Centrosinistra è “fallimento”


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Se avessimo i mezzi prenderemmo una iniziativa “forte” contro il centrosinistra; secondo noi, utilissimo per sgonfiare questo “pallone” che si agita tanto, convinto di vincere le prossime elezioni politiche: diffonderemmo centinaia di migliaia di copie di “fascicoli” contenenti documentazione sul fallimento degli amministratori di centrosinistra. A cominciare da Veltroni che, abilissimo nel pavoneggiarsi nello scenario artistico – architettonico che offre l’Urbe è stato un fallimento quotidiano come Sindaco di Roma e della sua gestione Comunale.

Al secondo posto metteremmo l’Umbria che non da oggi è “rossa” ma è anche terra di documentatissimi nepotismi e clientele e consulenze d’oro. Nonché di affarismi scatenati che “stratificano” i poteri in atto.

E subito dopo scriveremo tanto – perché tanto c’è da scrivere – nella Puglia che è virata a Sinistra con Nicky Vendola.

A cominciare dal Comune di Bari, dove stanno emergendo “sprechi milionari”; che la stampa nazionale incredibilmente e svergognatamente “copre” ma che sono materia corrente di denuncia per i coraggiosi “fogli” liberi locali. Come “Meridiano Sud” su cui in un numero recente leggiamo a firma di Michele Cipriani:

Mentre ai cittadini baresi si chiedono “sacrifici economici ” mediante gli aumenti della TARSU-ICI- ecc. di contro centinaia di migliaia di Euro vengono distratti dalle casse Comunali per:

– polizza assicurativa riguardante i Danni subiti con un massimale di Euro  2.500.000,00 (pari a cinque miliardi di vecchie lire); per ogni Consulente l’A.C. ha stipulato durata contrattuale della polizza: Anni  1 e 3 mesi  dal 30/09/2005 al 31/12/2006 (al contrario la copertura assicurativa doveva essere a carico dei beneficiari della polizza);

– Noleggio fotocopiatrici (costi vertiginosi annui):

Segreteria Generale 22.000,00 Euro annui;

Gabinetto del Sindaco 43.000,00 Euro annui;

Segreteria Consiglio Comunale 9.500,00 Euro annui ecc, ecc

– Assessorato alla cultura     40.000,00 E.

Per l’informativa pubblicitaria  per i mesi (settembre – dicembre 2005);

Un ulteriore eclatante esempio di spreco, in ordine cronologico, è costituito da una informativa dell’8.9.05 per la Giunta Comunale  da parte dell’Assessore alla Cultura da cui si evince una spesa prevista di 30.000  (trentamila) euro, a titolo di informativa pubblicitaria  per un periodo di tre mesi (settembre – dicembre 2005); inspiegabilmente la Giunta, una volta in possesso di detta informativa, decideva immotivatamente ed inspiegabilmente di portare l’impegno di spesa dai 30.000 Euro previsti a 40.000 euro. Si rammenta all’Assessore Laforgia  che il Comune dispone di un ufficio stampa e di un ufficio affissioni, idoneamente organizzati e, pertanto, in condizioni di svolgere abbondantemente i compiti pubblicitari da affidare a ……

Oltre 3,5 MILIARDI (di vecchie lire) per i canoni di locazione a privati

Inoltre, una “leggera” distrazione di danaro rappresentata dalle ingenti somme pari a circa tre miliardi di vecchie lire che l’A.C. sborsa annualmente a titolo di canone di locazione per i vari uffici comunali alloggiati in abitazioni private e fortemente decentrati fra di loro, con la conseguenza di costringere l’utenza a veri e propri pellegrinaggi (vale come esempio per tutti la sede della Ripartizione Edilizia Pubblica  via G. Petroni oltre 450-milioni di vecchie lire annue per il canone di locazione, Ripartizione Edilizia Privata via Abbrescia  quasi 450-milioni di vecchie lire). A parere dello scrivente un diligente Amministratore ovvero un buon padre di famiglia si orienterebbe verso la stipula di un contratto di mutuo per l’edificazione di un immobile che entrerebbe nel patrimonio comunale e sarebbe il mutuo medesimo estinguibile abbondantemente con i danari spesi per pagare i canoni suddetti.

Lavori per 112.855,82 E. Che saranno ultimati il 12 Ott. 2005. Ad oggi, non risulta essere previsto un bando per l’affidamento della gestione.

A cura dello stesso Cipriani, leggiamo a proposito di consulenze al Comune di Bari:

Per lauti compensi a favore di Consulenti a danno delle professionalità Dirigenziali esistenti all’interno dell’organico Comunale ai quali, in aggiunta, devono sommarsi faraonici superpremi pari a migliaia di euro (annui) a titolo di incentivazione, non dimenticando altre voci di spesa sotto elencate.!!!

A supporto e nel dettaglio di quanto sopra evidenziato, si elencano incarichi e relativi compensi percepiti dai seguenti CONSULENTI nominativamente riportati nelle Pubbliche e pubblicate delibere:

  1. A) Dott. Roberto LORUSSO – pianificazione strategica amministrativa compenso  annuo: 103.833,80 + premio  N.B. meglio noto come – MOTIVATORE E FACILITATORE – (testuali definizioni del Sindaco)
  2. B) Dott. Luca SCANDALE coordinatore-Piano strategico- compenso annuo: 58.406,20 + premio
  3. C) LATERZA  ELENA – Funz. Amm.vo-D3 (portavoce del Sindaco): compenso annuo:  20.971,42  +  13^mensilità + premio 21.400,00 (notasi che in violazione a tutte le regole del trattamento economico del Pubblico Impiego, un premio incentivante che supera l’emolumento base);
  4. D) PALMA  ELENA Funz. Amm.vo D3 compenso annuo:  20.971,42  +  13^ mensilità  + premio    6.000,00
  5. E) PANSINI ANGELO  Funz. Amm.vo  D3 compenso annuo 20.971,42  + premio 6.000,00
  6. F) NONNISMARZANO ARIANNA – Funz.Amm – D3  compenso annuo  20.971,42  + premio 6.000,00
  7. G) NIGRO MICHELANGELO – Dir. Amm.vo   compenso annuo 33.371,04  + premio  31.848,00
  8. H) FOTI  ANDREA      – Funz. Amm. – D3 compenso annuo   20.971,42  +  premio    6.000,00
  9. I) RANA FRANCESCO  Funz. Amm. – D3  compenso annuo  20.971,42  +  13^ mensilità  + premio     6.000,00
  10. L) CUCCIOLLA ALESSANDRO Funz. Amm.vo -D3  spesa annua:16.523,75 + 13^ mensilità + premio 6.000,00
  11. M) CARLO BRUNI  progettazione, programmazione, esecuzione iniziative  di  carattere  artistico e culturale spesa annua: 64.896,00 + spese rimborsabili (sic!) 10.000,00
  12. N) RICCO ANTONIO- Funz. Amm.vo – D3 (interlocuzione Sindaco-Consiglieri Comunali)   spesa annua:   20.971,42   +   Premio 6.000,00
  13. O) TANCREDI VITTORIA – Direttore . Amm.vo – D1   spesa annua:   18.000,00  + premio 6.000,00.



Ed ecco come “non” si vive a Milano


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Sono, ormai da anni un lettore accanito delle “cronache” locali; di quei particolarissimi servizi giornalistici, dove si accumulano, oltre alle note di cronaca, anche cifre del massimo interesse. Solo dopo aver letto un “servizio” del genere, si può dire di conoscere al meglio la vera «condizione esistenziale» di una città  e dei suoi abitanti.

Vediamo di farlo, stavolta, con Milano; sulla scorta di quanto è stato possibile leggere sul “Corriere” in un ottimo, davvero ottimo, articolo di Gianni Cantucci.

Prima, però, qualche cifra: a Milano ci sono 750 telecamere del Comune per la Sicurezza. Ogni mese, Palazzo Marino, riceve in media 600 esposti. Sommati a quelli della P.S. e dei Carabinieri, si sale a circa 1500. I reati: nel primo semestre del 2009, ci sono stati 928 lesioni dolose; 147 violenze sessuali; 42976 furti; 1211 rapine e 70 estorsioni; 31 tentanti omicidi.

Ed ecco le parti salienti dell’articolo: Hanno montato inferriate alle finestre, sbarre alle porte, cellule laser per gli allarmi nei cortili. Dici via Idro e ogni milanese pensa al «campo degli zingari». Tra le baracche, il Naviglio e la tangenziale. Là dietro però ci sono anche sette case. «Trasformate in carceri», dicono gli abitanti. Nella Milano della periferia estrema, la sicurezza, prima che partecipata, è autogestita. Come in via Triboniano, altra enclave di rassegnazione all’ autodifesa dietro un campo nomadi: filo spinato intorno ai giardini e cittadini-sentinelle nelle notti d’ estate. I teorici inglesi dicono neighborhood watch. Controllo di vicinato. Abitanti sentinelle. A Milano, qualcuno sorride: «Lo facciamo da vent’ anni». E assicura: «In modo molto più approfondito». È una donna tenace, Emilia Dragonetti, ed è vice presidente di un coordinamento di 50 comitati di zona (i gruppi di cittadini organizzati sono molti di più, oltre 90). Spiega: «Ogni volta che cambia il questore, andiamo a incontrarlo. Abbiamo un collegamento aperto e diretto con i dirigenti dei commissariati». Intorno alla stazione Centrale è la stessa cosa: un filo diretto tra cittadini e commissariato porta, un mese dopo l’ altro, al sequestro di appartamenti in cui lavorano prostitute clandestine. Caso ancora più emblematico: via Spezia, periferia Sud, il 19 marzo scorso un cittadino gira al Comune un’ indagine artigianale su un giro di prostitute. Parte l’ inchiesta. A metà ottobre i vigili arrestano due italiani e 4 romeni che sfruttavano dieci ragazze in undici appartamenti della zona. L’ amministrazione milanese di centrodestra ha scelto la sicurezza come colonna della propria politica. La sicurezza percepita, qui, ha la stessa dignità di quella reale. Le forze messe in campo: 750 telecamere nei quartieri a rischio; un nucleo dei vigili specializzato in «problemi del territorio» (con oltre 160 sgomberi di campi rom in due anni); 31 pattuglie miste tra polizia, carabinieri, militari; City Angels e poliziotti in pensione in undici quartieri difficili o fermate periferiche del metrò, più le «ronde» sui treni sotterranei dopo le 22.30 (in tutto, da giugno 2008 a oggi, il bilancio parla di oltre 2.200 segnalazioni alle forze dell’ ordine). I reati sono in calo: nel primo semestre 2009, meno 12 per cento di furti, meno 37 per cento di rapine, meno 25 di delitti legati alla droga, meno 23 di lesioni. E allora la vera domanda è: perché se calano i reati resta alta la paura? E le iniziative di sicurezza partecipata sono solo marketing politico, visto che dall’ altra parte crollano le risorse destinate alle forze dell’ ordine? «La paura del crimine è una componente altrettanto importante», risponde Clara Cardia, responsabile del laboratorio «Qualità urbana e sicurezza» del Politecnico di Milano. Urbanista, ha studiato per anni a New York, e spiega un concetto chiave: «Se le persone sono spaventate, frequentano meno gli spazi pubblici, riducendo la “sorveglianza naturale” in strade, piazze, metropolitane. Le conseguenze di una percezione, come la paura, sono quindi reali: negli spazi deserti delle metropoli aumenta il rischio criminalità». È quello che sta succedendo a Milano, come nelle altre città occidentali. La situazione è comune: meno reati, ma più paura. Le spiegazioni sono diverse. Una è storica: «Fino a qualche decennio fa – spiega la docente del Politecnico – la delinquenza era concentrata in alcune zone della città, molto ben definite nell’ immaginario delle popolazione. I cittadini sapevano quali erano i quartieri a rischio, ne conoscevano i confini. Da quando la criminalità è diventata più omogenea sul territorio, la paura inconscia è aumentata». Facendo un giro nelle periferie milanesi, si scopre quanto sia importante anche un ultimo elemento. L’ architetto-urbanista Cardia parla di «architettura ansiogena». Il laboratorio del Politecnico ha riassunto le ricerche su questo tema in un manuale curato per l’ Unione europea (Pianificazione, disegno urbano e gestione degli spazi per la sicurezza). In breve: casermoni bui di periferia, senza negozi su strada, poco illuminati, con le portinerie nascoste, indurrebbero ansia negli abitanti anche se non ci fosse neppure uno scippo. Per chi vive a Milano, queste ricerche hanno un’ incarnazione immediata: Ponte Lambro, Lorenteggio, Calvairate, San Siro, Quarto Oggiaro. Non è un caso se da lì arriva la maggior parte delle richieste di sicurezza.”




Italia: preda di “burocrazia”


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Siamo un Paese che può essere definito in tanti modi; ma, forse, quello più esatto è di definirlo come «preda della burocrazia» che – per documenti e bolli e via dicendo – come leggiamo su “Corriere della Sera” – si “mangia” un giorno su sette, dei piccoli imprenditori.

Abbiamo questo quadro di massima, ripetiamo, riferito ai “piccoli”: solo il 15,3 % delle imprese intrattiene o ha intrattenuto rapporti con altri Paesi europei o extraeuropei; e, tra quelli che li hanno avuti, il 9,8 % ora non ne hanno più; inoltre, è peggiorato del 28,7 %, negli ultimi sei mesi, il rapporto con le Banche; e ancora, la burocrazia “imperversa: per lo svolgimento delle pratiche burocratiche se ne vanno: per il 18,6 % più di 2 giorni; per il 38,2 %, più di mezza giornata; 1,5 giorni per l’8,4 % e 1 giorno per il 29,3%.

Leggiamo insieme l’articolo, datato Milano e dedicato alle imprese piccole e piccolissime, interpellato dalla Fondazione Nord-Est per un’indagine promossa da Veneto-Banca-holding:

“ Una rilevazione che, dando voce alla spina dorsale del sistema produttivo italiano (le imprese fino a 50 dipendenti), restituisce un quadro per certi versi sorprendente. In merito all’ accesso al credito, per esempio, dopo mesi di appelli, moratorie e misure straordinarie, si scopre che il rapporto con le proprie banche di riferimento è peggiorato per quasi tre imprese su dieci ed è migliorato solo per il 5% del totale delle «piccole» interpellate. Tra tutte le aziende del campione che si sono rivolte al sistema bancario chiedendo nuovo credito il 27,2% se lo è visto rifiutare, il 7,9% ha dovuto rinunciarvi a causa di condizioni troppo gravose previste dagli istituti di credito e il 16,1% ha dovuto accettare condizioni più onerose rispetto a quelle abituali. A questo si deve aggiungere che, sempre negli ultimi sei mesi, il 13,9% delle imprese ha ricevuto una richiesta di rientro (totale o parziale) dagli affidamenti. Quindi, non solo il dialogo tra banche e imprese va male, peggio di un anno fa, ma la frattura che separa i due mondi pare essersi addirittura allargata, considerato che gli imprenditori individuano nel sistema creditizio stesso la prima causa del peggioramento dei rapporti. Insomma, la maggioranza delle aziende interpellate dalla Fondazione Nord Est è convinta che le banche non facciano abbastanza, solo il 38% crede che la causa di tutto sia riconducibile alla crisi economico-finanziaria. E gli altri fattori che ostacolano l’ accesso al credito come le regole di Basilea 2 o la sottocapitalizzazione? Vengono considerati problemi marginali: se i banchieri decidessero di allargare i cordoni della borsa, la musica sarebbe diversa. Una prova? Solo il 18,7% del campione dichiara che i tassi di interesse applicati dagli istituti di credito alla sua azienda sono diminuiti negli ultimi sei mesi. Ma se con le banche il rapporto non è certo idilliaco, tra imprese e burocrazia siamo praticamente al conflitto. Un’ azienda su tre è costretta a dedicare un’ intera giornata a settimana al disbrigo pratiche, con tutti i costi che ciò comporta. E a pagare sono soprattutto le realtà di piccolissime dimensioni che hanno strutture amministrative esili per cui il carico burocratico diventa un peso paralizzante…”.

(Umberto Giusti)




«L'addio al comunismo? Un milione di morti»


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Ebbe un “costo” (economico e sociale) il passaggio dal comunismo al liberalcapitalismo? E, se c’è stato è possibile quantificarlo?

Domanda sorprendente e sotto molti aspetti sconcertante, alla quale però tenta di rispondere una delle più prestigiose riviste di medicina internazionale, l’inglese “ Lancet ”, dopo quattro anni di un lavoro svolto su modelli matematici complessi, basandosi sui dati del’Unicef dal 1989 al 2002.

Come riassume in un bell’articolo, davvero tutto da leggere – ma anche da conservare come documentazione – Mara Gergolet sul “Corriere della Sera”, la conclusione è questa:

le politiche della privatizzazione di massa nei Paesi dell’ex Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est hanno aumentato la mortalità del 12,8%. Ovvero, hanno causato la morte prematura di 1 milione di persone.

Non che, finora, qualche stima non fosse stata fatta. L’agenzia Onu per lo sviluppo, l’Undp, nel ’99 aveva contato in 10 milioni le persone scomparse nel tellurico cambio di regime, e la stessa Unicef aveva parlato dei 3 milioni di vittime. Lo studio di Lancet (firmato da David Stuckler, sociologo dell’Oxford University, da Lawrence King, della Cambridge University e da Martin McKee, della London School of Hygiene and Tropical Medicine) invece parte da una domanda diversa: si potevano evitare tante vittime, e sono da addebitare a precise strategie economiche? La risposta è sì. Ed è la «velocità » della privatizzazione che — secondo Lancet — spiega il differente tasso di mortalità tra i diversi Paesi. Si moriva di più dove veniva adottata la «shock therapy»: in Russia tra il ’91 e il ’94 l’aspettativa di vita si è accorciata di 5 anni. Nei Paesi più «lenti », invece, come Slovenia, Croazia, Polonia, si è allungata di quasi un anno.

Grazie, signor Jeffrey Sachs. Perché se gli operai inglesi negli anni ’80, come nel film di Ken Loach, «ringraziavano» la signora Thatcher, gli operai delle fabbriche chiuse dell’Est devono (in parte) la loro sorte al geniale economista americano, consigliere allora di molti governi dell’Est. E infatti il signor Sachs ha risposto piccato, con una lettera al Financial Times. Ma quel «milione di morti» ha ormai accesso il dibattito ai due lati dell’Oceano, sulle pagine del New York Times e nei blog economici. «S’è scatenata — risponde da Oxford David Stuckler — una rissa ideologica, ma noi non volevamo infilarci in un dibattito politico. Volevamo puntare l’attenzione sui rischi sociali. E poi, il nostro non è un attacco alla shock therapy, tant’è che analizziamo solo le privatizzazione, non le liberalizzazioni o le politiche di stabilizzazione ».

E il signor Sachs? Contesta i numeri. Dice, all’Ft, che «dove sono stato consigliere, come in Polonia, non c’è stato nessun incremento della mortalità». E il caso russo, dove sono state «vendute 112mila imprese di Stato» dal ’91 al ’94 contro le 640 della Bielorussia, e i tassi di mortalità sono 4 volte maggiori? Colpa delle diete russe, dice Sachs, ma più ancora del crollo dell’impero, «degli aiuti negati dagli occidentali a Mosca», «tanto che nel ’94 mi sono dimesso» da consigliere del Cremlino. Non rinuncia all’occasione di seppellire Sachs il suo vecchio nemico, il Nobel Joseph Stiglitz. «Lancet ha ragione, la Polonia è stata un caso di politiche graduali. Quanto alla shock therapy, guardando indietro, è stata disastrosa. Pura ideologia, che ha distorto delle buone analisi economiche».

C’è un altro dato che emerge nella ricerca. Il legame disoccupazione- mortalità nell’ex Unione sovietica. «Il perché è evidente: erano le fabbriche che spesso garantivano screening medici», dice Stuckler. Con la loro chiusura nell’ex Urss è crollato anche il sistema sociale. Numeri impressionanti di morti per alcol, di suicidi. «Mentre dove c’era una forte rete sociale — come nella Repubblica ceca in cui il 48% delle persone faceva parte o di un sindacato o va in Chiesa — l’impatto è stato quasi nullo».

Il sociologo Grigory Meseznikov, uno dei più apprezzati politologi dell’Europa dell’Est, risponde al telefono al Corriere che «sì, sui ceti inferiori l’impatto è stato forte. Ma poi, accanto ai danni immediati, bisogna valutare i benefici e l’impatto positivo a lungo termine». A Lubiana, il sociologo Vlado Miheljak, invece, ricorda che «tra i motivi del successo sloveno, a parte la maggiore integrazione con l’Ovest, c’è stata soprattutto la lentezza. Allora tutto il mondo ci criticava perché non privatizzavano come i cechi, come gli ungheresi. Invece probabilmente, è stata la nostra salvezza».




I Parlamentari… “golosi” del doppio


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Si tratta del doppio incarico (e ce n’è anche qualcuno “trino”…) che i parlamentari si tengono ben stretto e che magari acquisiscono quando sono già alla Camera o al Senato.

Ne ha scritto a lungo, di recente, “Il Corriere della Sera”; e l’articolo offre davvero uno squarcio illuminante sugli “angolini” della vita politica nostrana.

Tutto è venuto alla luce, come è noto, dal c.d. “caso Stanca”. Scrive Sergio Rizzo:

«Politici, giù le mani dall’Expo». Se questa frase non fosse stata pubblicata a pagina intera il 26 ottobre sul Giornale con tanto di gigantografia dell’autore, si stenterebbe a credere che a pronunciare il minaccioso avvertimento sia stato proprio lui: un politico in servizio permanente effettivo da otto anni.

Nel 2001 Lucio Stanca entrò nel governo di Silvio Berlusconi come ministro dell’Innovazione. Poi senatore e nel 2008 deputato. Quando l’hanno designato amministratore delegato dell’Expo 2015 il presidente del comitato parlamentare per le incompatibilità Pino Pisicchio ha diligentemente sollevato il problema del doppio incarico, chiedendo le dimissioni. Ma la sua tesi non è passata. La maggioranza compatta gli ha fatto marameo, accogliendo l’argomentazione difensiva di Stanca. Quale? Che la legge del 1953, nello stabilire l’incompatibilità fra mandato parlamentare e incarichi in società pubbliche e private, ha concesso la deroga per gli enti fiera. E siccome l’Expo 2015 è una fiera… Il Parlamento è sovrano e va bene così. Del resto, il suo collega di Camera e di partito Maurizio Lupi non è forse amministratore delegato di Fiera Milano congressi? Anche se gli incarichi non sono certo paragonabili: l’Expo 2015 gestirà 15 miliardi di euro. Ed è lecito interrogarsi su come Stanca riuscirà a far fronte a due impegni così gravosi. Ma volete mettere la comodità di gestire un’azienda con uno schermo parlamentare?

C’è da dire che lui non si mostra affatto preoccupato, seguendo l’esempio di altri suoi impavidi colleghi. Basta ricordare il senatore Vincenzo Galioto già amministratore dell’Amia, disastrata azienda municipalizzata per i rifiuti di Palermo. O Dario Fruscio, per due anni senatore e consigliere d’amministrazione dell’Eni (130 mila euro di appannaggio). O ancora Pietro Fuda, che durante il suo biennio a Palazzo Madama era amministratore unico della società che gestisce l’aeroporto di Reggio Calabria.

C’è stato chi, fra deduzioni e controdeduzioni, in barba alle regole è riuscito a tirare avanti pure per cinque anni.

E con questi precedenti l’incompatibilità è ormai una faccenda all’acqua di rose. Tanto che qualcuno incassa il doppio incarico addirittura dopo essere entrato in Parlamento. Claudio Fazzone, per esempio. Ex capo della scorta di Nicola Mancino, è senatore del Pdl nonché punto di riferimento politico per il centrodestra a Fondi, dove il ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva chiesto lo scioglimento del Consiglio comunale per presunte infiltrazioni criminali. …

Come la mettiamo invece con i doppi incarichi istituzionali?

Perché un conto è partecipare una volta al mese a un consiglio di amministrazione, altro conto è fare insieme il parlamentare e il vicesindaco di Roma (Mauro Cutrufo) o di Milano (Riccardo De Corato), il sindaco di Catania (Raffaele Stancanelli), Brescia (Adriano Paroli) e Afragola (Vincenzo Nespoli), il presidente della Provincia di Asti (Maria Teresa Armosino), Foggia (Antonio Pepe) e Napoli (Luigi Cesaro). Se poi il sindaco, come il ministro Altero Matteoli (Orbetello), o il presidente di Provincia, come il sottosegretario Daniele Molgora (Brescia), o l’assessore, come il viceministro Paolo Romani (Monza) è pure al governo, la faccenda si complica ancora.

Nonostante ciò i doppi incarichi istituzionali in Parlamento sono proliferati fino a circa un centinaio perché la norma che vieta la sovrapposizione fra il Parlamento e i Comuni oltre 20 mila abitanti e le Province non viene più rispettata. Ma come fanno, non avendo il dono dell’ubiquità? Il sindaco di Viterbo Giulio Marini, pur di non mancare alle sedute del Senato si è trasformato in Speedy Gonzalez: «In due anni con la mia Cinquecento ho fatto ottantamila chilometri avanti e indietro per la Cassia».

Ma Viterbo è a 93 chilometri da Roma. Bergamo, invece, è a 612. Infatti la scorsa estate un deputato della Lega, Nunziante Consiglio, è stato pizzicato a votare anche per Ettore Pirovano, fresco presidente della Provincia di Bergamo. Si è giustificato dicendo che il collega stava per arrivare. Ma quando gli è stato fatto notare che quel lunedì a Bergamo c’era la giunta provinciale e Pirovano stava lì, ha sgranato gli occhi: «Lunedì? Non è martedì?»

(a cura di U.G.)




Problemi enormi intorno al “clima”


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Sono davvero problemi giganteschi, quelli approdati sulla settantina di tavoli dei leader di tutto il mondo, a Copenaghen.

Come è già risultato in un “vertice straordinario” convocato a Bruxelles dal ministro svedese dell’Ambiente, Andreas Carigren (la Svezia è presidente di turno dell’Unione Europea); “senza Stati Uniti e Cina – ha detto Corigren – se ne ridurrebbero solo la metà”.

Leggiamo ancora sul “Corriere della Sera”, Luigi Offeddu:

Ma il problema è che anche l’Europa si sente chiedere lucidità di visione, e determinazione di intenti, le stesse qualità che esige da Usa e Cina. Il capo-negoziatore dell’Orni, Yvo DeBoer, ha chiesto ai ministri Ue «chiarezza e obiettivi precisi», poiché i loro governi non hanno ancora una posizione comune su quanto, e come, e quando, intendono contribuire al taglio delle emissioni nocive diCO2, di diossido di carbonio, nell’atmosfera. Quanto ai cinesi, secondo De Boer hanno due ragioni per volere il successo di Copenaghen: «Da una parte, saranno fra quelli più colpiti delle conseguenze del cambio climatico», dall’altra «è impensabile che continuino a crescere del 6% all’anno con un’economia basata sul carbone». E la Ue? A certe domande non sa rispondere perché assomiglia a una coperta mal rappezzata di vari colori: i Paesi dell’Est, come la Polonia, dicono di non voler pagare le colpe di chi impose loro l’industria pesante sovietica, con i suoi scarichi inquinanti; Danimarca e Svezia sono già molto avanti nel campo dell’energia eolica, ma altre nazioni sono ancora ai primi timidissimi esperimenti; e così via, la coperta è un mosaico confuso. Sullo sfondo resta un obiettivo generale (20% in meno di emissioni entro il 2020, 20% in più di efficienza energetica, e almeno il 20% di tutta l’energia tratta da fonti rinnovabili), come pure resta quel -30% simbolico fissato prima della metà di questo secolo. Ma per De Boer, non basta, e chiede una lista degli obiettivi dei Paesi ricchi, un chiarimento su quello che sono pronti a fare i maggiori Paesi emergenti come India e Cina, e un chiarimento sui finanziamenti da parte dei paesi ricchi ai più poveri, attraverso una lista di contributi». Non solo: Dai Paesi ricchi ci si devono attendere impegni non soltanto sul lungo termine ma anche sull’immediato. (i 10 miliardi all’anno già fissati per il 2010, il 2011, il 2012 in modo da garantire un “avvio rapido” della pulizia dei cieli del pianeta).




La Turchia è “fuori” d’Europa


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C’è, ormai da molti anni un acceso dibattito fra quelli che vogliono la Turchia nell’Europa Unita e chi invece dissente da questa prospettiva.

Decine di milioni di mussulmani in Europa, possono rappresentare da subito – ma ancor di più, in prospettiva – un problema grave, di dimensioni tanto massicce quanto “epocali” – e occorre dunque aver presenti tutti gli aspetti del problema.

Riteniamo indispensabile, ad esempio, segnalare che – tra l’indifferenza e il disinteresse di tutti, nella UE – Ankara abbia cambiato la sua strategia. Da qualche tempo – ne sottolinea sul “Giornale”, R. A. Segre – “strizza l’occhio all’Islam”; e non solo raffredda i rapporti con Israele ma “apre ai nemici storici Siria e Iran”.

Ecco la parte saliente dell’articolo:

“Sarebbe utile sapere se nell’incontro fra Obama e Netanyahu, durato un’ora e mezzo nonostante l’urgenza del presidente di partecipare ai funerali delle vittime del massacro di Fort Hood, si è parlato di Turchia oltre che di Palestina e Iran. …

Che la Turchia stesse cambiando politica estera era chiaro sin dal 2003 quando mise il veto al passaggio delle truppe americane in azione contro l’Irak. Il raffreddamento dei rapporti con Israele, accompagnati dagli attacchi verbali del premier Erdogan contro Gerusalemme («è più facile trattare con Bashir del Sudan che con Netanyahu») non sono il prodotto principale ma il termometro di un riorientamento turco che nasce da tre delusioni e da quattro cambiamenti storici.

Le delusioni: fallimento della politica di espansione nelle ex repubbliche asiatiche di lingua turca dell’Urss; fallimento di accettazione nella Comunità europea; fallimento degli sforzi di mediazione nel conflitto palestinese (a cui Israele ha contribuito lanciando l’operazione contro Gaza il giorno dopo aver assicurato al premier Erdogan l’interesse nella sua mediazione e negando al ministro degli Esteri turco Davutoglu l’accesso a Gaza).

I cambiamenti storici: fine della guerra fredda e del pericolo sovietico; fine del pericolo arabo con il crollo del regime di Saddam, con l’isolamento della Siria (sulla questione dell’acqua della Mesopotamia, delle rivendicazioni territoriale su Alessandretta), con la perdita di leadership araba dell’Egitto, … fine della dipendenza economica con l’occidente grazie allo sviluppo delle esportazioni nel mondo arabo islamico; fine della tensione con l’Armenia e con i curdi (rapporti diplomatici con la prima, e con l’Irak per il Kurdistan).

Per sfruttare questi cambiamenti storici si è sviluppata la dottrina della “soft power” turca che rilancia l’idea di un impero ottomano di cui il ministro degli esteri Ahmed Devutoglu è la mente e il premier Erdogan il cuore. Rinascita basata sulla penetrazione commerciare e sulla diplomazia della mediazione dei conflitti regionali con tre ricadute interne importanti: limitare l’autorità dei militari “custodi” del laicismo di Ataturk; consolidare la presenza del partito islamico Akp fra le masse conservatrici dell’Anatolia in competizioni con l’intellighenzia laica di Istanbul; permettere il consolidamento di quello che è sempre stato un partito islamico fondamentalista solo a parole ammiratore dei valori occidentali.

Le truppe del sultano di Costantinopoli non sono certo ritornate alle porte di Vienna. Ma i manifestini che denunciano il “cavallo di Troia coi colori dell’Islam” diffusi a Varsavia e in altre capitali europee appaiono più realistici di quello che sembrano.”.




Come “finiscono” i miti di sinistra


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Fenomeno in corso in quello che è rimasto della Sinistra nel mondo, da Cuba alla Corea del Nord. Due “esempi”, li abbiamo sotto gli occhi: il primo riguarda Gunter Grass, premio Nobel per la letteratura e che , dopo 62 anni, ha “confessato” di aver militato nelle SS. L’ex presidente della Polonia, Lech Walesa, gli ha chiesto di rinunciare alla cittadinanza onoraria di Danzica che, comunque, gli dovrebbe essere ritirata.

Nei commenti ci si chiede il perché di tanto ritardo nella “confessione”, che precede l’uscita dell’autobiografia dello scrittore. <<Non si tratta di una questione di colpa o di crimini – è il commento della Faz – Grass era quasi un bambino. Tuttavia chi conosce la retorica post-guerra, fatta di scuse e accuse, crede quasi di aver sentito male. l’autore che voleva sciogliere la lingua a tutti, che ha fatto del silenzio e della rimozione nella Germania occidentale un argomento di vita, ammette adesso il proprio silenzio>>.

Il secondo caso è rappresentato da Bertolt Brecht. Prima, “guru” di Sinistra e sua sventolata bandiera. Adesso, leggiamo su “La Nazione”, a firma di Roberto Giardino in un articolo da Berlino, avviene che “i tedeschi non lo leggono più”.

Quando Brecht morì “stroncato da un infarto a 58 anni” in ventimila della DDR gli resero omaggio; ed era anche “l’autore più letto e rappresentato del dopoguerra…”. Ma oggi: …” il 62 % dei tedeschi ammette di non aver mai aperto un suo libro né di aver assistito ad una sua rappresentazione. E i più lo hanno dimenticato dopo l’obbligatoria lettura a scuola…I turisti che invadono Berlino non hanno tempo per recarsi alla tomba do Bertolt e di Helene…”.




Ecco l’Italia, dei Tribunali-lumaca


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Non è che si spenda poco per la Giustizia. Spendiamo una somma pari a 46 euro per abitante contro i 41 dell’Olanda e i 44 della Svezia. Però, nonostante tutto, siamo il fanalino di coda in Europa. Ne scrive su “Il Messaggero”, Massimo Martinelli, uno che quel problema è da anni che lo segue con lucida attenzione; e, in sintesi, abbiamo che nel nostro Paese “116 sono i mesi di durata media di un processo (quasi 10 anni!) mentre oltr’Alpe, abbiamo una durata media di 34 mesi.

E, ancora come esempio, da noi, per divorziare ci vogliono 634 giorni, contro i 25 dell’Olanda.

“Il fenomeno esisteva già tre secoli e mezzo fa, e da allora la giustizia ha continuato a perdere pezzi. Così, se nel 1742 un giurista come Ludovico Muratori definiva ”stomachevole eccesso” il ritardo cronico dei tribunali italiani, Cittadinanza Attiva ha ribadito, casomai ce ne fosse bisogno, che ormai la casistica degli italiani che raccontano le loro disavventure nelle aule e nelle cancellerie giudiziarie è diventata talmente inquietante da rappresentare uno scandalo nazionale. I dati sono noti da tempo perché vengono diffusi in convegni e dibattiti giuridici. E talvolta chi li maneggia sembra assuefatto agli allarmi catastrofici e rischia di sottovalutarne la reale portata distruttiva per la vita dei cittadini comuni. Forse è per questo, per riavvicinare gli studiosi alla vita reale, che ieri Cittadinanzattiva ha diffuso un rapporto condito dalle testimonianze dirette di chi è precipitato nelle tante trappole nascoste che sono diventate le aule di giustizia d’Italia. Ecco il racconto del ragazzo che perse il padre nel 1980, lasciando 6 eredi che non si misero d’accordo sull’eredità. Dopo 19 anni, cioè in questi mesi, è arrivata una sentenza che stabilisce una cosa che poteva essere dichiarata da subito: che i beni vadano all’asta. Ed ecco la moglie tradita, che cominciò la causa di separazione giudiziale nel ’92. L’ultima udienza celebrata? Nel 2008, in Cassazione. Che non ha ancora deciso niente, incurante del fatto che magari la donna avrebbe potuto rifarsi una vita, magari con un nuovo marito. E ancora, c’è la storia della signora che nel ’99 si prese l’epatite virale in ospedale a causa – disse una relazione – dell’incuria degli infermieri. Che furono citati in giudizio nel 2001. Il processo è ancora in primo grado: addirittura deve essere depositata la perizia del consulente del tribunale. Il morale della signora? Impossibile saperlo: quella malattia l’ha stroncata nel 2006.

Alla fine diventa quasi imbarazzante ridurre tutto ad una questione di statistiche. Che però servono a radiografare la situazione vergognosa delle nostre aule di giustizia. Per esempio in Austria i processi durano 34 mesi, contro i 116 (cioè quasi 10 anni), che ci vogliono in Italia; da noi un processo-tipo, ad esempio per una pronuncia di divorzio, arriva dopo 634 giorni, contro i 477 della Francia, i 321 della Germania, i 227 della Spagna e i 25 dell’Olanda. Per non parlare dei procedimenti più comuni, quelli relativi ai decreti ingiuntivi che si fanno per ottenere soldi dovuti: da noi ci vogliono 1.400 giorni; in Francia ne bastano 75, 83 in Danimarca, 169 in Spagna e 175 in Germania.

Solo una questione di soldi? Non sembra, almeno a sentire quello che disse il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, nella sua relazione annuale datata 2008: «Svezia, Germania e Olanda svolgono processi civili in meno di metà del tempo necessario in Italia e hanno risorse pubbliche assai prossime a quelle italiane: 44 euro per abitante in Svezia, 53 in Germania, 41 in Olanda e 46 in Italia».”.




C’è la crisi. E ritorniamo a casa


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Un fenomeno che sta diventando di notevoli dimensioni; e che ha un andamento crescente: a causa della crisi, centinaia di polacchi e brasiliani, di iracheni e lituani, se ne stanno tornando a casa.

Un fenomeno che non ha confini; scrive sul supplemento “Io” Michele Farina, perché è in atto anche altrove; e segnala che “certi giorni nel parcheggio dell’aereoporto di Dubai si contano tremila macchine abbandonate”.”Certo, tra i 100 milioni di <<lavoratori migranti>> in giro per il mondo…c’è chi sta peggio. Ma il fenomeno c’è; e di recente “1.100 operai mongoli della Repubblica Ceca sono rientrati nelle native steppe usufruendo di un contributo del governo di Praga. 500 euro purchè compriate un biglietto one-way per Wan Bator.

“La marea del controesodo si disperde in mille incroci. E quasi tutti si pagano il viaggio. È la crisi: ecco le birmane costrette a rientrare sotto la dittatura dalle industrie tessili thailandesi, i filippini che hanno perso il posto nelle fabbriche coreane, i contadini cinesi ricacciati nelle campagne dai cantieri chiusi sulla costa, i nepalesi dei ristoranti di Kuala Lumpur in Malesia deportati in patria, gli uzbeki che riprendono l’autobus giallo con l’usignolo disegnato sopra e lasciano Mosca stanchi di aspettare quattro mesi di arretrati dal costruttore fallito. C’è pure chi vorrebbe ma non può: Bouba Gul, 27 anni, senegalese, è inchiodato in un campo di Huelva, sud della Spagna, con altri duemila (in quattro a turnarsi un materasso): «Sono stanco, vorrei soltanto tornare casa». Una parola: non ci sono barconi di disperati che sfidano il mare in senso contrario. Bouba aspetterà dicembre, quando comincia la raccolta delle olive. Lui e gli altri illegali dovranno lottare più del solito: con la disoccupazione al 20 per cento, gli spagnoli sono tornati a competere per lavori che in tempo di boom economico prima schifavano. Sogni ridotti: fare lo stagionale sulle colline infuocate dell’Andalusia…”

(U.G.)