuno o anche un’intera fasci asociale o categoria “pagano” nel tipo di esistenza qual è quella che si conduce nel mondo moderno e specificatamente nella società contemporanea. Nella quale tutto e tutti sono come risucchiati da uno spirito concorrenziale -dominato dalla legge ferrea del massimo profitto – che spezza e spazza i legami di una volta, che erano di tipo e di valenza comunitari dalle case nelle quali si viveva ai posti di lavoro.

I piu’ anziani fra noi per esempio hanno preciso e incontestabile il ricordo di un tempo in cui nei palazzi dove c’era il portiere, si poteva anche stare con le porte aperte; e con i bambini che “socializzavano” giochi, giocattoli e passatempi spostandosi da un piano all’altro dell’edificio se mancava un cortile che quando c’era proprio ai bambini era riservato. Sempre i piu’ anziani ricordano poi che anche nei posti di lavoro -dove adesso imperversa il mobbing!- si tendeva a fare una comunità; quasi sempre vi prevalevano il cameratismo, l’altruismo e la prontezza “a darsi una mano”, anche fuori dal posto di lavoro.

Adesso – lo leggiamo in un ampio (e tristissimo) servizio di Luca Dello Iacovo su “Panorama” – nel c.d. social jet lag, abbiamo le “vite senza orario”. Perchè “lavorare cambiando spesso turni, di notte, nei festivi: tocca ormai a 3 milioni di italiani, sempre piu’ sfasati rispetto ai normali ritmi quotidiani. Una sindrome simile al “jet lag” aereo su cui solo ora la medicina inizia a fare luce.

C’e’ ormai – scrive Luca ello Iacovo – una “popolazione trasversale” fatta di medici degli ospedali e telefonisti dei caòò center, addetti nei grandi magazzini e operatori d’affari , baristi, giornalisti, forze dell’ordine….”Tutte persone che hanno in comune una giornata lavorativa con orari mutevoli.




Emergenza agroalimentare secondo "Civiltà Cattolica"


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Scrive il gesuita Luciano Lacrivera su “Civiltà Cattolica”:

Secondo la Fao (Food and Agriculture Organization) nei primi quattro mesi del 2008 l’indice dei prezzi di 53 tipologie di derrate agroalimentari è aumentato del 54% rispetto allo stesso periodo del 2007. Qui presentiamo questa emergenza e le sue cause. In un successivo intervento illustreremo le risposte suggerite dagli esperti per un new deal agro-alimentare, e le nuove prospettive politiche scaturite in occasione della recente Conferenza di Alto Livello sulla Sicurezza Alimentare promossa dalla Fao (Roma, 3-5 giugno).

Le dimensioni della crisi
Dal marzo 2007 al marzo 2008 la crescita dei prezzi è stata esponenziale: grano +130%; soia +87%; mais +31%; riso +74% (con punte però del 141% per i Paesi importatori). Si tratta di una media dei prezzi sulle principali borse mondiali che trattano derrate alimentari per acquirenti nazionali o internazionali. Ma soltanto il 17% del grano prodotto è esportato, il 12,5% del mais, il 7% del riso. E non tutto viene venduto in borsa. L’aumento di questi prezzi si è in parte trasmesso sui mercati nazionali e locali, con una intensità diversa a seconda degli accorgimenti adottati dalle singole amministrazioni pubbliche. Ma quando il riso, cioè l’alimento base per tre miliardi di persone, aumenta «soltanto» del 10-20% annuo sul mercato interno di un Paese in via di sviluppo, una famiglia molto povera soffre di conseguenze dirompenti.

Sui mercati locali sono inoltre aumentati molti altri alimenti di base, come i legumi, ad esempio le lenticchie in India e i pomo-dori, anche in Italia. Non così è stato per lo zucchero. Ma l’aumento dei prezzi è atteso per il cotone e, quindi, per l’abbigliamento; a quel punto crescerà la domanda di prodotti tessili sintetici meno costosi, ma ciò produrrà un’ulteriore tensione sui prezzi del petrolio, che sta puntando a 140 dollari al barile. Anche i prezzi di latte, latticini, uova e carne sono saliti, soprattutto perché è cresciuto il costo dei mangimi: un terzo dei cereali prodotti è destinato agli allevamenti. Nei mesi di aprile e maggio i prezzi dei cereali erano in discesa per l’attesa di buoni raccolti, però quello del riso ha avuto un’impennata a causa del ciclone Nargis del 2 e 3 maggio, che ha sconvolto il Myanmar. Ora questo Paese, da esportatore è diventato, per la devastazione delle sue terre, un importatore netto di riso. Soltanto gli aiuti alimentari internazionali potranno alleviare la fame di circa due milioni di birmani colpiti dal ciclone. Si prevede che i prezzi agricoli si assestino, nei prossimi mesi, su livelli più alti del 2006, ma più bassi dei picchi raggiunti dal settembre scorso al marzo di quest’anno. Tale situazione riguarderà soprattutto il grano, perché quest’anno è aumentata la capacità produttiva in Europa, Russia e Ucraina. In ogni caso, secondo uno studio congiunto di Fao e Ocse, fino almeno al 2017 i prezzi alimentari saranno decisamente più alti del decennio precedente, se non ci saranno cambiamenti significativi nelle politiche nazionali e internazionali.

La crisi ha coinvolto in modo molto serio una sessantina di Stati, molti dei quali non erano, in genere, colpiti da carestie. Tutto ciò ha provocato rivolte popolari in 33 Paesi, anche molto sanguinose, con il rischio di ulteriori crisi a cascata. Ad Haiti, ad esempio, si è dovuto dimettere il primo ministro. Dopo i sostegni internazionali, ora 22 Paesi (18 in Africa) hanno urgente bisogno di aiuti alimentari supplementari per l’impennata dei prezzi dei cereali e degli idrocarburi, di cui sono importatori netti. Nei Paesi poveri, il 50-80% del reddito è destinato alla nutrizione, in Europa il 15-18% e negli Stati Uniti il 10-14%. Per due miliardi di persone che vivono con meno di due dollari al giorno la «dieta forzata» è sempre più povera: il numero e la quantità dei pasti hanno iniziato a ridursi, la carne e i legumi vengono consumati sempre di meno, inoltre sono intaccate le spese scolastiche, abitative e sanitarie per i bambini. Anche in Europa, secondo la Coldiretti, per 74 milioni di cittadini che già vivono sotto la soglia di povertà la spesa alimentare sarà insostenibile: lo stesso avviene anche in Giappone e negli Stati Uniti. Inoltre si stanno esaurendo le scorte dei «banchi alimentari» europei, organizzazioni senza scopo di lucro che raccolgono in donazione surplus di produzione alimentare e l’invenduto in scadenza della grande distribuzione per donarli ad altri enti di volontariato assistenziale. Negli ultimi 30 anni di prezzi agricoli erano sempre scesi e, in termini reali, sono ancora inferiori a quelli del 1965. Ma adesso sembra finita l’era del cibo a buon mercato. La Fao da anni lanciava l’allarme sui cambiamenti strutturali nel sistema agro-alimentare, però non sono stati adottati provvedimenti adeguati in anticipo. Tuttavia dal 1990 alla metà di questo decennio il numero delle persone malnutrite è diminuito di 278 milioni. Attualmente sarebbero ancora 862 milioni, ma questo numero difficilmente sarà ridotto a 400 entro il 2015, come prevede il primo degli Obiettivi del Millennio fissati dall’Onu. Ancora oggi la fame è causa di morte per 3,5 milioni di bambini l’anno (dei quali due milioni in India). Inoltre, secondo la Banca Mondiale, che a fine maggio ha stanziato 1,2 miliardi di dollari per l’assistenza alimentare, 100 milioni di persone in più quest’anno rispetto al precedente hanno gravi carenze nell’alimentazione a causa dell’impennata dei prezzi agricoli. Al riguardo, l’ex-rela-tore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, Jean Ziegler, ha parlato di «un silenzioso omicidio di massa». Il Programma Alimentare Mondiale, l’ente dell’Onu che gestisce gli interventi di urgenza contro la fame, ha parlato di «tsunami silenzioso» e ha ottenuto 755 milioni di dollari (500 dall’Arabia Saudita) in ulteriori donazioni ner fare fronte all’emergenza immediata.

Per comprendere le cause di questa emergenze, in primo luogo occorre riconoscere i fattori strutturali di medio-lungo periodo, sia sul lato della domanda sia su quello dell’offerta, che fanno prevedere prezzi molto elevati per altri due anni. Non ci potranno essere radicali aumenti della produzione agroalimentare e, quindi, un calo significativo dei prezzi entro il 2015, perché, se verranno adottate nuove politiche strutturali, esse richiederanno tempo per produrre effetti. Benché, secondo la Fao, la produzione di grano e riso aumenterà nel 2009-10, essa non potrà fronteggiare la crescente domanda poiché una parte della maggiore produzione andrà a ricostituire le scorte. A ciò si aggiungono, in secondo luogo, fattori contingenti di breve periodo, come la svalutazione del dollaro o gli eventi climatici, che potrebbero durare o ripresentarsi ancora. Queste cause di breve termine hanno prodotto non soltanto l’inflazione alimentare, ma anche la volatilità dei prezzi delle derrate nelle borse che trattano tali beni.Sul lato dell’aumento della domanda, il fenomeno strutturale più rilevante, mai visto nella storia del pianeta, è la crescita demografica. La popolazione mondiale aumenterà di un miliardo entro il 2030 rispetto gli attuali 6,6. Nel 2050, secondo l’Onu, ci saranno 9,1 miliardi di individui, ed entro quella data dovrà raddoppiare la produzione agricola attuale perché nessuno soffra la fame. Il secondo fattore strutturale è la crescita economica dei Paesi prima in via di sviluppo, soprattutto Cina e India, ma anche Brasile, Vietnam e Turchia, con l’accresciuto potere di acquisto di un nuovo ceto medio (ad esempio, in India oggi 200 milioni di persone sono classificate come classe media o alta; saranno 500 milioni entro il 2020). Quelle popolazioni mangiano di più, molti hanno raggiunto i tre pasti al giorno e consumano più carne, latte e prodotti caseari. E ciò ha imDal 2005 è iniziato lentamente ma costantemente il trend ascendente dei prezzi del petrolio, dei minerali e delle derrate alimentari in correlazione inversa alla svalutazione del dollaro, accentuatasi nel 2007-08, nei confronti delle valute dei grandi Paesi esportatori. Inoltre l’impennata dei prezzi agricoli e dei prodotti energetici, questi triplicati dal 2003, acuisce la crisi ambientale perché incentiva la deforestazione per aumentare la produzione di cibo e di biocombustibili. Negli ultimi sei anni la produzione degli alimenti di base è cresciuta meno della domanda. Per far fronte ai maggiori consumi interni e per l’export è stata utilizzata una buona parte delle scorte, che ora sono al minimo. Inoltre diversi Paesi avevano ridotto le loro riserve strategiche di cereali, perché, in caso di crisi produttiva nazionale, potevano contare sull’importazione di derrate alimentari. Questo è avvenuto soprattutto per i Paesi che hanno scelto di specializzarsi in alcune colture da esportazione (ad esempio, il Senegal con le arachidi, il Kenya con i fiori, altri con il cotone) senza prima vincolare la produzione di una parte dei terreni agricoli al fabbisogno alimentare interno: in questo consiste la «sicurezza alimentare nazionale». Così facendo, si sostiene la bilancia commerciale con l’estero, ripagando una parte del debito estero, si accresce il Prodotto interno lordo e si migliorano i conti pubblici, sperando che avanzino risorse per investimenti interni allo sviluppo.

I problemi dell’offerta
Sul lato dell’offerta si è verificata una riduzione della produttività per molti fattori: scarsi raccolti negli ultimi anni in alcune regioni chiave, come l’Australia — dopo tre anni di siccità l’esportazione australiana di grano è scesa del 60% —, il Canada, l’Ucraina e l’Europa; pochi investimenti in attrezzature moderne, in nuovi semi, in infrastrutture, in ricerca e sviluppo nei Paesi poveri ed emergenti; il calo della produzione per fenomeni climatici in diversi Paesi (siccità, alluvioni, nuovo andamento delle piogge mon-soniche); i conflitti armati, che, ad esempio, favoriscono la coltivazione di droga oppure impediscono lo sviluppo agrario (in Somalia, dopo la siccità, la guerra civile e l’aumento dei prezzi alimentari, la fame colpisce 2,6 milioni di abitanti); la riduzione dei terreni a uso agricolo, perché sono stati erosi dalla desertificazione, dall’inquinamento e dall’allargamento degli insediamenti urbani (la Cina, ad esempio, ogni anno perde il 2% dei suoi terreni agricoli; e nel 2030, con una popolazione di 1,5 miliardi di persone, ci sarà il 25% in meno di aree coltivabili); la crescente urbanizzazione ha ridotto la popolazione rurale dedita all’agricoltura; alcune nuove malattie hanno colpito allevamenti di suini, bovini, pollame e pesci in itticulture, e anche alcune coltivazioni: la globalizzazione rende più facile la trasmissione di queste malattie, la modifica genetica dei loro ceppi e la loro maggiore resistenza alle medicine.Si aggiungono anche cause finanziarie legate alla globalizzazione. Prevedendo, in base a questi fattori sul lato della domanda e dell’offerta, che i prezzi delle derrate alimentari sarebbe cresciuti stabilmente, nelle borse è aumentata la domanda di prodotti finanziari «derivati» chiamati futures. Ma, alla scadenza, il diritto di acquisto dei beni alimentari rappresentati è stato esercitato soltanto per una minima parte dei futures in circolazione. Questo indica che nelle borse agricole prevale la speculazione e non l’acquisto da parte di imprese di commercializzazione o trasformazione delle derrate alimentari, le quali inventarono [futures per garantirsi un quantitativo di beni a una data e a un prezzo certi predefiniti contrattualmente, senza esporsi a impennate delle quotazioni. I grandi capitali finanziari hanno rivolto la propria attenzione alle borse agricole per tre motivi: garantirsi dal rischio di inflazione (ad esempio, gli investimenti in titoli di Stato non copriranno l’attuale crescita dell’inflazione mondiale); mancanza di investimenti alternativi, vista la forte incertezza per l’esplosione della bolla dei mutui subprime statunitensi; pura speculazione di azzardo di brevissimo periodo, sfruttando la volatilità dei prezzi a ogni minima notizia positiva o negativa sull’andamento della produzione o della domanda o delle scorte alimentari. Purtroppo, la stessa speculazione ha stimolato ulteriore speculazione sui mercati borsistici e un impatto (ma pure il panico) a livello locale. Nei piccoli mercati interni ci sono stati anche accaparramenti da parte dei privati consumatori per avere scorte per la famiglia. Così l’offerta per consumi immediati, su questi mercati locali, è cresciuta meno del potenziale, e i prezzi sono saliti. L’aumento delle quotazioni dei futures è stato incluso nei prezzi spot, cioè nei prezzi per l’acquisto immediato; infatti chi decide di cedere ora un bene il cui prezzo può salire lo vende a un prezzo maggiorato per coprire il mancato guadagno potenziale per non averne rimandato la vendita. Come conseguenza opposta, alcuni operatori hanno rinviato la vendita delle loro derrate agricole sperando di ottenere prezzi migliori per vendite posticipate.

Un altro fattore contingente è l’alto prezzo del petrolio. Ma, a meno che il dollaro non interrompa la sua svalutazione, i prezzi probabilmente arriveranno anche oltre 200 dollari al barile, perché l’economia mondiale nel 2030 potrebbe richiedere 125 milioni di barili al giorno, mentre la produzione corrente è di circa 80 milioni. Molti fertilizzanti, pesticidi, materiali per imballaggio, che sono derivati dal petrolio, ne hanno incorporato gli aumenti. Anche l’impiego dei macchinari agricoli, la conservazione e i trasporti delle derrate sono diventati più costosi perché dipendono dall’oro nero. A causa degli effetti a catena dell’aumento del prezzo del petrolio sulle spese agrarie, c’è stato, talvolta, un contenimento dell’offerta di alimentari per i produttori che non sono riusciti a scaricare i maggiori costi sugli aumenti dei prezzi di vendita, come invece è stato possibile soprattutto per le multinazionali dei cereali e dei trasporti marittimi. Assieme a loro si sono avvantaggiati i grandi produttori oligopolistici di fertilizzanti (negli Usa ad aprile costavano il 65% in più dell’anno precedente), di sementi e di manufatti alimentari su scala mondiale. Ora si attende anche un aumento dei prezzi dei terreni e delle macchine agricole e delle infrastrutture per gli stoccaggi alimentari, perché oggi investire nell’agroindustria è più remunerativo. Molto rilevante, sul raffreddamento dell’offerta internazionale e sull’accelerazione dei prezzi, è stato il fatto che circa 30 Stati (come Russia, Egitto, India, Indonesia, Kazakistan, Vietnam, Argentina) hanno messo vincoli alle esportazioni di derrate agroalimentari. Questi Paesi hanno agito così per evitare che la produzione nazionale fuggisse sui mercati esteri dove è pagata meglio, provocando però, all’interno del Paese, la scarsità di quei beni, l’aumento dei loro prezzi e quindi gravi tensioni sociali e politiche. Ma questo provvedimento ha senso soltanto per tempi brevi, perché riduce gli avanzi della bilancia commerciale, quindi genera meno entrate fiscali e, di conseguenza, problemi al bilancio pubblico e crisi delle imprese esportatrici. Sull’altro fronte, i Paesi che dipendono dalle importazioni alimentari non hanno trovato sufficienti rifornimenti salvo pagarli a caro prezzo o chiedere aiuti internazionali. In numerosi Paesi sono stati imposti prezzi controllati o sovvenzionati dallo Stato, appesantendo i bilanci pubblici. Ma ciò, nei Paesi meno sviluppati, ha favorito scaffali più vuoti e una maggiore offerta, a prezzi più alti, sul mercato nero.

Politiche miopi
L’elenco delle cause politiche che hanno contenuto l’offerta agricola prosegue: una parte dei terreni e della produzione agricola è stata destinata a biocombustibili con vari incentivi pubblici negli Stati Uniti, Unione Europea e Brasile; la Politica Agricola Comune (Pac) dell’Ue ha puntato a eliminare le sovrapproduzioni degli anni Novanta; la deregolamentazione dei mercati voluta dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, per favorire le importazioni e le esportazioni di alimenti verso e dai Paesi poveri, è degenerata in un oligopolio: poche imprese transnazionali controllano la grande produzione, la trasformazione e la distribuzione di cereali a livello internazionale, con un conseguente aumento dei costi d’importazione del 5%. La produzione di cereali è cresciuta meno del potenziale, secondo alcune accuse, per i limiti dell’Ue alla produzione e all’importazione di cereali e di altri prodotti agricoli geneticamente modificati. Ma soprattutto le politiche, di fatto protezionistiche, dei sussidi agricoli e dei vincoli sanitari alle importazione alimentari di Usa, Ue, Giappone ecc. non hanno reso conveniente ai Paesi poveri investire nelle produzioni alimentari per l’esportazione,contenendo così l’offerta globale e mantenendo sottodimensionato il proprio settore agricolo. Anche la politica degli aiuti alimentari dei principali Paesi,ricchi, soprattutto degli Usa, non ha favorito l’aumento della produzione agricola nei Paesi poveri. Questi aiuti infatti consistono nell’acquisto di derrate dai propri produttori nazionali per poi rivenderle a basso prezzo o regalarle agli Stati bisognosi, anche tramite enti internazionali e organizzazioni non governative. In questo modo non si è incentivata la crescita del settore primario dei Paesi colpiti da insicurezza alimentare. Anzi, molti piccoli produttori locali non offrivano più un prodotto concorrenziale rispetto alle derrate straniere e si sono ritirati dal mercato, limitandosi a una produzione di autosostentamento familiare. Così, ancora una volta, non è stata favorita la crescita dei piccoli produttori locali, e sono aumentati coloro che non sono usciti dalla trappola della povertà o che sono andati ad affollare le periferie urbane o hanno tentato la fortuna emigrando. Per tutto questo, il presidente senegalese A. Wade il 4 maggio ha dichiarato pubblicamente che gran parte del sistema di aiuto delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative è inefficiente; in più ha chiesto di abolire la Fao perché gran parte delle sue spese è concentrata in costi burocratici e, quindi, di dirottarne i fondi nel Programma Alimentare Mondiale, che acquista circa il 70% delle derrate alimentari nei Paesi poveri. Ma la Fao è l’unica agenzia al mondo ad avere le conoscenze sul problema della fame e dell’alimentazione e a raccogliere e aggiornare i dati sulla materia. In attesa che l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il G8 e anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intervengano, è ancora la Fao il più significativo forum mondiale per proporre e assumere solennemente una politica mondiale comune della sicurezza alimentare, che non merita meno attenzione delle crisi energetica, militare, commerciale e ambientale.




Gli esperti: la campagna "rischia di scomparire"


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E’ ancora e superdibattito sulla “città che si svende” e sul “paesaggio che cambia”. Un “reticolo di cemento” – scrive su “Repubblica” Marina Cavalieri – “invade silenziosamente il territorio”. Gli esperti lo chiamano “dispersione urbana” o, più ottimisticamente “città diffusa”. E’ la fine della divisione tra città e campagna a cui si assiste ormai da anni, è l’avvento della città unica, senza confini. Milano, Roma, Napoli, Torino sono gli agglomerati più vasti dove si assiste all’espansione continua nello spazio circostante. Una trasformazione geografica epocale che dilaga senza incontrare ostacoli, un’aggressione dei terreni dovuta anche alla svendita incontrollata di pezzi di territorio messa in atto dai comuni, autorizzata dai sindaci per fare cassa. In Italia l’80 per cento della popolazione vive ormai nel 5 per cento del territorio, lo sottolinea il rapporto 2008 della Società geografica italiana “L’Italia delle città, tra malessere e trasfigurazione”. In duecento pagine i curatori fanno un’analisi di quello che sta accadendo sul suolo, ai paesaggi. Le città sono cambiate, dicono i geografi, per l’immaginario collettivo sono ancora quelle di un secolo fa, ma a quell’idea corrispondono ormai solo i centri storici, al posto della vecchia urbs ci sono agglomerati senza confini e senza gerarchie. «Il 5 per cento del territorio italiano è occupato da agglomerazioni urbane dove vive l’80 per cento della popolazione mentre il 7 per cento degli abitanti occupa il 20 per cento», spiega Giuseppe Dematteis, coordinatore del rapporto e professore di Geografia urbana al Politecnico di Torino. «Fuori dalle grandi agglomerazioni c’è una dispersione che consuma suolo con danni rilevanti per la campagna e il paesaggio, per la mancanza di infra-strutture. È una devastazione permessa dai comuni che danno le autorizzazioni pur di ricavare risorse, i comuni infatti concedono autorizzazioni per costruire case in zone agricole o mettere fila di capannoni lungo le strade, per questo incassano gli oneri di urbanizzazione e I’ici, sono cifre enormi, a cui si aggiungono tutte le collusioni tra costruttori e amministratori». Su questa svendita del territorio non ci sono dati: «II grosso del cambiamento c’è stato fino agli anni ’70, con le ondate migratone, ma non è mai terminato e continua l’aggressione di terreni sempre più rari». La città diffusa, è scritto nel rapporto, è una realtà non soltanto italiana ma nel nostro Paese ha assunto una pervasività e un’intensità uniche, come nelle aree di industrializzazione nel Centro-Nord. Città che si ramificano, si dissolvono dando vita a un altro fenomeno incontrollato, quello della dispersione abitativa. «È terribile vedere le aree di pianura invase da case», dice Edoardo Salzano, urbanista che ha dedicato molte analisi e battaglie allo sprawl. È questo il termine inglese usato già negli anni Cinquanta per la crescita urbana senza regole. «Nelle altre città europee e’ è una linea netta tra città e campagna, da noi c’è una linea continua autorizzata dalle leggi. 11 fenomeno, che è sempre esistito, è andato via via peggiorando, un decreto alcuni anni fa, consentì di utilizzare i finanziamenti derivanti dagli oneri di urbanizzazione per il bilancio comunale, da quel momento i sindaci con difficoltà di cassa hanno aumentato il numero delle concessioni edilizie. Ora come se non bastasse c’è stato il decreto legge del giugno scorso, di cui nessuno ha parlato, che impone a comuni, province e regioni di fare V elenco delle proprietà immobiliari per venderle o metterle a reddito, risorse pubbliche devono essere trasformate in qualcosa che renda». Intanto il territorio si trasforma e diventa altro. Addio quindi alla città e addio anche alla campagna. Al loro posto ecco le aree metropolitane, la regione-urbana, le città-regioni, termini burocratici per esorcizzare il fantasma della megalopoli.




Italia: il territorio lo stanno saccheggiando


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In Italia, si sta distruggendo un adelle maggiori ricchezze collettive: il territorio. E’ quanto ha denunciato di recente il presidente dell’ANBI, Massimo Gargano, che ha fatto riferimento ad una indagine condotta dall’Associazione insieme alla SWG sulla percezione, da parte dei cittadini, della sicurezza e difesa del suolo. Perchè “cementificazione e degrado stanno pregiudicando un territorio vasto quanto Sicilia e Sardegna. Se il territorio è una ricchezza inestimabile del sistema-Italia, ogni giorno il Paese diventa piu’ povero”. E tra le principali cause di questa situazione “sono indicate il progressivo disboscamento e l’irrefrenabile cementificazione del territorio.”

Il censimento dell’agricoltura, effettuato nel 1990, rilevava una Superficie Agricola Utile (SAU), pari a 15.045.900 ettari, vale a dire il 50% del territorio nazionale. Un rilevamento ISTAT-INEA del 2003 indicava, in soli 13 anni, la scomparsa di ben 2.927.108 ettari agricoli, pari al 19,4%. Ipotizzando analoga tendenza per i successivi 13 anni (allo stato attuale non c’è motivo per dubitarne), la campagna si contrarrebbe di ulteriori 5.284.761 ettari, pari al 17,5% della superficie italiana, un’area superiore alle regioni Sicilia e Sardegna! Nel Lazio, ad esempio, scomparirebbe l’intera superficie della provincia di Viterbo; nelle Marche, oltre la metà della provincia di Ancona; in Sicilia, un territorio superiore alla somma delle province di Catania e Trapani. Se consideriamo che ogni ettaro incolto o cementificato aumenta le difficoltà di gestione idraulica del territorio e che il 68,6% dei Comuni italiani ricade in aree ad alto rischio idrogeologico, capiamo a quali pericoli va incontro un Paese, come l’Italia, capace di destinare alla prevenzione dai dissesti naturali non più del 5% del reale fabbisogno indicato dal Ministero dell’Ambiente, ancora nel 2003, in oltre 39 miliardi di euro.

Nella Legge Finanziaria 2008 restano destinasti, alla difesa del suolo, 5 milioni di euro di interventi nei piccoli comuni e 26,5 milioni di euro per la mitigazione del rischio idrogeologico, per la tutela e riqualificazione dell’assetto del territorio, nonché per l’incentivazione alla permanenza delle popolazioni nelle aree montane e collinari.

Inoltre viene autorizzata la spesa di 500.000 euro, per ciascuno degli anni 2008,2009 e 2010, finalizzata a interventi nella regione fluviale del fiume Po. “È evidente – conclude Gargano – che la difesa del suolo continua a non essere riconosciuta tra le priorità del Paese, nonostante la sicurezza territoriale sia un indispensabile fattore per qualsiasi ipotesi di sviluppo. In realtà il problema nazionale è la frammentazione dei suoli agricoli. Ciò significa che manca ed è mancata una politica di salvaguardia del territorio agricolo che avrebbe dovuto essere sollecitata dalle Organizzazioni Professionali agricole. Infatti, per esempio, 35 ettari al giorno nel Lazio, 18 in Lombardia e via continuando, vengono ogni giorno costruiti, cioè sottratti all’agricoltura”. Raccapricciante! Ma nessuno si illuda perché tutto continuerà come prima.




Ricerca: fanale di coda indietro di oltre 50 anni


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In una recente “giornata” che la Confindustria ha dedicato allo stato della ricerca in Italia, sono emerse cifre impressionanti. Ma poi, anche a livello di intervento governativo, nessuno ha detto più niente. Neanche a Sinistra se ne parla. Come se la politica potesse in girotondi e in interventi radio-TV sul sesso orale!

Eppure nel convegno – e qui seguiamo quanto pubblicò, con ottima documentazione di supporto, Luciano Costantini sul “Messaggero”- erano emersi “numeri da terzo mondo, anzi peggio, elencati in presa diretta”.

Ecco quale è la situazione:su 30 Paesi Ocse siamo ventitre-esimi per spesa in ricerca sul Pil; Francia e Germania spendono per lo sviluppo rispettivamente il 2,6% e il 2,3% del Pil contro l’1,1% dell’Italia; abbiamo appena 2,8 ricercatori per mille abitanti, contro i 3,3 della Germania e della Francia. «Il ritardo che abbiamo accumulato – sottolinea con amarezza Pistorio – prima ha portato al rallentamento della produttività, poi alla stagnazione e, negli ultimi sette anni, ad una decrescita dell’1,4% contro la crescita del 7% in Francia e Germania e del 13% nel Regno Unito». Prospettive assai fosche, sintetizzate, da un altro numero: serviranno 53 anni, cioè più di mezzo secolo, per raggiungere la performance della media europea, se manterremo invariato l’attuale impegno. E il risultato non è per nulla garantito. Previsione amara, mentre – puntualizza il vice di Confindustria – i ricercatori «costituiscono il vero e unico motore per il futuro». E di rifare il motore c’è bisogno. Lo dice in sala uno che di motori se ne intende, Luca Cordero di Montezemolo. Il leader degli industriali ringrazia Pistorio «per l’aria fresca che ha portato a viale dell’Astronomia», poi insiste su un concetto noto: la bassa crescita del nostro Paese: «Cambiano i governi, ma il problema resta: nel 2004 non crescevamo, nel 2008 neppure, dal 2000 la stagnazione è il comune denominatore dell’economia italiana. Gli altri Paesi hanno il raffreddore, noi la polmonite. Il fatto è che i nodi stanno venendo al pettine, le non scelte di tanti anni le stiamo pagando oggi. Chi non investe sulla ricerca, non investe sul proprio futuro. E comunque non si può accettare che un ricercatore guadagni quanto una colf».

Nell’occasione si è anche appreso che l’Italia “investe” nei giovani ricercatori e nella ricerca, l’1,’ del Pil, e cioè molto meno di Francia e Germania, di India e Cina. Precisa ancora Luciano Maiani, presidente designato del CNR:”«Dopo Lisbona, gli altri paesi si sono incamminati nella giusta direzione: maggiori investimenti in innovazione e ricerca. Noi siamo fermi da decenni. Nei primi anni 90, quando presiedevo l’Istituto nazionale fisica nucleare, in Italia la spesa per la ricerca èra dell’ 1,4% del Pil».
Questo è dovuta anche all’atteggiamento della politica nei confronti della scienza?

«La natura bipartisan della scienza deve essere garantita, come hanno chiesto proprio gli scienziati, a partire dal Nobel Levi Montalcini. E poi si è contratta la spesa dell’industria per la ricerca, oggi ferma allo 0,2 del Pil. Dati che non trovano riscontro nei Paesi industrializzati. Ciò significa che i giovani, dopo gli studi, non trovano lavoro nelle imprese. E sarà difficile cambiare le cose anche nel mondo accademico se l’industria non compra la ricerca italiana».