Scrive Gian Antonio Stella: Corte dei Conti e Sicilia "il bilancio è catastrofico"


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Non bisogna mai “dimenticarsi” delle Regioni a statuto speciale, dove avvengono vicende che sono poco seguite, mentre dovrebbero formare oggetto di profonda riflessione. Dobbiamo quindi ringraziare Gian Antonio Stella giornalista e autore di volumi, dei quali siamo stati, e siamo lettori “accaniti” – che scrive de ” I parlamentari siciliani e gli stipendi d’oro”

Leggiamo insieme, un testo che, se ne avevamo i mezzi, avremmo fotografato in centinaia di migliaia di esemplari fatti circolare ovunque, in tutta Italia; e fatti conoscere soprattutto a quei giovani – milioni!- che hanno un lavoro precario; o il lavoro non ce l’hanno affatto benchè lo cerchino da anni.

Scrive dunque Gian Antonio Stella: Non potevano scegliere un momento migliore, i deputati dell’Assemblea regionale siciliana, per aumentarsi di straforo lo stipendio coi giochetti furbetti. Proprio ieri, infatti, la relazione del procuratore generale della Corte dei Conti isolana Giovanni Coppola ha letteralmente fatto a pezzi il bilancio consuntivo della Regione. Bilancio che si può riassumere con un solo aggettivo: catastrofico. Pochi punti: la spesa pubblica regionale, alla faccia di tutti gli impegni presi dal centro-destra da anni al governo, è salita a 15 miliardi di euro, con un’impennata dell’8% sul 2006.1 vari assessorati hanno distribuito una enormità di consulenze fornendo per di più dati «incompleti e parziali, mancando un meccanismo centralizzato di controllo». I dipendenti sono cresciuti fino al numero abnorme di 21.104 (di cui 2.245 dirigenti: uno ogni nove addetti) con un aumento di 6.859 assunti, col risultato che «in Sicilia c’è un dipendente regionale ogni 239 abitanti, mentre in Lombardia il rapporto è di uno ogni 2.500» (dieci volte più basso) e una spesa per le buste paga di quasi un miliardo di euro. I corsi di formazione professionale (302 milioni di euro) sono stati 3.069 con gli obiettivi «più disparati», sono costati «circa 100 mila euro» l’uno e hanno avuto in media «appena 15 iscritti» dimostrandosi più utili «agli enti che li organizzano piuttosto che ai giovani che li frequentano». Non bastasse, ecco la ciliegina sulla torta: nel 2007 la sgarrupata sanità siciliana è costata 8 miliardi e 500 milioni di euro: 1.711 prò capite. In pratica, accusa la magistratura contabile, «nell’isola si è speso il 30% In più di quanto si spende per la sanità in Finlandia», un Paese con un territorio più grande dell’Italia, 300 mila abitanti più della Sicilia «e un servizio sanitario tra i più efficienti del mondo».

Bene: in questo contesto disastroso che toglierebbe il sonno a ogni amministratore con la testa sul collo, cosa ha deciso l’ineffabile maggioranza che governa l’isola? Ha deciso che le prebende che mensilmente ricompensano il lavoro (si fa per dire…) dei deputati regionali, che già sono in varie voci parificate a quelle del Senato e possono arrivare con diarie e rimborsi e indennità varie per viaggi e spese telefoniche a oltre 19 mila euro (tra i 10 e gli 11 mila netti) sono insufficienti. «Siamo 0 non siamo uno dei più antichi parlamenti del mondo?» Così, visto che le buste paga sono ancora più gratificanti nel caso il deputato faccia parte del Consiglio di Presidenza (7.700 euro lorde in più al presidente, circa 5 mila ai due vice) oppure abbia qualche delega da assessore (otto, con una integrazione di 2.600 euro) 0 ancora sia ai vertici di qualche commissione, hanno stabilito di moltiplicare queste commissioni facendole diventare dieci.

Risultato finale? Antonella Romano, sulla Repubblica di Palermo, ha fatto i conti: calcolando che godono di ulteriori supplementi anche i capigruppo e i loro vice, su 90 consiglieri i «graduati» salgono dai 53 della scorsa legislatura a 72. Con un aumento secco di un terzo. E le polemiche sulla Casta, i costi della politica, la necessità di tagliare? Ciao. E le promesse elettorali di imprimere una svolta a certi indecenti privilegi di quelli che Luigi Ei-naudi chiamava «i padreterni»? E chissenefrega, ormai le elezioni ci sono state…

Pino Rauti



Ma quanto è grande la Roma più antica?


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Non siamo noi a porre la domanda; lo pongono, questo “quesito”, che ricade ovviamente sulla politica urbanistica e sulle iniziative culturali del Comune, i tanti rinvenimenti e le costanti scoperte che si avvoverano sul versante dell’antica Roma.

leggiamo per esempio quanto è stato scritto – in particolare da Carlo Alberto Bucci, bravo esperto del settore, su “Repubblica” – sulla Domus del Gianicolo; ed anche quanto ha dichiarato in merito, Adriano La Regina.

Gli ultimi ritrovamenti nella domus del Gianicolo appaiono importanti perché co stituiscono l’integrazione di quell’edificio emerso nel 1999 e noto solo in parte». Appena nominato dal Comune tra i 5 saggi che dovranno esprimersi sul progetto del contestato parcheggio al Pincio, Adriano La Regina era soprintendente negli anni del parking per il Giubileo del 2000 e del braccio di ferro con il sindaco di allora, Francesco Rutelli, per sottopasso di Castel Sant’Angelo. L’archeologo ricorda bene gli interventi e le polemiche di allora. E guarda con attenzione ai ritrovamenti dovuti ai nuovi scavi che, secondo il Provveditorato alle opere pubbliche del Lazio, saranno interrotti a fine luglio.

Come valuta i nuovi ritrovamenti al Gianicolo?
«Era prevedibile che l’edificicio ai piedi del colle sul Tevere proseguisse ben oltre il tratto attraversato dalla cosiddetta rampa Torlonia. Tanto che il decreto del consiglio dei ministri del dicembre 1999 prevedeva che si continuassero le esplorazioni archeologiche. Ma sanciva anche che, in caso di scoperte eccezionali, si tornasse, diciamo così, all’antico».

Quel decreto, firmato dall’allora premier D’Alema, fu per lei un boccone amaro da buttare giu’.
«Certo, ero, e sono ancora, contrario alla realizzazione del parcheggio e della rampa. Eppure quel decreto che, a quanto mi risulta, è ancora valido, era ben congegnato. Nel punto che dice, ma è meglio che io legga: In caso di rinvenimenti di eccezionale rilievo dovranno essere adottate soluzioni idonee a garantire l’unitarietà del complesso, anche mediante ricollocazione in sito dei reperti attualmente collocati all’interno della galleria e ripristino dello stato dei luoghi».

Si tratterebbe insomma di apportare modifiche agli accessi al parking del Gianicolo. Togliere la rampa e ricostruire la Vlla?
«Siamo tutti consapevoli che non è questa la soluzione. Ma il decreto ministeriale del dicembre di nove anni fa lascia aperta una seconda porta: prevede infatti che, se vengono alla luce resti di particolare rilievo, dovranno essere adottate soluzioni idonee a garantire la loro conservazione, valorizzazione e fruibilità. È quindi legittimo sapere esattamente cosa è stato rinvenuto negli ultimi due anni per predisporre un piano di tutela e musealizzazione di ciò che resta della domus dì Agrippina».

E infine, ecco la risposta alle due domande conclusive

Gli scavi e le indagini della Soprintendenza non sono ancora finiti.
«Leggo però che il Provveditorato alle opere pubbliche ha predisposto la copertura dei resti rinvenuti. Mi sembra un affrettato seppellimento che sembra presentarsi nelle intenzioni del tutto definitivo».

Perché è importante la domus del Gianicolo?
«Fa parte di un grande possedimento della famiglia imperiale noto con il nome di horti di Agrippina maggiore. Era appartenuto al padre, Agrippa, il grande generale di Augusto e, prima ancora, almeno in parte ad Antonio. Le proprietà di Agrippa a Trastevere furono ereditate dalla figlia e poi dai due figli di questa, Caligola e Giulia Agrippina minor. Il compendio rimase nelle proprietà imperiale almeno fino ad Adriano, che vi costruì il Mausoleo. La principale sede di rappresentanza era co-stituita dagli splendidi edifici che costituivano la villa Farnesina alla Lungara da cui provengono gli affreschi di palazzo Massimo. La domus in corso di scavo, costruita a partire dal II secolo, è parte integrante di questo straordinario complesso imperiale».




I tempi "stralunghi" della Giustizia Italiana


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E’ strano – ma è tragicamente italiano – che si continui a discutere di Giustizia senza tener conto della realtà; e cioè di come funziona la “struttura”, di come concretamente opera; e cioè all’insegna della lentezza.

Caso unico -attenzione!- in Europa e nel mondo intero. Perchè non c’è un solo Paese al mondo dove i processi e i procedimenti giudiziari in genere durano, si trascinano e “annaspano” come avviene da noi

Le liste d’attesa dei Tribunali – leggiamo su “Libero” a firma di Gabriele Mastellarini – variano dai 3 anni di Roma ai quasi 5 anni di Venezia, ecco una prima cifra da tenere a mente. Leggiamo ancora: Un processo d’appello? Tra. quattro anni. E se va male? Si presenti nel 2015. E poi? Poi c’è la Cassazione. «Non ho il tempo di aspettare», ha scritto un’arzilla 85enne al Presidente del Tribunale di Macerata dopo aver appreso dal suo avvocato che, per un impedimento del giudice designato, una causa civile del 2002 per una vendita immobiliare era stata rinviata d’ufficio al 2011. A Venezia, la neo presidente della Corte d’Appello, Manuela Romei Pa-setti, ha sciorinato i dati dei processi pendenti in Veneto: 1.326 appelli civili si terranno nel 2012, 937 nel 2013,263 nel 2014 e ora la cancelleria ha aperto il librane per il 2015, incardinando già 135 processi di secondo grado. Ma come funziona? «I ricorsi arrivano al Presidente della Corte d’Appello che li rimanda ai singoli Presidenti di Sezione (civile o penale) ai quali spetta decidere la data della discussione che arriva dopo molti anni, visto l’enorme carico di lavoro pendente», spiega l’avvocato Giuseppe Cichella, docente alla scuola distrettuale di diritto penale, con studi dislocati tra Pescara, L’Aquila e Roma. Quanti? «Nella Corte d’Appello di Roma per una causa di lavoro bisogna attendere almeno quattro anni e mezzo. Se io mi presentassi oggi, mi rimetterebbero d’ufficio ai primi del 2013. Pensate a un dipendente che chiede di essere reintegrato dopo essere stato licenziato ingiustamente? Per una controversia penale a Roma – continua l’avvocato Cichella – la media è di tre anni, ma varia in base al tipo di reato, alle condizioni dell’imputato (se è detenuto o libero), mentre per incardinare un appello civile passano i “soliti” quattro anni». Alla Corte d’Appello dell’Aquila ci vogliono 48-54 mesi per un appello penale e, di recente, il conto delle cause è reso ancora più pesante dalle richieste di risarcimento danni per ingiusta detenzione, in gran parte afferenti al Tribunale di Teramo”

Ancora a Brescia. Nel discorso di apertura dellanno giudiziario, il dott. Mario Sannite ha detto: «In sintesi, sia nel civile sia nel penale – ha spiegato il magistrato – si può affermare che la durata dei processi nel distretto bresciano non è conforme al principio di ragionevolezza, con l’inevitabile conseguenza che, in applicazione della cosiddetta legge Pinto, lo Stato è costretto a corrispondere un indennizzo economico a chi subisce i tempi eccessivamente lunghi di un processo»

Va meglio a Milano: «Garantiamo la fissazione per il 2009» ci dicono dalla cancelleria di una delle tante affollatissime sezioni penali. L’anno scorso nel capoluogo lombardo sono stati depositati 7.400 appelli civili che verranno esaminati tra due anni e due mesi, mentre per le controversie relative al diritto di famiglia passano 11 mesi e un anno e sette mesi per quelle di lavoro e previdenza. Situazione critica alla Corte d’Appello di Ancona: «Ci vogliono quattro anni per discutere un appello di lavoro – spiega Luigina Giansante, consigliere dell’Ordine Avvocati di Ascoli Piceno – mentre nel civile almeno tre anni e mezzo. Per noi legali – continua – è diffìcile dirlo al cliente che vorrebbe una giustizia rapida». Invece si viaggia a passo di lumaca. «Al Tribunale di Ascoli sono ancora pendenti alcuni fascicoli degli anni Settanta», rivela l’avvocato Giansante.

Finora il record è a Palermo dove una causa civile si è aperta nel febbraio del 1973 davanti al Tribunale e si è chiusa a marzo scorso in Cassazione dopo 35 anni e, pensate un po’, la Suprema Corte Civilele ha dovuto dichiarare la «cessata materia del contendere». Dopo sette lustri, nulla di fatto! Ora l’avvocato Ennio Palmigiano, delegato dagli eredi, citerà in giudizio lo Stato italiano per chiedere un risarcimento di almeno 150 mila euro vista l’irragionevole durata del processo. D ricorso è stato già depositato presso la Corte d’Appello di Caltanissetta e, ovviamente, è in attesa di fissazione.

Pino Rauti



Perchè vogliono "eliminare" tutto il cinema italiano?


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Leggiamo in un articolo di Franco Martini su “Repubblica”. Nessun film italiano parteciperà alla Biennale di Venezia, : alla Festa del Cinema di Roma e al Festival di Torino. E’ la clamorosa forma di protesta an-‘ nunciata dai registi italiani, ma anche dalle associazioni dei produttori e degli esercenti — Anica, Api ed Agis—in reazione alla cancellazione da parte del governo dei meccanismi di tax, credit. Si tratta di incentivi fisca li già funzionanti in molti paesi, europei, che, attivando nuovi investimenti, gravano relativamente sulle finanze pubbliche. «La forma di protesta—commenta Angelo Barbagallo, presidente dell’Api — è commisurata alla decisione del governo, del tutto incomprensibile, priva di senso, tanto più che i meccanismi previsti nascono da un” provvedimento presentato a suo tempo dall’onorevole Carlucci e sul quale nella scorsa legislatura si era raggiunto un ampio consenso bipartisan». «Siamo esterrefatti — fa eco Riccardo Tozzi, presidente dei produttori dell’Anica — perché il tax credit appartiene esattamente ad una logica tremontiana, che punta a diminuire gli interventi pubblici a sostegno della cultura sostituendoli con risorse da recuperare sul mercato. Perché questo provvedimento sia stato affossato resta un mistero».”Non posso credere — azzarda il regista Paolo Virzì — che esista un disegno politico finalizzato alla cancellazione del cinema italiano: probabilmente si tratta solo di sciatteria, miopia, mancanza di capacità di governo in questo settore”.

La cosa è tanto piu’ strana ( e dunque sospetta) in quanto, appena assunto il suo incarico, ricordiamo il ministro Bondi aveva promesso, anzi si era decisamente impegnato a rimettere in funzione tutte le iniziative di difesa del cinema nazionale.

In un suo documento, il “movimento dei Centoautori”, chiede adesso le dimissioni di Bondi che – leggiamo ancora – con dichiarazioni importanti e ispirate sul ruolo della cultura e delle bellezza nel nostro paese si era impegnato a difendere queste misure vitali per rendere il nostro cinema competitivo con quello degli altri paesi».

Se Vincenzo Cerami, ministro della Cultura del governo ombra, dichiara che «quanto accaduto dimostrala volontà di mortificare la creatività e la vitalità del nostro paese» e l’Anac l’associazione degli autori, definisce la «strategia del governo l’azzeramento di qualsiasi voce libera e l’imposizione di un rigido controllo su tutte le attività espressive, tipico di incipienti forme di dittatura mediatica», anche dal centro destra si levano voci critiche. In un intervento apparso sul suo blog, Luca Barbareschi scrive: «C’è il rischio che con il maxi-emendamento della Finanziaria, tutta la fatica fatta in questi anni per ridare ossigeno al cinema italiano venga vanificata. In un momento in cui il cinema italiano torna protagonista sulla scena internazionale boicottarlo significa dargli l’ennesimo colpo di grazia e renderlo ininfluente sui mercati mondiali».

Barbareschi ( e tutto il centrodestra) non se lo chiedono; la domanda la facciamo noi: a beneficio di chi viene attuato questo “smantellamento” del cinema Italiano. E’ ovvio: l’unico beneficiario ne sarebbe il già dilagante cinema americano.

Pino Rauti



Tangentopoli a sinistra!


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Chi volesse la prova di come e di quanto sia ancora operante la “egemonia della sinistra” nella nostra società reale – intesa nel senso piu’ ampio e dunque inserendovi anche il mondo dell’informazione e dei mass-media – guardi a quello che sta accadendo a proposito dello scandalo UNIPOL. Che dovrebbe essere definito puramente e semplicemente “la Tangentopolo della sinistra”. Perchè di questo dsi tratta

Ma nessuno lo dice; e neanche la Destra, ci sembra; una Destra che su questo problema, emerso all’improvviso e con tanto fragore, pare ancora esitante a scatenarsi come invece potrebbe e dovrebbe fare.

Perchè i guai giudiziari e peggio, incalzano – a dirla appunto in sintesi ma con precisione assoluta- he no0n puo’ essere definito “il re della finanza rossa”.

Quel Consorte, come è stato già solidamente acquisito agli atti giudiziari, i legami tra Consorte e Fiorani vanno ben oltre le partecipazioni azionarie dei loro gruppi. Va coinvolto anche Emilio Gnutti. E ci sono anche “affari personali”, a cominciare da quel prestito di quattro milioni di euro concesso da BPL al numero uno di Unipol e degli altri dati al suo vice, Ivan Sacchetti “senza garanzie e in tempi record”.

Quasi 15 miliardi di vecchie lire! Tanto per avere in’idea piu’ chiara. Una disponibilità – attenta il 28 dicembre del 2004 – che permisealcune fulminee operazioni su titoli, che gli fecero guadagnare in proprio “una plusvalenza di + 1,7 milioni di euro”!




Italia: diventa più "anglosassone"


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Mentre va avanti, in termini di allargamento continuo, la “costruzione” di una più vasta Europa, l’Italia è contrassegnata soprattutto da una trasformazione profonda che ha un segno ben diverso: sta diventando sempre più anglosassone e specialmente “americana”.

Alcuni dati interessanti in questo senso sono stati esposti di recente su “Affari e Finanza” da Mauro Liera, un esperto di questo tipo di analisi. Il quale scrive -a proposito delle cifre pubblicate a fine anno sui guadagni da “stock option” di diversi manager di società quotate a piazza affari- che “anche in Italia si stanno verificando due fenomeni tipici delle economie anglosassoni” .Il primo fenomeno comporta la “polarizzazione della ricchezza”, come ha accertato uno studio della Banca d’Italia del 2004, con riferimento al 2002; bene, è avvenuto che “l’1% degli Italiani più ricchi detiene il 13% della ricchezza”; mentre nel 1991 -e cioè undici anni prima lo stesso 1% ne deteneva soltanto il 9. E’chiaro -continua Marco Liera- che con l’allargamento della forbice esistente anche in Italia fra retribuzioni dei top manager e quelle dei dipendenti “questa polarizzazione è destinata a rafforzarsi, al pari di ciò che sta accadendo da anni negli Stati Uniti”.

Stati Uniti; un Paese dove “nel 1970 lo stipendio medio degli amministratori delegati delle società incluse nell’indice «S”P500» era pari 30 volte a quello di un operaio, mentre nel 2002 è volato a 360 volte (non solo per gli aumenti delle retribuzioni dei top manager ma soprattutto per l’avvento delle stock option. “Insomma, in America, nell’America che è quotata in Borsa” i benestanti diventano più ricchi e la classe media, che ne costituisce la forza lavoro migliora più difficilmente il suo tenore di vita(anzi, a volte lo peggiora). E questo sta accadendo anche in Italia…

Ma il fenomeno non riguarda soltanto i “top manager” e gli imprenditori delle società quotate in Borsa; esso è “solo uno spicchio del generale arricchimento della «upper class» nazionale. Perchè gli interessati di cui stiamo leggendo sono “gli unici soggetti” per i quali i guadagni sono resi noti in modo continuativo. In realtà -prosegue Liera- esiste “una fascia numericamente assai più rilevante di persone che si arricchisce senza comunicarlo”. Tutti i propietari di imprese non quotate, per esempio…




Prodi che non sa....


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Quando un presidente del Consiglio scrive, di solito, si pensa che egli sia bene informato sulle cifre che cita; non è il caso di Prodi preso clamorosamente in castagna dal presidente di Manageritalia.

Claudio Pasini, che dirige la Federazione nazionale dei dirigenti, quadri e professionali del Commercio, Trasporti, Turismo, Servizi e del Terziario Avanzato riferisce alla “lunga lettera” pubblicata sul “Corriere della Sera” nella quale Prodi comunicava di “aver riflettuto nei giorni di Pasqua” su alcuni dati di fatto; e scriveva tra l’altro che “i dirigenti delle imprese italiane hanno goduto durante il 2006, di aumenti medi di retribuzione del 17% rispetto all’anno precedente, cioè 8 volte il tasso d’inflazione. Paradossalmente, se non guadagnano almeno 2,5 milioni di euro all’anno, essi non entrano nemmeno nella classifica dei primi cinquanta manager italiani”. Per documentare questa affermazione – scrive Pasini- Lei rinvia a il Sole 24 Ore dell’8 aprile scorso e all’allegata tabella dei 100 top manager di società quotate a Piazza Affari. Ma esaminando con attenzione l’elenco si scopre che per il 30% circa si tratta di banchieri e assicuratori, per il 20% di imprenditori, per un altro 10-15% di alti dirigenti di aziende pubbliche, parapubbliche o di recente privatizzazione, per la parte rimanente infine si tratta di amministratori delegati di grandi gruppi.

Crediamo di comprendere il senso del messaggio, ma se questi sono gli elementi sui quali il Governo basa le proprie riflessioni per decidere possibili correttivi, quale Presidente di Manageritalia, Organizzazione sindacale di rappresentanza e tutela degli interessi dei manager delle imprese italiane del terziario, sono veramente sbalordito di un tale accostamento fra trattamenti retributivi ed emolumenti dei “top 100″ di questo Paese con le retribuzioni medie dei “dirigenti delle imprese italiane”, come Lei scrive. In realtà, i dirigenti d’impresa privati nel nostro Paese nel 2005 sono circa 186.000, con uno stipendio medio lordo annuo nel 2006 di 99.447 euro, comprensivo della retribuzione variabile effettivamente legata alla produttività aziendale (fonte: OD&M Consulting, VIII Rapporto sulle retribuzioni in Italia 2007). Francamente spiace che un politico e ancor prima uno studioso come Lei, attento alla realtà economica e sociale del nostro Paese, cada nell’equivoco provocato da quanti, sbagliando, confondono le super retribuzioni da capogiro di un centinaio di cosiddetti top manager con la retribuzione media, di importo ben diverso, di un’intera categoria di decine di migliala di dirigenti. È vero, abbiamo retribuzioni più alte rispetto alla media degli altri lavoratori dipendenti, ma secondo una proporzione relativa alle diverse responsabilità e rischi professionali che si corrono.

Nessuna distanza retributiva siderale dunque, considerando anche che la categoria dirigenziale è composta da professionisti che si trovano in prima linea, esposti all’alea del quotidiano confronto con i risultati da produrre. II vero profilo del manager italiano non è affatto quello di un privilegiato, come lascerebbe intendere la Sua lettera, bensì, per larghissima parte, quello di uno specialista nell’organizzazione e gestione delle diverse unità aziendali, che deve raggiungere gli obiettivi assegnati mediante l’assunzione di decisioni efficaci sull’impiego delle risorse e, per un numero infinitamente minore, quello di responsabile delle scelte strategiche e della definizione degli obiettivi dell’impresa o dell’organizzazione. Oltretutto siamo anche contribuenti leali: rappresentiamo appena lo 0,5% dei contribuenti italiani, ma contribuiamo per quasi il 6% del gettito complessivo e siamo sempre tra i primi, essendo soggetti a tassazione alla fonte, ad essere interessati e, duramente, da manovre fiscali e finanziarie.

Signor Presidente del Consiglio, se davvero intende combattere immotivati e ingiustificabili privilegi e situazioni ormai esplosive, ci permettiamo di consigliarLe di guardare in altre direzioni, a partire dai costi ormai fuori controllo del sistema politico-istituzionale nel nostro Paese…”




Quello che emerge grazie ai libri di Pansa


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E’ davvero sorprendente constatare con quale violenza e con quanta faziosa acrimonia la Sinistra si stia schierando contro Pansa, per il suo volume “La grande bugia”. Molto piu’ di quanto era accaduto per i 2 volumi precedenti. (“Il sangue dei vinti” e “Sconosciuto 1945″); e cio’ benchè si tratti, in tutti e tre i casi, di opere “mirate”, documentate, che fanno riferimento con tanto di nome e cognome, a episodi ben precisi

Resta da pensare che proprio fondata sulla Resistenza, questa Repubblica nella quale viviamo e che, se si indebolisce questo pilastro portatore, tutto passa a andare a ramengo.

Sui libri di Pansa, comunque, estremamente interessante il commento di Fabrizio Cecchitto su “Il Giornale”. Cicchitto sostiene che la contestazione non deriva dal fatto che questi libri “rivalutano” il fascismo (“In essi non c’e’ alcuna operazione di questo tipo”). Invece, al centro di questi volumi ” è il PCI, sulla base di una valutazione assai diversa, per non dire opposta a quella data dalla storiografia finora dominante che è stata segnata dalla organica egemonia del Pci.” Pansa ha aggiunto una approfondita ricerca («Il sangue dei vinti») per ciò che riguarda l’azione di consistenti gruppi di partigiani comunisti dopo il 25 aprile e la forza polemica di uno straordinario giornalista («La grande bugia»).

Cosi è stato provato che dobbiamo a Stalin e non a Togliatti -che era pronto a fare tutto quello che gli avrebbe indicato il gruppo dirigente del Pcus- se in Italia non c’è stata un’altra guerra civile dopo la Resistenza. Fu Stalin a ispirare a Togliatti nel marzo 1944 la «svolta di Salerno» e addirittura a teorizzare le vie «nazionali» per i partiti comunisti dell’Occidente.

Ovviamente – prosegue Ciecchetto- Stalin fece questa opzione non perché era un buon socialdemocratico e un riformista antelitteram, “ma per una fredda e lucida valutazione dei rapporti di forza intemazionali”. Successivamente però il gruppo dirigente del Pcus, da Stalin a Krusciov, a Breznev, a Andropov ha sempre ritenuto possibile una terza guerra mondiale e ha attrezzato in conseguenza il movimento comunista intemazionale: sono stati trovati i piani d’invasione del Patto di Varsavia di un pezzo d’Europa fino all’Italia del Nord e fino agli anni ’80 gli eserciti del Patto di Varsavia furono «posizionati» in chiave offensiva.

Da qui’, una conseguenza sulla quale sinora si è poco indugiato e ancor meno indagato: vi erano indubbiamente, tra il PCI e i suoi…dintorni gruppi a struttura militare.

Essi avevano avuto modo di “esprimersi” anche prima, durante la RSI (con l’attentato di via Rasella, l’assassinio di Gentile, l’uccisione -con scempio successivo- di Mussolini, la Petacci e dei gerarchi a Dongo e Piazzale Loreto) e poi, appunto con le uccisioni di massa di avversari, politici e di classe (preti compresi) dopo il 25 aprile. Ecco la conclusione del vice coordinatore nazionale di “Forza Italia”: In sostanza, accanto alla storia ideologica-politica-orgarnizzativa-finanziaria del Pci comincia finalmente ad emergere anche la storia militare del Pci finora rimasta «coperta». Molto ancora resta da accertare e analizzare. Quello che è stato finora accertato, però, fa saltare i nervi non solo agli estremisti di Reggio Emilia, ma anche a raffinati intellettuali come Giorgio Bocca e Angelo D’Orsi.

Pino Rauti



Tanto parlato di rientro ma poi, cosa è accaduto?


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Una delle parole-chiavi dello sviluppo nazionale è stato per mesi, anzi per anni, quella di “rientro”; il ritorno degli studiosi e dei ricercatori che se ne sono andati all’estero, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Ma poi cosa è accaduto? Cosa è avvenuto in concreto?

E’ scaduto il 31 gennaio la norma che permetteva le domande “per la chiamata diretta delle Università” che avrebbero potuto “assumere a tempo indeterminato” i 466 «cervelli» rientrati dall’estero, sottraendoli alla tentazione di riandarsene.

Leggiamo Anna Maria Sersale sul “Messaggero” che dei 466 invece solo pochi avranno un contratto stabile e che gli altri, nell’incertezza stanno appunto considerando la possibilità di rifare le valige.

Il belpaese ogni anno esporta trentamila ricercatori e ne importa soltanto tremila. Significa che vengono investite molte risorse nel formare studiosi che il nostro sistema non è poi in grado di trattenere. Questa fuga costa 8 miliardi di euro l’anno. Cifra stimata al ribasso, dicono gli esperti. Per tamponare una perdita così grave gli ultimi governi hanno tentato di riportare in patria i cervelli migliori, che erano emigrati nelle università e negli istituti di ricerca stranieri. «Un tentativo sostanzialmente fallito», sostengono i diretti interessati. La statistica più aggiornata, che comprende il 2006, dice che sono rientrati 466 studiosi di vari settori (prevalentemente scientifici, ma anche esperti di filosofia, giurisprudenza e architettura). Peccato che questo esercito di promettenti e superqualificati ricercatori sia di fatto spinto a riprendere il largo.Possibile che l’Italia, dopo avere sfornato un capitale umano tanto prezioso, gli chiuda le porte in taccia, regalandolo a Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Spagna e ora anche ai paesi emergenti, Cina e India?

Che cosa ci spinge a parlare tanto di sviluppo e innovazione per poi penalizzare chi potrebbe produrii? Secondo gli analisti i problemi sono almeno cinque: meccanismi anti-meritocratici; lavoro precario; arbitrio dei concorsi; taglio progressivo dei fondi destinati all’università e alla ricerca: lobby di potere che frenano i cambiamenti, prendendo il sopravvento sulle iniziative lodevoli, ma troppo fragili, del ministero e del governo. «Incredibile, ma spesso i cervelli rientrati sono stati utilizzati come “tappabuchi” – sostiene Augusto Palombini, dell’Associazione dottorandi e dottori d’Italia-Ci sonoftiiversità che li hanno di fatto utilizzati solo per la didattica». «Troppe rivalità interne, troppi “baroni” che non vedono di buon occhio l’ingresso dei giovani – osserva Guido Fiegna, del Comitato nazionale di valutazione degli atenei -. E poi, c’è il problema del Cun, il Consiglio universitario nazionale, che ha dato interpretazioni restrittive della legge sul rientro dei cervelli, aggrappandosi a una serie di cavilli burocratici». «Il Cun, che da un parere vincolante,-continua Palombini-ha sostenuto che per richiamare dall’estero i ricercatori non basta che abbiano lavorato tre o quattro anni fuori, documentando la loro attività, devono avere anche il titolo di ordinari o di associati, altrimenti finiremmo per creare un canale di reclutamento parallelo, senza concorsi, senza i controlli ai quali sono sottoposti i nostri, rimasti in Italia».

Tra gli scienziati cresce lo scetticismo. «Ci si domanda, se siamo stati attori inconsapevoli di una farsa, che senso ha far tornare i ricercatori, per poi farli ripartire?», chiede il Coordinamento dei Cervelli rientrati”, «L’Italia è uno dei paesi che investe meno in sviluppo e ricerca, costringendo così molti fra i migliori ricercatori a rifare le valigie», afferma ancora il Coordinamento, dei “cervelli rientrati” che dopo essere tornati in Italia o avere rinunciato a posizioni di prestigio, qui non trovano prospettive di lavoro. Se dei 466 rientrati solo una decina avraranno un contratto di lavoro a tempo indeterminato, c’è la palese contraddizione con il “Programma di rientro dei cervelli , inaugurato dal D.M. del 26 gennaio 2001 (Incentivi a favore della mobilità di studiosi italiani e stranieri impegnati all’estero), confermato dal D.M. del 20 marzo 2003 e dal D.M. del primo febbraio 2005. L’obiettivo è il recupero di studiosi di chiara fama o di studiosi che abbiano lavorato per almeno tré anni all’estero presso istituzioni prestigiose. «Il primo a porsi il problema fu Ruberti – afferma Gaetano Dammacco, segretario nazionale aggiunto della Cisi università – poi gli altri, soprattutto Berlinguer e Zecchino si dettero da fare. La Moratti irrobustì il piano, poi per problemi di cassa tagliò le risorse. E’ proprio la scarsità dei fondi una delle cause del fallimento di questo programma».

Pino Rauti



Perchè no, adesso alle basi americane...


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Attenti lettori alla rubrica quotidiana che Sergio Romano – spesso sostenendo tesi non molto in linea con quello del suo giornale- tiene con le “Lettere al Corriere”, stavolta non esitiamo a definire piu’ che eccellente la risposta data ad un lettore di bassano del Grappa, Gianpaolo Guidolini. Il quale gli chiedeva perchè mai, con i tempi che corrono, l’Italia dovrebbe opporsi all’apertura di una base USA a Vicenza.

E riprendiamo di seguito la lettera di Guidolini e la risposta di Sergio Romano che ci sembra davvero “far testo” sul problema basi statunitensi nel nostro Paese.

Scrive dunque il lettore: Ho letto con stupore la risposta in merito alla base Usa a Vicenza. Secondo la sua tesi sarebbe opportuno che gli americani lasciassero completamente l’Italia, in nome della sovranità dello Stato. Non sono d’accordo innanzitutto perché questo principio sarebbe dovuto valere anche durante la guerra fredda. Ma quello che più mi stupisce è che lei consideri l’Italia talmente sicura da permettersi di rinunciare alle basi Usa e quindi all’ombrello protettivo degli americani. Credo anzi che l’Italia abbia ancora bisogno degli americani e delle loro basi, visto che il mondo è ancora diviso in blocchi.

Un dato su tutti. Gli stati con l’atomica sono passati da 5 a 9. Esiste poi il fattore Nato, alleanza per l’autodifesa dei Paesi occidentali. Ebbene, in base al principio della sovranità dello Stato, chiudiamo anche queste basi? O forse, visto che sono di una organizzazione sopranazionale, devono restare? Ma se queste basi possono restare aperte in base a trattati internazionali che di fatto riducono la sovranità dello Stato, non si può far e lo stesso discorso per qualche convenzione con una Nazione alleata?

Non dimentichiamoci e non facciamo finta di non vedere che gli Usa non sono un semplice alleato, ma il fulcro dell’Occidente. Al contrario di lei, auspico che chi ha il potere di decidere le sorti delle basi americane le faccia rimanere per la sicurezza dell’Italia. Non vorrei che l’Italia si trovasse nella condizione di dipendere dalla difesa dell’Unione Europea che, come l’ha definita in modo sintetico ma efficace il presidente Cossiga, è «un gigante economico, un nano politico e un verme militare» GiampaoIo Guidolin — Bassano del Grappa (Vi).

Ecco la risposta di Sergio Romano:

Caro Guidolin,
mi spiace, ho dovuto tagliare una parte della sua lettera, troppo lunga, ma spero di averne conservato i punti essenziali.

Lei sostiene che la sovranità nazionale, in altri momenti, non ci ha impedito di accettare le basi americane e soprattutto la leadership degli Stati Uniti. E’ certamente naturale che ogni Paese, in tempo di guerra, rinunci in parte alla sua sovranità. Durante il primo conflitto mondiale gli inglesi e gli italiani accettarono di combattere in Europa sotto il comando di un generale francese. Durante la Seconda guerra mondiale la Gran Bretagna e i Paesi del Commonwealth riconobbero l’utilità di un comandante americano. E altrettanto accadde, nell’ambito della Nato, durante gli anni della guerra fredda. Ma alla base di queste decisioni vi sono naturalmente l’esistenza di un nemico comune e la necessità di una forte solidarietà. Oggi la situazione è radicalmente diversa. Il nemico comune è il terrorismo islamico d’ispirazione religiosa, ma il miglior modo per sconfiggerlo non è combattere guerre immotivate come quella irachena, smantellare strutture statali senza avere idee chiare sul sistema politico che dovrebbe prenderne il posto, creare condizioni d’insicurezza che provocano il risentimento della popolazione civile. In Iraq e per certi aspetti anche in Afghanistan, l’America ha creato il terreno su cui il fanatismo religioso può raccogliere sotto le proprie bandiere anche coloro che si battono, più semplicemente, contro l’occupazione straniera del loro Paese. Se l’America persegue una politica estera discutibile e non conforme ai nostri interessi, perché l’Italia dovrebbe ospitare basi che sono strumenti di quella politica?

È vero che il numero dei Paesi nucleari sta progressivamente aumentando. Ma vi sono due considerazioni di cui è necessario tener conto. In primo luogo la bomba, soprattutto per una potenza di media grandezza, è un’arma deterrente, destinata a garantirle una certa invulnerabilità di fronte a una potenza maggiore. Se la Corea del Nord se ne servisse, sarebbe oggetto, pressoché immediatamente, di una micidiale rappresaglia. In secondo luogo, il Trattato di non proliferazione, firmato il 1 ° luglio 1968, contemplava per i Paesi nucleari una sorta di reciprocità: l’obbligo di adoperarsi per il progressivo disarmo nucleare. Tutti e in particolare gli Stati Uniti, hanno continuato ad arricchire e a perfezionare il loro arsenale. Resta naturalmente il problema delle basi Nato, aperte sulla base di accordi con una organizzazione di cui l’Italia è membro. Ma l’organizzazione ha perso la sua originale ragione sociale e corre il rischio di essere usata, come nel caso dell’Afghanistan, quando Washington non può o non vuole portare a termine un lavoro lasciato a metà. Vi sono ottime ragioni per mantenere in vita l’Alleanza Atlantica. Ma ve ne sono altrettante per rivedere interamente gli accordi militari della Nato.

Per concludere, anch’io, caro Guidolin, so che non è possibile, per il momento, fare affidamento sulla forza militare dell’Europa. Ma il problema in questo caso è un altro: se sia opportuno affidarsi alla politica estera degli Stati Uniti”