Sinistra senza futuro


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In un intervento sul “Corriere della Sera” Angelo Panebianco si pone, e propone, una di quelle domande alle quali non è facile rispondere anche in virtù di un nominalismo che in mancanza di meglio tiene luogo di ogni altra ragionata certezza. Commentando la fuga dalla battaglia di Caserta dei partiti riformisti. Panebianco osserva che bisognerebbe «dare una occhiata più attenta alla natura di quei partiti… che siamo soliti chiamare riformisti perché è così che si sono sempre autodefiniti». Diciamo, intanto, che la stessa autodefinizione dei partiti dei quali si parla, Ds e Margherita, è assai recente. Per i Ds, risale solo all’inizio dell’avventura post-comunista, dopo la caduta del muro di Berlino e il collasso dell’Urss. Allo stesso modo è recente il riformismo della Margherita nella sua componente ex popolare ed ex De. Su queste basi dovrebbe nascere il Partito democratico che mettendo insieme per l’appunto «il riformismo socialista e quello cristiano» si propone come il rappresentante in Italia della sinistra progressista, per gran parte socialista, come si è andata formando nei vari Paesi europei. Ora l’inesattezza sta proprio in quella definizione, dei due partiti che dovrebbero costituire il Pd.

La definizione è inesatta, fino a sfiorare la mistificazione, per quel che riguarda la componente di radice comunista che nel passato più significativo ha sempre rivendicato, dinanzi alla socialdemocrazia, la sua natura rivoluzionaria. Neppure Giorgio Amendola, il più vicino nel vecchio Pci a quello che si intende per riformista, avrebbe accettato questa definizione. Anche perché il termine era considerato, nel vecchio Pci, come offensivo. La distinzione vale in certa misura anche per i post-Dc. Vi fu, nella vecchia De, una componente sociale cristiana, che però non coincideva con la sinistra «politica» di quel partito, da Dossetti alla «sinistra di Base» di De Mita.

Coincideva con una componente sociale, dapprima di origine sindacale, quella che con Pastore, Rapelli, Cappugi, dette vita alla Cisi, che poi si identificò in politica nella corrente «Forze Nuove» di Donat Cattin. Che si è sempre differenziata dalla sinistra «politica» della Dc per il governo, la via del potere legislativoe parlamentare. Un percorso non dissimile da quello di Berlinguer.

Si tratta di dati di origine storica e culturale, è vero, ma certi caratteri restano tuttora ben visibili soprattutto nei Ds: per la presenza, all’intemo del partito, di una corrente di sinistrai (Mussi, Salvi, Bandoli) che ha preannunciato la scissione e il ricongiungimento con i partiti comunisti coi quali il filo non è stato mai rotto. Ancor più, il legame dei Ds col passato è testimoniato dalla timidezza con la quale il partito conduce da sempre le sue battaglie, politiche e culturali, non solo nei riguardi dei partiti comunisti e della sinistra massimalista, ma anche nei confronti di taluni temi, in specie la politica estera, il pacifismo a senso unico, l’anti-americanismo, che richiamano un passato dal quale la separazione resta difficile. Il dubbio, per Panebianco, non riguarda solo la volontà riformistica dei gruppi dirigenti, ma anche l’orientamento di militanti ed elettori. Questi, in effetti, appaiono tutelati nei loro interessi in parte non esigua dal sindacato come ispiratore di politica generale, ma anche, come è per i sindacati di categoria, da strutture a carattere più schiettamente corporativo. E il sindacato è schierato per lo più proprio con la sinistra massimalista e più propriamente conservatrice.

Ma Panebianco – aggiungiamo ancora – dovrebbe anche chiedersi come e perchè il “richiamo del passato”, per gli ex o post comunisti possa prescindere dai risultati della esperienza comunista in quella Russia sovietica che pure aveva vinto la guerra e ssedeva , all’ONU, tra i vincitori del Consiglio di Sicurezza.

Ci può essere – come c’è – una minoranza abbastanza consistente di “rifondaroli” che ancora adoperano (senza remora ne vergogna!) il termine e il concetto di comunismo ma su quella strada non si va lontano in termini di consensi, di voti, di agibilità politica fuori da certe arre di un certo centrosinistrismo. Ma è anche vero che fuori dal “richiamo” al comunismo, sovietico o di altrove, resta solo la strada della socialdemocrazia, approdo un tempo tanto vituperato e addirittura disprezzato.
Per questo a noi sembra che la sinistra non abbia futuro. Può anche – forte degli errori altrui più che dei propri “meriti” – può anche stare al Governo ma avere un futuro è altra cosa.

E alla sinistra manca.




C'e' un'altra piaga il "beniculturalismo"


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Tra i dibattiti piu’ interessanti in corso su vari giornali – e soprattutto per quanto si è potuto leggere sul “Corriere della Sera”- vi è senz’altro quello del cosiddetto “beniculturalismo”

Anzitutto, vediamo di precisare di cosa si tratta; a parte qualche “divagazione” di troppo e per restare a quanto e comunemente ammesso, “beniculturalismo” e la tendenza ad utilizzare i Beni Culturali sempre di piu’ non tanto nei termini(“classici”, tradizionali, diciamo subito noi) degli interessi storico-artistici quanto in senso “economico” o tecnico/scentifico.

Appunto sul “Corriere della Sera” Mario Botta non solo lancia un pesante grido di allarme ma si dice convinto che andando avanti così, “l’Europa sarà un ricordo.

Botta si riferisce anche al libro “Gli storici dell’Arte e la peste”, per precisare come e perchè ci troviamo addosso quell’altra “piaga”; per effetto della quale quegli “interessi storico-artistici” ai quali accennavamo anzi, si ritrovano soggetti a “progressiva emarginazione” Ed è questo, “un atteggiamento largamente diffuso e condiviso purtroppo anche dai nuovi profili universitari che, complice la cosiddetta laurea breve, offrono piani di studi improntati a quello che si afferma essere un «sano pragmatismo». Così molte discipline creative, come l’urbanistica, l’architettura, il design, la conservazione del patrimonio o altre ancora si ritrovano (anche nel ciclo che porta ai “master”) ingabbiate in una miriade di programmi di settore che vede moltiplicarsi i corsi di insegnamenti tecnico-scientifici. È indubbio che queste discipline finalizzate a intervenire nella trasformazione dello spazio di vita, sono fortemente soggette alle leggi di mercato, per cui la tentazione politica di inventare scorciatoie affinchè i giovani possano rapidamente inserirsi nel circuito professionale è forte e sotto certi aspetti anche comprensibile. Ma di fronte alla crescita esponenziale della complessità e alla rapidità delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione, le semplificazioni e le approssimazioni tecnico-utilitaristiche appaiono insensate rispetto ai valori che hanno determinato la stratificazione e la storia della civiltà europea…”

Secondo Botta, è in atto “un inarrestabile appiattimento dei profili di studi” che allontana sempre di più dalle discipline umanistiche, in favore di una presunta superiorità delle scienze tecniche. Questo, io credo, costituisce un vero e proprio attentato a una possibile resistenza di fronte alla colonizzazione «globale». L’identità storico-artistica della vecchia Europa -conclude Botta- richiede ben altri atteggiamenti per riportare l’uomo al centro degli interessi delle future trasformazioni, nel tentativo di consolidare il modello di città occidentale e il suo territorio di memoria, che ancora offrono un primato nella qualità di vita rispetto agli esempi americani o asiatici ai quali sembrano fare riferimento i nuovi indirizzi accademici.”

Pino Rauti



Ma ci sono i controlli?


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La domanda puo’ sembrare provocatoria ma sembra legittima ed anzi doverosa, di fronte agli scandali che stanno emergendo a Roma – e non solo lì- in materia di conti pubblici. Perchè, con ogni evidenza, controlli non ci sono stati – e per anni ed anni!- se si sono potute organizzare attività criminose come quella dell’Anagrafe-bis, com la “diffusione” di migliaia di certificati e attestati fasulli!

Ma ci sono, adesso, altre vicende che emergono dalla cronaca e forse ancora più gravi per ciò che evidenziano e “denunciano”. Come quella che ha fatto scattare molte manette all’Ente di assistenza sanitaria dell’Eur romano, vedendo coinvolto in prima fila l’ex-direttore amministrativo della ASL.

E’ risultato che due funzionari “hanno firmato per anni falsi mandati di pagamento a favore di società fantasma o doppi pagamenti per forniture già saldate dalla stessa ASL.

Rileggiamo bene e riflettiamoci sopra: per anni…falsi mandati di pagamento…società fantasma…doppi pagamenti…e non è il caso di chiedere- diremmo, di gridare!- perchè non ci sono stati controlli di nessun genere a nessun livello, in nessun “momento” di una truffa che doveva apparire piu’ che facilmente evidente; e che almeno 6 milioni di euro; e cioè quasi 12 miliardi delle vecchie lire.

Nella ASL “incriminata” lavorano (per un bacino di 600.000 abitanti) lavorano 3.800 dipendenti, fra i quali 2.400 medici e infermieri e 1400 fra amministrativo, tecnici ed “ausiliari”. E come è potuto accadere, torniamo a chiedere, che nessuna di quelle persone addette all’amministrazione – e dunque anche ai controlli- si sia mai accorta di pagamenti a ditte “fantasma” o di pagamenti ripetuti.

L’impressione netta che emerge è che tutti lavorino con quella che a Roma, una volta, si definiva “menefreghismo”; ognuno firma frettolosamente e distrattamente le carte che gli arrivano sul tavolo e le passa al tavolo successivo. Poi si dedica al cellulare e ad internet…

“Temo che non si tratti di un caso isolato – ha dichiarato l’assessore regionale battaglia- e purtoppo dev’essere proprio così. Frattanto, in tutt’altro settore, c’e’ una denuncia precisa e un allarme ben definito, che chiamano anch’essi in causa i livelli effettivi di controllo: è l’area della contraffazione dei prodotti “griffati”. Secondo il presidente della camera di Commercio e il comandante della Guardia di Finanza “negli ultimi dieci anni il commercio delle “griffes” contraffatte è cresciuto del 1700%, a Roma e nel Lazio”

C’è un “dilagare di falsi” – sostengono e documentano Andrea Mondello e il comandante Roberto Speciale – dalle borse ai CD e perfino di prodotti alimentari. Tutto cio’ è stato denunciato in un Convegno intitolato “Il Fenomeno della contraffazione in Italia e nel Lazio”; ed è stato anche quantificato” il danno arrecato alla nostra economia; danno che oscilla fra i 3,5 e i 7 miliardi di euro, secondo gli ultimi dati, che però risalgono al 2003″. Danni che inoltre, sostiene Andrea Mondello, “hanno portato nel nostro Paese alla perdita di 125 mila posti di lavoro; 270 mila nell’economia dell’Occidente”.

C’è anche un preciso “risvolto” in termini di criminalità, perche’ – dice il comandante Roberto Speciale- “il 99% dei ricavati dei prodotti contraffatti vanno a finire nelle mani della criminalità organizzata, o peggio del terrorismo». La contraffazione, secondo Speciale, è in aumento esponenziale negli ultimi anni perché è più visibile. «Il 70% dei falsi – spiega Speciale – proviene dall’Estremo Oriente. E lo sviluppo del fenomeno – sottolinea – è indubbio che sia stato facilitato dalla diffusione di internet che ha aperto nuovi canali di distribuzione. Con la guardia di Finanza è per la linea dura, anche il direttore generale di Confindustria, Maurizio Berretta: «C’è troppa indulgenza nel trattare il fenomeno – ha detto – come se non si trattasse di una filiera criminale».

Pino Rauti



Ondata immigrazione


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Rapporto “Caritas Migrantes” sugli stranieri: la popolazione italiana, ormai cresce solo grazie agli immigrati; ne abbiamo sopra quota 3 milioni, ma tra dieci anni saranno il doppio, e cioè piu’ del 10% della popolazione; il 62% arriva in cerca di lavoro ma il 29% giunge per i ricongiungimenti familiari…e così via.

Cifre su cifre e statistiche a non finire.

Il “Rapporto” riferisce- secondo un’ottica che quando non è favorevole al fenomeno vi è ampiamente rassegnata, ritenendo “inevitabile” e comunque “inarrestabile” – qual’è la situazione attuale del flusso migratorio nel nostro Paese, che ha ormai ampiamente superato quello che è il numero degli immigrati in Inghilterra (2.657.000) e si attesta quasi a parità con la Francia, con i suoi 3.263.000 di stranieri.

Analizza il Rapporto, su “Repubblica”, Caterina Pasolini; che comincia con il sottolineare un dato di fatto estremamente importante in una Nazione come la nostra, ormai popolata in maggioranza da anziani; il 70% degli immigrati ha 40 anni di età e hanno nelle loro file il 12,5% di laureati contro il 7% nostrano, guadagnano ovviamente la metà degli italiani.

Contrariamente a quanto crediamo il maggior flusso di immigrazione arriva dall’Europa (5 su 10) 2 dall’Africa, 2 dall’Asia e solo 1 su 10 dal Centro e Sud America. Sono di religione diversa:i cristiani sono un milione e mezzo, con ortodossi e cattolici in egual numero, un milione i musulmani, l00mila gli induisti e buddisti e 350mila i non credenti. Immigrati dalle storie diverse, molti dei quali sono venuti per restare: 1 milione e 200mila quelli che vivono qui da più di 5 anni. Arrivati nel 62% dei casi per lavoro, nel 29% per motivi familiari, in Italia hanno deciso di portare mogli e fare figli (52mila i bambini nati nel 2005 da genitori stranieri) e sono riusciti a comprare casa col mutuo. I dati raccontano che il dal 12 al 15 percento di loro è proprietario dell’alloggio in cui vive, 116mila hanno acquistato l’abitazione nel 2005 facendo mutui mentre a Roma il 72 per cento vive in case di affitto. Ma il problema della casa, molti non affittano ad immigrati oppure i prezzi sono troppo alti, è una realtà quotidiana per molti: cosi più di 250mila non riescono ad avere la residenza perché non hanno un alloggio adeguato. Per vivere e lavorare hanno scelto soprattutto il nord; la sola Lombardia accoglie una quarto di tutti gli immigrati, Milano il 10,9% e Romal’l 1,4 ma si appresta ad essere scalzata anche perché molti scelgono di andare a vivere in provincia….”.

E’ cambiata molto anche la composizione della immigrazione: se infatti dall’Africa e dall’est inizialmente erano soprattutto uomini a varcare il confine in cerca di lavoro, ora ci sono schiere di donne che vengono in Italia, soprattutto dall’ex repubbliche russe, per fare le badanti, le bambinaie o le cameriere. Lasciando spesso i loro figli nel paese di origine come nell’Ottocento le balie che andavano ad allattare i figli dei ricchi lasciavano i loro in campagna. E se aumentano le donne che arrivano per lavoro, con la sicurezza del posto gli uomini partiti prima richiamano le loro mogli, riuniscono le famiglie. E così oggi la composizione degli stranieri vede uomini e donne presenti in Italia quasi in eguai numero. Otto su dieci comunque dicono che la loro vita in Italia è migliorata: il 91% ha il cellulare, l’80 per cento ha la tv, il 60 % ha il conto in banca e il 55 un’auto. «E il 75 % invia rimesse a casa,e siparla di 160 miliardi che creano sviluppo nei loro Paesi. Soldi che nessuno sarebbe disposto a dare alle loro nazioni», dice Franco Pittau della Caritas che ribadisce: «Abbiamo bisogno di loro, dall’assistenza familiare all’agricoltura. Non fanno concorrenza ai nostri lavoratori, anzi, suppliscono ad un vuoto. Ormai la popolazione italiana cresce solo grazie a loro»”.

Pino Rauti



Nozze addio e ogni 4 minuti una coppia "si sfascia"


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Dalla Francia agli Stati Uniti la coppia è in crisi. Oltr’Alpe sono sempre di piu’ gli utra50enni che divorziano. 92.000 nel 2004; il doppio rispetto a 10 anni fa. Oltre Atlantico, le coppie sposate sono meno di quelle di fatto o divorziate.

Altre cifre e curiosità: è Cipro la nazione europea in cui ci si sposa di più, con 14,5 matrimoni ogni mille abitanti. Decisamente più bassa l’incidenza negli altri paesi visto che mediamente in Europa il dato è pari a 4,9 matrimoni ogni mille abitanti. A segnare il primato negativo è la Slovenia, con sole 3,5 nozze ogni 1.000 abitanti. L’Italia è in posizione intermedia (con 4,3). Quanto all’età, gli sposi più giovani al primo matrimonio sono i lituani (25 anni), seguiti da polacchi, romeni (con 25,4 anni), lettoni, sloveni e slovacchi (25,7 anni). Sul fronte opposto, gli sposi più tardivi vivono in Svezia (31,3 anni) e in Danimarca (30,7); seguite da Grecia, Francia (29,2 anni) e Spagna (29,1). In Italia, l’età media al matrimonio tra il 2000 e il 2002 (periodo cui è riferito il confronto) era di 29,9 anni. Un dato superiore all’età media dei 15 Paesi dell’Unione europea (28,9 anni) e a quella dell’Europa a 25 (28,4 anni). Estonia, Lettonia e Repubblica Ceca registrano il più alto tasso di divorzi in Europa (3,1 ogni 1.000 abitanti). Irlanda e Italia, entrambi paesi con una forte tradizione cattolica, registrano invece i valori più bassi (0,7 divorzi ogni mille abitanti). Di poco superiore il dato che riguarda Spagna, Croazia e Grecia (1 divorzio ogni mille abitanti). (ANSA)

E in Italia?
“Nozze addio” hanno titolato molti giornali. Perchè sono sempre di meno. E non basta: ogni 4 minuti una coppia “scoppia”. In sintesi, abbiamo: in Italia ci sono un divorzio o una separazione ogni quattro minuti. E ci si sposa meno. Lo rivela l’ultimo rapporto Eures sul matrimonio, “Finché vita non ci separi”. L’indagine conferma la costante crescita dell’età media degli sposi (salita in 3 decenni di 7 anni tra gli uomini e di oltre 5 tra le donne) e rivela un aumento di unioni civili, seconde nozze e coniugi stranieri.

Negli ultimi 30 anni i matrimoni sono diminuiti costantemente (del 32,4%, 1’1,1% in meno all’anno), passando da 373.784 nel 1975 a 250.974 nel 2005. Ci si sposa ancora di più al Sud, dove nel 2005 ci sono state 4,5 unioni ogni 1.000 abitanti, rispetto alle 4,6 del Centro e alle 3,8 del Nord. Napoli è la provincia d’Italia in cui ci sono più nuove nozze. In seconda posizione si piazzano Crotone e Roma. Ma la Capitale beneficia anche degli effetti del “turismo matrimoniale”, perché sempre più coppie non residenti la scelgono per pronunciare il famoso “sì”. Aumenta invece l’età in cui ci si sposa. Nel 2006 lo sposo ha in media 33,7 anni (7 in più che nel 1975), la sposa 30,6 (5 in più).

Sud sempre più “separato” II boom di separazioni “e divorzi riguarda soprattutto il Sud. In generale, negli ultimi 3 decenni le separazioni sono aumentate del 300%. Ma bisogna considerare che la legge sul divorzio è del 1974; Dal 1995 al 2004, invece, le separazioni sono aumentate del 59% e i divorzi del 66,8%. Nel 2004 sono entrambi stati oltre 128 mila cioè 352 sentenze al giorno, più di una ogni 4 minuti. Significa che ogni 100 coppie che si sono sposate, altre 51,2 si sono divise. La crisi arriva di solito tra il terzo e il quinto anno, è definitiva e avviene perché i coniugi realizzano di essere incompatibili.

Una su tre lo fa in municipio crescono invece i matrimoni civili. Nel 1975 nove coppie su dieci sceglievano il rito religioso. Trent’anni più tardi lo fanno poco più di sei su dieci. Le unioni celebrate con rito civile salgono invece al massimo storico nel 2005 con il 32,4%, un terzo del totale. Ed è nelle regioni del Nord che sono più frequenti (il 43,7%). Quelli che ci riprovano. Gli italiani, comunque, rimangono affezionati al matrimonio, visto che sempre più divorziati tornano a dire “sì” in seconde nozze. Che passano dal 2,9% del totale nel 1975 al 7,1% nel 2003. Le donne, però, sono più restie degli uomini a contrarre un secondo matrimonio. E diminuiscono i nuovi matrimoni tra i vedovi. L’età media in cui ci si risposa è 45 anni (questi i dati nel 2003).

Straniero è bello. Sempre più spesso (nel 10,5% dei casi) uno dei nuovi coniugi è straniero. Nel 1995 la percentuale era solo del 4,3%. I matrimoni internazionali sono molto più diffusi al Centro e al Nord e per lo più celebrati tra uomini italiani e donne straniere. Resistono 8 coppie su 10. Le coppie sposate negli anni Settanta e Ottanta in gran parte resistono ancora. Meno di 15 matrimoni ogni 100 si sono chiusi con la separazione, rivelando che l’istituzione tiene ancora. È più facile lasciarsi per chi si è unito con rito civile. I matrimoni religiosi (basati sull’idea che è un sacramento indissolubile), invece, registrano una incidenza di divorzi decisamente inferiore. Premunirsi è meglio Ma i novelli sposi seguono sempre più spesso la regola della prudenza. E scelgono nella maggior parte dei casi il regime di separazione dei beni. Nel 2003 (ultimo dato disponibile) i matrimoni di questo tipo hanno raggiunto il 54,3%, a fronte del 45,7% di quelli celebrati in comunione, con una vera e propria inversione di tendenza rispetto al valore del 1995. Al Nord sono molto più frequenti che al Sud, dove rimangono ancora prevalenti quelli in regime di comunione dei beni (sono il 54,6%). Ma la crescita delle separazioni dei beni è più consistente proprio al Meridione, con oltre 12 punti percentuali in più tra il 1998 e il 2003.

Pino Rauti



La "bomba demografica"


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Spesso, in qualche occasione di dibattito, ci è accaduto di citare la legge sull’urbanistica del 1942 come una normativa dalle molte ricadute positive, perchè – tra l’altro – mirava ad impedire la crescita anarchica delle città e a fronteggiare dunque in prospettiva che adesso definiremmo “strategica” l’esplodere delle megalopoli, con tutto quello che il fenomeno comporta, ormai a livello planetario, per cui non sono pochi quelli che pensano come questo siano dei fenomeni piu’ drammatici della fase storica che stiamo attraversando

In termini quantitativi non vi è dubbio che sia così; eppure, un fenomeno di tanta ampiezza è lasciato libero di sviluppare e di “crescere” con impeto dirompente, benchè tutti – urbanisti e sociologi e amministratori locali – stanno li intorno a deplorare le conseguenze. Contro le quali non si fa nulla, ecco il punto – ma ad evitare le quali – ecco un’altra “sottolineatura” che abbiamo sempre chiamato in campo – si fa reperibile ancora meno.

Su un numero recente di “Newton”, sotto il titolo “Troppa gente in poche città”, dopo aver precisato nell’occhiello che “nel 2055 saremo 10 miliardi” Giovanni Sartori insiste sulla gravità della situazione. E troviamo nel suo scritto, punti e spunti quanto mai interessanti:

” Nei prossimi cinquant’anni gli abitanti del Pianeta passeranno da 6,3 a 9,3 miliardi di persone, con oltre il 99 per cento della crescita concentrato nei Paesi poveri. Lo sostengono in un recente studio gli esperti del Population Reference Bureau di Washington, un’organizzazione che si occupa di statistiche e proiezioni demografiche. L’India sarà la nazione più popolosa del mondo (arriverà a 1,63 miliardi di persone) e sorpasserà la Cina che oggi detiene il primato. Secondo i demografi della Commission on Population and Development delle Nazioni Unite, inoltre, da qui a due anni la metà della popolazione mondiale vivrà nelle città. Nel 2030 saranno addirittura 5 miliardi le persone ammassate nei centri urbani. Cifre da capogiro. Riuscirà la Terra a sopportare questo aumento vertiginoso dei suoi abitanti? La polemica è aperta fin dal 1700, quando Thomas Robert Malthus spiegò come la crescita della popolazione dovesse essere fermata pena la distruzione del Pianeta. «Ora la situazione sta diventando grave», assicura il politologo Giovanni Sartori, autore del libro La Terra scoppia (Rizzoli). Nel 1500 eravamo 500 milioni, all’inizio del ‘900 un miliardo e 600 milioni e oggi siamo 6 miliardi. In un solo secolo la popolazione si è più che triplicata. E nessuno dice niente. Non lo fa la Chiesa, per ovvi motivi, e neppure i politici. Questo silenzio è davvero drammatico». E i problemi cominciano a farsi sentire. «L’acqua, per esempio, è già insufficiente. Oltre un quinto della popolazione mondiale soffre per la sua mancanza. Per non parlare della desertificazione: circa due miliardi di ettari di terra arabile e da pascolo, quasi quanto Stati Uniti e Messico insieme, risultano degradati o persi per sempre. E persi sono quasi i quattro quinti delle foreste e oltre la metà della restante parte è in pericolo. Una devastazione che non è compensata dal rimboschimento, perché il 60 per cento degli abbattimenti è fatto da coloro che cercano nuova superficie coltivabile per sfamarsi». Ma il mondo potrà sopportare 10 miliardi di persone con il nostro stesso stile di ^/ita? Secondo le previsioni più caute si stima che il fabbisogno energetico triplicherà entro il 2007 e quadruplicherà per il 2100.«Bisogna subito cambiare strada», avverte Sartori. «Riproducendosi a questi ritmi l’Homosapiens distruggerà se stesso».)”




Esplode la vergogna che si chiama precariato


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A differenza di quanto pensano molti – anche nelle nostre file – siamo convinti che questo Governo al di là delle apparenze e di qualche decisione di stampo demagogico, non sia affatto “preda” dell’altrasinistrismo. F asolo chiacchiere, in quel senso. I fatti, le decisioni che contano – come d’altronde dimostra a sufficenza il “decreto Bersani” sono liberaloidi, soono conservatrici e ligie al dio-mercato.

E così non ci siamo stupiti affatto nel vedere a Roma, la “marcia dei precari”. Se ci fosse stato un governo davvero “di sinistra”, il precariato sarebbe stato abolito per decreto-legge o qualcosa del genere; e invece nella Finanziaria c’e’ stato poco o nulla. Da qui’ la delusione e la rabbia e il successo clamoroso della manifestazione, il significato “umano”, diciamo noi, prima e piu’ ancora che politico e sociale, e destinato a lasciare sul governo Prodi un orma pesante; che non si cancellerà facilmente. E veniamo alla cronaca, ricostruita attraverso i giornali, i quali, tutti hanno sottolineato che “era la prima volta dei precari del pubblico impiego.”

“Dietro allo striscione di aperura «No al lavoro nero, no al precariato di stato: assunti tutti, assunti subito, assunti davvero» c’erano i lavoratori precari della Sanità, dei Vigili del Fuoco, degli Enti Locali, delle Agenzie Fiscali e della Scuola, della Ricerca e dei Ministeri, ma anche dipendenti delle cooperative appaltatrici dei servizi esternalizzati. E poi anche numerosi sindaci, fra cui 5 primi cittadini della Locride, e il Comitato dei Precari del call center Atesia, a segnare l’unità di lotta fra il settore pubblico e privato. \Partita da Piazza della Repubblica, ed ingrossato dagli ultimi arrivi dai treni provenienti dalla Sicilia e dal Piemonte, la manifestazione si è fermata davanti al Ministero della Funzione Pubblica, dove dal palco si sono susseguiti gli interventi dei lavoratori. «Vogliamo una sanatoria complessiva in tutto il pubblico impiego – ha sottolineato Luigi Romagnoli delle RdB, intervistato da Radio Città Aperta – Lo Stato è il maggior datore di lavoro precario nel nostro paese. Senza contare la vergogna di migliala di ex lavoratori socialmente utili e lavoratori di pubblica utilità (ndr Lsu ed Lpu) che sono assunti a tempo determinato ormai da 6 anni ma che per vedersi riconosciuto un contratto a tempo indeterminato come gli spetterebbe dovranno sottoporsi ad un ennesimo concorso pubblico capestro». A manifestazione conclusa, una delegazione ha incontrato il Ministro della Funzione Pubblica Nicolais. E, «pur nella diversità di posizioni» (come sottolinea il sindacato) è stato avviato un percorso per avviare un tavolo permanente sulla precarietà. Ma la mobilitazione non si ferma. «Questo primo sciopero nazionale non è solo un importante punto di arrivo, ma è soprattutto l’avvio della lotta per cancellare il precariato far riscrivere la Legge Finanziaria, rilancia il Coordinatore nazionale RdB-Cub, Pierpaolo Leonardi. «E’ giunto il momento di rivendicare un cambiamento radicale di tutta la legislazione che in questi anni ha precarizzato il lavoro e la vita» dicono i promotori dell’iniziativa che rappresentano una vastissima rete di “realtà sindacali (dai Confederali al Sincobas), politiche, associative e di movimento.




Il "grido" del Papa


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Abbiamo voluto di proposito lasciare passare qualche giorno e -leggere nel frattempo tutto quello che hanno scritto in merito i giornali, anche stranieri – prima di commentare quello che è stato definito il “grido d’allarme” del Pontefice; il suo “messaggio” per la giornata del migrante e del rifugiato.

E tra migranti e rifugiati, un numero crescente di donne lasciano il proprio Paese ma tante di esse “finiscono vittime del traffico di essere umani e della prostituzione. Leggiamo sul “Messaggero”, a firma di Maria Lombardi: ” Il Papa parla della schiavitù dei giorni nostri, quella di donne poco piu’ che bambine comprate come cose e poi vendute per strada, costrette a vivere una vita che non appartiene piu’ a loro, ma ormai ad altri che ne fanno quel che credono. Un dramma, denuncia il Pontefice, che solo l’aspetto di un dramma piu’ grande, quello degli immigrati e dei rifugiati, dei profughi e degli sfollati, in fuga dalla miseria e dalla persecuzioneche tante volte, nel nuovo mondo non trovano altro che una nuova miseria e una diversa solitudine, a volte qualcosa di peggio. Nei campi rifugiati, donne e bambini rischiano «lo sfruttamento sessuale», ormai diventato «un meccanismo di sopravvivenza»…”

Il Papa ha parlato in vista della “93ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato” che sarà celebrata il prossimo 25 gennaio; e delle sue parole emerge, drammatico, un dato di fatto: stiamo peggio che nel passato, quando comprare un essere umano, il alcuni Paesi, non era un reato:” «Oggi ci sono più schiavi che nei tre secoli durante i quali la schiavitù era lecita». Per il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, è questo il grande scandalo di un «mondo che si dice libero e proclama il rispetto dei diritti umani», e poi s’accorge che questi diritti «non sono rispettati, ma calpestati». Sui marciapiedi delle grandi città che inghiottono i sogni di donne dell’Est o del Nord Africa e raccolgono la rabbia di giorni e di notti impossibili, o nei campi dove s’addestrano soldati di nove anni. E sono sempre di piu’ in un mondo libero, le donne prigioniere. «Negli ultimi tempi è aumentato il numero delle donne che lasciano il proprio paese d’origine alla ricerca di migliori condizioni di vita, in vista di più promettenti prospettive professionali. Non poche – denuncia Benedetto XVI – sono quelle donne che finiscono vittime del traffico di esseri umani e della prostituzione». Ed è, quella di oggi, una «schiavitù peggiore del passato- s’indigna il cardinale Martino – quando gli schiavi venivano presi dall’Africa». Un controsenso, perché oggi c’è une legge che punisce la riduzione in schiavitù, «ma l’applicazione spesso è lenta. Noi chiediamo -aggiunge Martino – che questi reati siano puniti con rigore».




Si governa "seriamente" in questo tipo di democrazia?


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Leggiamo sempre con interesse quell’ottimo commento ai fatti del giorno che Michele Serra “deposita” ogni giorno su “L’amaca” della Repubblica. Perchè, spesso è occasione, – sia pure in sintesi, per la brevità del testo – di qualche lucida analisi o addirittura di un riferimento a problematiche di fondo anche assai complesse. Ecco, ad esempio, come da un dato di attualità corrente, Serra passa ad un quesito estramemente importante.

Leggiamo insieme

Che Romano Prodi, dopo il caos masochista di ordini e contrordini relativo alla finanziaria 2006, abbia perduto solo pochi punti di gradimento, in fondo è una notizia eccellente per questo governo. Poteva andare molto ma molto peggio. Il vero problema, piuttosto, è che quei quattro punti in meno (ma sarebbe lo stesso se fossero stati in più) sono destinati a influenzare comunque le scelte presenti e future del governo Prodi come di qualunque altro governo. Una delle sciagure congenite delle democrazie moderne è che fare politica è diventato il mestiere di piacere, e di compiacere. Leggi impopolari (anche se necessario) diventano, di fronte ai primi fischi, leggi da occultare o da edulcorare, perché il rischio è quello di non essere più rieletti. Specie in un Paese come il nostro socialmente pigro, profondamente conservatore, le classi dirigenti hanno paura di inimicarsi l’opinione pubblica tanto quanto il vecchio attore di cambiare il repertorio. Viene quasi da dire che la sola riforma istituzionale decisiva sarebbe il mandato unico per qualunque eletto: sindaco o presidente del Consiglio che sia. Sapendo già in partenza che non dovrà ripresentarsi agli elettori, forse riuscirebbe a governare senza l’ossessione dell’applauso, e il terrore dei fischi.

Già, proprio così stanno le cose nell’epoca in cui viviamo e, al posto di Serra, avremmo anche scritto che è davvero sconcertante -e molto, molto pericoloso- che si debba governare in queste condizioni proprio in un epoca storica nella quale il governare deve fronteggiare sfide e problemi addirittura “epocali”.

Ma di “questa” riforma costituzionale di quella che sarebbe la più autentica e comunque piu’ vera e concreta, naturalmente non parla nessuno.




L'Italia dei "tati"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Adesso i bambini vengono affidati anche agli uomini; risulta che un numero crescente di giovani sta partecipando ai corsi per baby sitter. Prima, erano solo stranieri in difficoltà in ricerca di un alrtro lavoro; ora ci sono molti italiani, attratti anche dalla prospettiva concreta di arrivare a guadagnare salari sino a 3.000 euro al mese. In Italia che si sta spopolando per la denatalità -fenomeno aggravato dall’invecchiamento- presto vedremo, dicono tanti “bambinai”(il nome è già pronto)che tra una panchina e l’altra dei giardini -oltre che nel chiuso delle mura domestiche- prepareranno pappe, e laveranno pannolini “sporchi”. Per la precisione, il primo “tato” ufficialmente diplomato come tale, si è avuto a Genova nell’aprile scorso, al termine di un corso organizzato dal comune.

A Roma,qualche giornale ha pubblicato in quel periodo l’intervista a Geneviève Piguet che gestisce una nota ed attivissima agenzia di “servizi” per la famiglia La piguet sostiene che da tempo”colloca giovani stranieri come bambinai “tutti molto capaci”. A volte quella del tato è una scelta disperata -scrive sul “messaggero” Maria lombardi- dopo aver provato con la colombiana, la peruviana, la rumena e la polacca, tanto vale provare pure col filippino, nella speranza che duri….”

Gli incerti equilibri delle famiglie ormai si poggiano su chi bada ai piccoli: oltre il 17% dei bambini da 0 a 10 anni è affidato a una tata e passa piu’ tempo con lei che con la mamma. In Lombardia un bambino su tre, è affidato a una donna che non è la mamma o la nonna; ad una “mammy” come si usa dire.

Il bisogno drammatico di afffidamento dei bambini, in una società contrassegnata dall’invecchiamento sta avendo come conseguenza che anche uomini senza lavoro, a curare i figli delle donne; quelle che possono permettersi di pagare, ovviamente; perchè per le altre c’è solo quella strada tutta in salita che é rappresentata dagli asili. Attenzione alle cifre, che vengono fornite da una “fonte” qualificata ,dalla responsabile dell’associazione Acli-Colf. Lidia Obando spiega che Le italiane sono ancora poche -anche se stanno crescendo di numero in modo imprecisabile ancora due tre anni fa- e che vanno ad ad aggregarsi alla schiera di rumene, polacche e sudamericane (sono oltre 500mila le colf immigrate in regola, una quattro è laureata, e le clandestine si calcola siano un altro 30%) in cerca di una famiglia di cui prendersi cura per 650 euro al mese circa”. Ma chi ha buone referenze ed è in grado di esibire un bel curriculum può chiedere sti pendi ben più alti. «Una pueri cultrice, italiana o straniera non importa, guadagna dai 2.500 ai 3.000 euro al mese», racconta la signora Piguet. «Una brava bambinaia, di quelle superesperte, che accudisce i bimbi dai 4,5 mesi in poi prende dai 2mila ai 2mila e cinquecento. Non è detto che, a questi livelli, le italiane siano avvantaggiate, anzi le famiglie vip solitamente preferiscono le straniere perchè sono piu’ discrete» Le supertate, il piu’ delle volte, non vengono scelte, ma scelgono e se quella famiglia è straricca ma un po’ cafona, la evitano. L’abbandono, quello della tata non del marito, è per tante donne uno choc e quante sono disposte a implorare: toglietemi tutto, ma non lei.

Ecco,sempre in via di sintesi di fenomeni assai confusi quanto variegati nella loro composizione, L’Italia sta “marciando” senza rendersene conto fino in fondo, quanto a presa d’atto delle conseguenze che numerose e invasive derivano -“verso un futuro di nonni”. Anche perchè i bimbi dei prossimi decenni avranno la prospettiva di vivere sino a cento anni o poco meno. Lo attesta il “Rapporto nazionale 2006 sulla condizione e il pensiero degli anziani”. Firmato -come leggiamo per la penna di Carlo Massi- dal Dipartimento studi economici “Ote-Ageing”, diretto da Andrea Monorchio.

Anche queste sono cifre che non sembrano interessare molto a livello politico neppure quello governativo ma sulle quali occorre cominciare a riflettere a fondo perchè stanno là le chiavi di volta della ,sorte della comunità nazionale nei prossimi decenni.

Leggiamo insieme:”Stanno venendo al mondo neonati che avranno una vita lunga, molto lunga – commenta Roberto Messina, segretario generale dell’Osservatorio della Terza età…”

Si tratta-prosegue Messina- di un fiume in piena che andrà ad incidere sempre piu’ sulla crescita economica del Paese. Di un Paese che oggi, nelle tasche, penalizza in modo importante proprio chi ha oltre 65 anni: la pensione media è di 900 euro al mese. Con questo aggravio, solo per le medicine: il 42,8 % spende annualmente meno di 500 euro l’anno per i farmaci, il 31,9% circa 750 mentre il 25,3% oltre 1000. Parla di una società “diversa” Emilio Mortilla presidente di Ageing society, “in cui la componente anziana, quando i bebè di oggi saranno nonni sarà maggioritaria rispetto alle componenti in età fertile e in età lavorativa” Le ultime generazioni hanno visto crescere l’età media di uomini e di donne. Con un ritmo sempore piu’ veloce, soprattutto a partire dal Dopo-guerra. All’inizio dell’Ottocento le aspettative di vita in Italia e negli altri paesi occidentali erano intorno ai 50 anni. Nel Periodo dell’Impero Romano circa 30. L’aumento consistente si è, dunque, avuto in un arco di tempo molto limitato e le cause sono varie: le abitazioni piu’ salubri la migliore alimentazione, l’uso diffuso degli antibiotici, il riscaldamento nelle abitazioni, la messa a punto di farmaci mirati. Risultato: ci sono Comuni, ormai, chiamati quotidianamente ad occuparsi di problemi e richieste di una popolazione in maggioranza di over65, dove gli ultraottantenni sono quasi un terzo della cittadinanza e il rapporto bambini-anziani è di 1 a 1. Al primo posto tra i Comuni con più nonni c’è S.Benedetto in Perillis, in provincia de L’Aquila. Qui, il 30% degli abitanti ha festeggiato gli 80 anni…”

Per concludere; oggi abbiamo in Italia 420 mila ultranovantenni. Fra 50 anni, saranno 2 milioni. Su una popolazione che nel frattempo sarà diminuità di matrimoni.

Pino Rauti