La “generazione” del boomerang…


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è quella dei trenta-quarantenni – o delle 30-40 enni – che è stata battezzata così dai sociologi perché si tratta di persone che sono vittime del fallimento del loro matrimonio che tornano nella casa d’origine. Cercano conforto nell’abbraccio di papà, e mamma, o di uno dei due, ma anche riparo ai loro guai economici. Perché – come scrive sul “Messaggero” in un articolo interessantissimo, Anna Maria Sersale – “perché la separazione rende poveri”.

In Liguria è stata approvata una legge regionale – bipartisan – per dare “ai padri in difficoltà” assistenza legale, aiuti economici e case popolari.

La giornalista intervista l’on. Saso che risponde: “All’inizio era stata pensata per i padri, sono quasi sempre loro che finiscono in povertà, ma su richiesta di molti abbiamo cambiato il titolo e le norme sono per i “genitori” separati. Tutto è nato dalla constatazione che ci trovavamo di fronte a una nuova sacca di sofferenza. La media degli stipendi è di 1.300 euro, quando il marito perde la casa coniugale e deve versare almeno un terzo di quello che guadagna non ce la fa ad andare avanti. Se non c’è la famiglia di provenienza che aiuta finisce in stato di grave indigenza, ma è una perdita della dignità personale”. – Chiede ancora la giornalista: In che modo date sostegno ai separati?

“Ci sono tre filoni di interventi, ci preoccupiamo di chi deve abbandonare la casa coniugale, nel 90% dei casi sono i padri. Diamo un alloggio temporaneo, previsto come “riserva” nel piano di edilizia popolare. Sono anche previste forme di sostegno al reddito nei casi più difficili. Ma non finisce qui”.

Un 40 enne, anche lui intervistato dalla Sersale, sintetizza la situazione: “Se dai 800 euro alla ex e ne guadagni 1.300, come vivi?”

Il servizio della Sersale è completo anche di documentazione statistica: ci sono 500 ultraquarantenni costretti a chiedere asilo ai propri genitori dopo separazioni coniugali (la stima è dell’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti) e da altri dati risulta che, per il 25% dei separati, la durata del matrimonio è stata di 6 anni.

Siamo quasi al 38% di separati e divorziati di età compresa fra 35 e 49 anni che “tornano nella famiglia d’origine” (40,6 % di maschi, 33,8 % di donne). E il fenomeno è in aumento perché in (forte) aumento sono separazioni e divorzi: nel 2005 ci sono state 82.291 separazioni (+ 57,3 % rispetto al 1995) e 47.036 divorzi (+ 74% rispetto al 1995).

La Sersale ricorda che già nel 2003 l’ISTAT aveva rilevato un dato allarmante: il 37,9% delle persone separate o divorziate tra 35 e 49 anni era stata costretta a tornare nella famiglia di origine, con non pochi problemi di coabitazione, con genitori costretti a riaprire le “camerette” e a sostenere economicamente i figli-adulti. Un boomerang per coppie di anziani che avevano calibrato i loro standard di vita sulla pensione e che all’improvviso hanno dovuto fare fronte all’emergenza. Purtroppo manca una legislazione che tenga conto dei nuovi bisogni delle famiglie, delle coppie che si separano e delle conseguenze delle unioni spezzate. Solo la Liguria ha varato norme ad hoc, dopo che le cifre di chi torna dai genitori sono cresciute in modo esponenziale.




Dissesto Italia


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Siamo sempre a piangere i morti. Ma il dissesto dell’Italia, il suo “rischio” idrogeologico, resta lì. Incombente. In molte zone, incalzante. E’ impressionante, accertare quanti Comuni siano in pericolo, col loro territorio e i loro abitanti. In Calabria, Umbria e Val d’Aosta siamo al 100%! In Marche, Toscana e Lazio, rispettivamente, al 99; 98 e 97%. Valori altrettanto alti che si attestano tra il 94% e l’80% sono riferiti alla Basilicata, Emilia Romagna, Molise, Piemonte, Campania e Liguria. Seguono le restanti regioni e riscontriamo i valori più confortanti in Puglia e Sardegna con un 19% e un 11%. Leggiamo ancora, sul “Messaggero”, a firma di Valentina Arcovio:

“Non è tutta colpa della natura. E neanche del caso. Non possiamo prendercela con il destino se, negli ultimi 80 anni, oltre 70mila nostri concittadini hanno pagato a loro spese le conseguenze, più o meno disastrose, di 5.400 alluvioni e 11mila frane. Davanti all’ennesima tragedia, costata la vita a una ragazza, ci sono ben altre riflessioni da fare. Soprattutto se il disastro di Ischia arriva dopo poco più di un mese dalla tragedia di Messina. Un’altra catastrofe da archiviare. Un altro errore da scontare. E’ dal 1998, dopo l’alluvione di Sarno, che sappiamo quali sono le aree in pericolo. Le mappe del rischio idrogeologico ci sono da più 10 anni e ancora ci sono vittime di disastri. «Nel nostro paese non ci si vuole rendere conto che abbiamo a che fare con un territorio che è, per la sua stessa natura, fragile e che per questo deve essere curato in ogni centimetro quadrato», commenta Lucio Ubertini, docente di Idrologia all’università La Sapienza di Roma e ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Un territorio per la stragrande maggioranza in collina o in montagna, con un tipo di piovosità molto concentrata in tempi brevissimi. «Questo espone una gran parte del paese a rischio di smottamenti, frane e alluvioni. Dobbiamo metterci in testa – sottolinea Ubertini – che se vogliamo evitare queste tragedie dobbiamo fare un vero e proprio salto di qualità nella cura e gestione di questo nostro territorio».

Negli ultimi 20 anni sono stati spesi all’incirca 15 miliardi di euro (e tante vite umane sono andate perdute) per rattoppare i disastri, quando in realtà servirebbe ben altro per mettere in sicurezza i 5.581 comuni a rischio, circa il 21,1 per cento dei comuni italiani. La Campania poi è una Regione geologicamente complessa. «Una regione dai piedi d’argilla», la definisce Legambiente. Una Regione dove nell’81 per cento dei comuni sono state costruite abitazioni in aree a rischio. E’ vero, ci sono gli strumenti di previsione dei rischi. Dai valori delle piogge e dall’analisi delle mappe di rischio, si può immaginare quando e dove ci sarà la prossima frana. Tuttavia, si tratta di previsioni generali e teoriche, che per essere più precise hanno bisogno di un monitoraggio continuo e dai costi insostenibili. Ma anche quando, nella migliore delle ipotesi, si riesca a prevedere la frana, difficilmente si potrebbe mettere a riparo tutta la popolazione a rischio. «L’unica soluzione – dice Ubertini – è prevenire i disastri. Non solo stanziando i soldi necessari, ma facendo manutenzione e progettando nel dettaglio ogni singolo e specifico rischio”.

(U.G.)




Bullismo e alcol. Due nuovi flagelli


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Le “molestie” cui si dà un numero crescente di giovani, sono tante; esse sono messe a segno attraverso e-mail, sms, blog, siti web…

Si calcola che un terzo del bullismo sia ondine: mettere in rete foto compromettenti o spedire mail con materiale offensivo può causare molti più danni di violenze fisiche. Secondo le ultime ricerche, in Gran Bretagna più di un ragazzo su 4, entro i 19 anni è stato minacciato via e-mail o sms. E anche in Italia un quarto dei minorenni viene colpito da atti di violenze configurabili come cyberbullismo.

Il “Fatebene Fratelli” di Milano vi entra meglio in contatto con questi baby-predatori.

Ne parlano Luca Bernardo, direttore del Dipartimento materno-infantile e Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze in occasione del 1° Congresso nazionale sul bullismo, promosso dal Ministero dell’Istruzione, università e ricerca; e già il primo dato fa impressione: il 45% dei ragazzi che fanno i bulli a scuola, viene condannato per tre diversi crimini entro i 24 anni di età. E il 48% delle denuncie, ormai riguarda le giovani.

Il fenomeno è preoccupante, proseguono gli esperti, ha i contorni dell’emergenza. «Più si va avanti più si intensificano i casi di gang giovanili, furti, abuso di alcol e droga fra gli adolescenti», riflette Mencacci. Tutte espressioni di un disagio più grande, la punta dell’iceberg. «Non esistono buoni e cattivi conferma Bernardo – esistono solo grandi fragilità». E l’età di esordio nel mondo del bullismo, della trasgressione, dello sballo scende vertiginosamente. Hanno fretta di crescere i ragazzi di oggi e cominciano a fumare o a stordirsi con drink e droghe anche dai 12 anni in poi.

C’è stato “un cambiamento che fa paura….”.

Il medico chiama a rapporto anche le famiglie: «Spesso sono assenti, non ascoltano i figli, tendono a minimizzare. E invece devono impegnarsi in prima persona. Il nostro obiettivo è restituire questi giovani alla società, vogliamo che i nostri ragazzi tornino ad essere sani». In questa direzione lavora la Commissione nazionale per la prevenzione del disagio e del bullismo, istituita dal ministro dell’Istruzione, università e ricerca Mariastella Gelmini e presieduta proprio da Bernardo, con Mencacci vicepresidente…

«Il bullismo c’è da sempre spiega Mencacci – i dati Istat ci dicono che gli omicidi volontari commessi dai minori sono passati da 14 nel 2000 a 27 nel 2005. Inoltre, oggi la Tv, i videogiochi e il cinema trasmettono ai ragazzi il messaggio che “vince il più forte”. Se non curiamo, questi ragazzi oggi, avremo dei potenziali criminali e dei depressi domani».

—————————-

Nuovo “flagello” è anche l’alcol. C’è – a dimostrarlo – la ricerca detta de “Il Pilota”, che si è conclusa di recente.

Si può calcolare che “un milione e mezzo di giovani, sono a rischio per abuso di alcol” (sui 10 milioni di italiani che hanno un rapporto con l’alcol vicino all’abuso). Qualche cifra:

Il 64,8% dei ragazzi e il 34% delle ragazze, con un allarmante picco tra i minorenni. Sono il 42% dei ragazzi e il 21 % delle ragazze a bere fino ad ubriacarsi. Tutti i dati sono stati diffusi  dall’Istituto Superiore di Sanità durante il convegno sull’  “Alcohol prevention day 2009”.

Cresce tra i giovani il consumo di aperitivi alcolici e breezer. Lo conferma il 67% degli intervistati nella ricerca «Il Pilota», condotta sul tema del guidatore designato. Tra i giovani della fascia 18-24 anni che guidano abitualmente (almeno qualche volta alla settimana), quelli con almeno un comportamento di consumo a rischio rispetto all’alcol, sono il 26,1 %. Il 43,4% dei giovani preferisce la birra, con un consumo medio di un bicchiere sia per i ragazzi che per le ragazze minorenni. Il 43% dei giovani inoltre dichiara di bere vino: un bicchiere e mezzo per i ragazzi e due, sempre nel week end, per le ragazze. Il 27% dei giovani preferisce superalcolici, anche in questo caso le ragazzine superano i propri coetanei, un bicchiere e mezzo contro uno dei ragazzi. I policonsumatori, quelli che mischiano whisky, gin, tequila e altri liquori sono il 63,8%.

(U.G.)




Imbrattamuri: costano miliardi


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Per ripulire la sola Roma, ci vorrebbero 100 milioni di euro, quasi 200 miliardi delle vecchie lire. E per questo ci si limita al minimo indispensabile, spendendo ogni anno 6 milioni di euro; pari, per capirci meglio, a 10.000 milioni delle vecchie lire.

Lo scrive su “Il Tempo”, Grazia Maria Coletti in una documentatissima inchiesta che occupa due pagine del quotidiano romano.
Qualche dato, in dettaglio.
L’azienda di trasporto pubblico – Tram-bus – da sola, spende un milione l’anno “per sostituire i finestrini danneggiati dai graffiti (anche delle tifoserie)… sui 2.000 autobus cittadini e un centinaio di tram”; e due milioni di euro è la cifra investita da AMA “di cui un milione per il restyling dei 70.000 cassonetti e un altro milione per interventi-tampone richiesti dal Comune….mentre un milione di euro viene speso da Ferrovie dello Stato…
Ma da gennaio ad agosto, siamo già nell’ordine di 800 mila euro» spiega l’ufficio stampa, «già spesi» nelle 180 stazioni di Roma e Lazio, e «le 30 dell’area metropolitane, le più colpite dal fenomeno dei writers». Maglia nera la linea Fr3 Roma-Viterbo, nelle stazioni fra Roma e Cesano, che sono continuamente prese d’assalto dai writers. E, nel sud del Lazio, le stazioni delle linee Roma Nettuno, Roma-Formia e Roma Cassino, al fenomeno dei writers si aggiunge l’atto vandalico: «scritte e gesto».
Fs s’è organizzata così: una ventina di persone divise in squadre di due-tre agenti armati di vernice per restituire il decoro perduto. E una quindicina di agenti di protezione aziendale, che lavorano insieme alla Polizia ferroviaria che hanno l’incarico di vigilare, notte e giorno, armati di macchine fotografie e videocamere. Le immagini finiscono in una banca dati informatica, «così quando i writers vengono presi, riusciamo ad associare volti e nomi ai loro disegni – spiegano da Fs – grazie a disegni e tag documentati nell’archivio informatico arriviamo ad associare gli autori alle “opere” per chiedere il risarcimento danni».
E se i writers sono minorenni pagano i genitori. Venticinque milioni di euro, invece, è la stima calcolata dall’associazione italiana che si batte contro l’illegalità, che servirebbe per ripulire il patrimonio artistico nazionale. «Il graffitaggio è una piaga sociale ed economica» dice il presidente della Commissione sicurezza urbana, Fabrizio Santori.
Da luglio i writers rischiano da uno a 6 mesi di carcere e una multa fino a mille euro (prima era prevista una multa di 103 euro). Fino a due anni di carcere e 10 mila euro di multa se recidivi e sanzioni pecuniarie più salate se gli immobili hanno valore storico. Ma come si fa con le frotte di ragazzini che spesso hanno anche meno di 14 anni? Santori propone «cooperative» che possano prendere in carico i minori per fargli ripulire le aree che hanno sporcato, «manodopera a costo zero» dice, in collaborazione con la magistratura. «Ma vogliamo fargli pulire anche altre zone imbrattate, in rapporto a quanto hanno sporcato»…”
(U. G.)



Famiglie numerose: le più dimenticate


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La Famiglia è la “grande dimenticata” in Italia, nonostante i molti esponenti governativi che ne parlano spesso. Ne parlano, ma per la famiglia non si fa molto, in termini di impegno sociale e di relativo supporto finanziario. E infatti siamo agli ultimi posti in Europa.

Ancora più dimenticate, poi, – oltre alle famiglie monoreddito, che invece dovrebbero venire al primo posto – sono le famiglie numerose; che sono molto più….numerose di quanto comunemente si pensi.
Così, tanto per citare un esempio recentissimo abbiamo letto solo un breve servizio giornalistico – su “Il Tempo”- a proposito della riunione tenuta dall’Associazione nazionale Famiglie numerose che ha festeggiato il suo 2° compleanno nella Capitale.
Ha scritto la giornalista Francesca Mariani:

“Sono circa 20 mila le famiglie numerose nel Lazio, dove per numerose si intende dal quarto figlio in su, su un totale di 180 mila in Italia. A fornire i dati è l’Associazione nazionale famiglie numerose del Lazio che oggi, al motto di «più bimbi più futuro», festeggerà il suo secondo compleanno a Roma. Le famiglie più numerose della Capitale, hanno anche 12 figli. E pure se i nuclei familiari associati sono 500 «rispetto agli anni Sessanta – spiega la coordinatrice dell’Associazione per l’area di Roma Nord Cristina Bazzani, madre di otto figli – c’è stata una notevole contrazione delle nascite. Basti pensare infatti che solo 50 anni fa le famiglie numerose in Italia superavano i tre milioni». E sempre negli anni Sessanta, ricorda Cristina, «c’era una legge che obbligava i costruttori a realizzare anche case con quattro camere da letto. Oggi trovare un’abitazione adeguata ad una famiglia numerosa è davvero un’impresa»”. La giornata ha visto la presenza di circa 60 delle 500 famiglie associate della regione Lazio per un totale di oltre 400 persone, di cui 240 erano bambini che sono stati intrattenuti da diverse attività di animazione.




Fame: a milioni a sud del Sahara


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Come ogni 3-4 anni, torna alla grande la fame – quella vera, quella terribile; che fa morire soprattutto vecchi e bambini – nelle zone a sud del Sahara: in Etiopia anzitutto ma anche in Sudan, Somalia, Kenya, Uganda del nord, Gibuti.

“Campi bruciati dal sole, piante rinsecchite, le mandrie decimate. Milioni di persone costrette a saltare i pasti, bambini che vengono spinti dai genitori in strada a elemosinare oppure a setacciare discariche alla ricerca di cibo. La fame è un gigantesco sudario che ricopre gran parte dell’Etiopia, in particolare quella orientale a ridosso della Somalia e del Golfo di Aden. Almeno sei milioni di persone a rischio carestia; altri dieci milioni che sono a un passo. Secondo il Programma alimentare mondiale servono urgentemente quasi 300 milioni di dollari per coprire interventi umanitari per i prossimi sei mesi.

Quattro anni di estrema siccità e la crisi alimentare globale del 2006-2007 hanno sprofondato l’Etiopia in un incubo che richiama alla mente la terribile carestia che nel 1984 provocò oltre un milione di morti.

In Etiopia, vivono 77 milioni di persone e il 46% (35 milioni) è sottonutrito. Nel 1992 la percentuale era, secondo dati dell’organizzazione britannica Oxfam, il 71% (37 milioni su una popolazione di 53 milioni). L’impressionante aumento della popolazione, le preesistenti condizioni di estrema povertà e il lungo cammino della siccità, avrebbero potuto essere affrontati in maniera diversa dal governo che invece non ha fatto nulla per promuovere una riforma agraria. In Etiopia la terra è di proprietà dello Stato e non può essere venduta. Generazione dopo generazione, è stata divisa e divisa ancora. Si è arrivati ad appezzamenti minuscoli, insoddisfacenti per il fabbisogno familiare. E’ ormai dall’inizio degli anni Novanta che le agenzie delle Nazioni Unite hanno l’Etiopia ai primi posti della loro agenda. L’emergenza ha sempre il sopravvento sulla crescita strutturale. Il Paese viene sfamato e nient’altro. Si passa di crisi in crisi senza una via di uscita.

E la fame, talvolta figlia di situazioni di conflitto, colpisce anche molti altri Paesi della Regione. In Somalia, Sudan, Kenya, nord Uganda, Djibouti si è già rassegnati a un forte incremento della malnutrizione nei prossimi mesi. Secondo l’Unicef rischiano la vita o danni permanenti legati alla malnutrizione cinque milioni di bambini.




Italia: sempre più un “Paese per vecchi”


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Studio della Banca d’Italia. Lo commenta il prof. Carlo Maria Pinardi. Il docente (di Finanza aziendale internazionale alla Bocconi, sul “Corriere della Sera”, ci parla della “ricchezza delle famiglie italiane”, che dovrebbe ammontare ad almeno 7.600 miliardi, pari al 65% del reddito disponibile. Ma in concreto “cresciamo” perché ci sono non poche “ricchezze che sfuggono alle statistiche”.

La “ricchezza” è composta, leggiamo ancora, di beni reali (abitazioni, terreni e oggetti di valore; e anche attività immateriali come i brevetti, di attività finanziarie (depositi, titoli di Stato, obbligazioni, fondi, polizze e azioni). I debiti finanziari sono prevalentemente mutui e prestiti personali.
C’è anche un altro documento da tener presente: è il Rapporto BNL- Einaudi; che segnala che “nel 2005 quasi sette italiani su dieci non sono riusciti a risparmiare e quattro su dieci incontrano difficoltà nel saldare i debiti.

Leggiamo ancora: “Naturalmente, vi è una profonda disomogeneità di dati sulla distribuzione della ricchezza. La metà più povera delle famiglie italiane detiene meno del 10% della ricchezza totale mentre il 10% più ricco detiene quasi la metà della ricchezza complessiva. Da questo quadro chi esce davvero male? Ancora una volta i giovani. Che la distribuzione di ricchezza sia squilibrata a favore dei più anziani è normale. Ma in Italia questo dato risulta più rilevante che negli altri Paesi. Il modo nel quale è distribuita la ricchezza per fasce d’ età incide sulla propensione e sui modelli di consumo e fa ritenere che questo incida sui tempi per uscire dalla crisi in atto. Dallo studio emerge anche che il trasferimento intergenerazionale della ricchezza ha il suo picco tra i 50 e 60 anni. Quindi si può ritenere che l’ età media di chi detiene la ricchezza netta in Italia sia largamente superiore ai sessanta anni. Largamente. Insomma numeri che accentuano il timore che l’ Italia diventi sempre più «un Paese per vecchi».




Torino: “Venderà” l’anima ai grattacieli?


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La domanda, la pone un lettore che “La Stampa”; che scrive, nella bella Rubrica “L’Editoriale dei Lettori”: “Le amministrazioni contano troppo sugli oneri di urbanizzazione. Riflessioni di un non torinese preoccupato per il volto della metropoli subalpina.”

Risponde il romanziere Giorgio Toddi, da Cagliari: “Non sono torinese ma come tanti trovo Torino di sorprendente bellezza. La città fa ancora dire: «Ecco, sono a Torino». Però temo che tutto questo, bellezza e atmosfera, l’intero paesaggio urbano, tra poco sarà perduto. E credo che la perdita dell’anima di Torino avverrà con i mortificanti grattacieli che saranno costruiti, uguali a tutti gli altri grattacieli del pianeta. E dopo, chissà se di anima, Torino, ne troverà un’altra. Saranno sei, otto grattacieli? Tanti. A cosa servono? Chi ha il titolo morale per decidere questa rivoluzione di un paesaggio secolare? E perché un’azione così legata alla nostra esistenza non è sostenuta da un’adeguata carica etica? Si dice che il Comune “deve vivere” e che il vantaggio per le casse comunali proviene dagli oneri di urbanizzazione – milioni di euro – per asili, trasporti, scuole, biblioteche. Ma poiché gli oneri di urbanizzazione verranno rapidamente spesi è obbligatoria una domanda. Dobbiamo costruire in eterno per creare un eterno flusso di denari? È moralmente accettabile? Così dobbiamo “nutrire” la città che non sarà più “pensata” e avrà l’obbligo di crescere all’infinito anche se non crescono gli abitanti?  Questo è opposto della cosiddetta sostenibilità. Si costruisce senza che ci sia una reale esigenza abitativa. Serve edilizia agevolata, sì, ma non certo quella dei grattacieli. È giusto che un’Amministrazione, il problema non è solo torinese, intaschi qualche milione di euro subito, lo spenda e si disinteressi di chi amministrerà dopo, tanto sono affari suoi? Chi arriverà, ovviamente, accetterà, in cambio dei soliti oneri, di costruire ancora. E così sino alla fine dei giorni. La violenza imposta al paesaggio, debole perché silenzioso, suscita dolore in chi crede ancora che la tutela del paesaggio preceda, come vuole la Costituzione, anche l’interesse economico. I politici non possono lamentarsi dei comitati che si formano, perché una politica del territorio non esiste, sostituita dalla facile <politica del sì a tutti>”.




Manager: buste paga vanno giù del 5%


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Non è vero che le buste-paga dei manager sono crollate per e dopo la grande crisi. Quelli che vengono definiti i “re Mida” della Borsa – e della finanza più spregiudicata – sono appena sfiorati dalla crisi: in media, quanto a buste-paga, i loro “stipendi d’oro” calano appena del 5%. Tra le tante cifre in merito, spicca quella relativa alla Borsa, che – scrive Ettore Livini su “Repubblica” – negli ultimi dodici mesi è riuscita a sfornare 137 milioni di euro, solo 8 in meno rispetto al 2007, il triplo del 2005.

Così, le 40 maggiori Aziende “hanno distribuito ai propri manager 282 milioni di compensi, appena il 5,5% (17 milioni) in meno dell’anno precedente”.

Ecco i <nuovi Paperoni>: Roberto Turrioli (Datalogie), con 8,2 milioni in busta; segue a ruota Luca Malocchi (SEAT) con 7,9 milioni. Leggiamo ancora: “La parte alta della classifica così – dopo anni di dominio della finanza – è tornata a essere terra di conquista per le aziende dell’industria e per tanti nuovi Carneadi che si sono visti moltiplicare in un anno di due o tre volte la busta paga. Il primo banchiere (Pietro Modiano, 5,1 milioni) veleggia mestamente in decima posizione solo grazie alla buonuscita di Cà de Sass. Caso analogo a quello di Marco Benedetto – ex ad dell’Espresso, editore di Repubblica – che vede salire i suoi emolumenti a 3,4 milioni in virtù della liquidazione. Mentre i tre fratelli Ligresti – quasi 15 milioni in tre, ma che come l’ad di Fondiaria,  Fausto Marchionni hanno rinunciato ai bonus 2008 – si aggiudicano a mani basse il palmares di famiglia d’oro di Piazza Affari.

L’ultimo esercizio – dopo gli eccessi di inizio millennio – va in archivio con un netto ridimensionamento dei bonus. Le 40 più grandi società di Piazza Affari ne hanno distribuiti 52 milioni. Sono una montagna di quattrini, soprattutto alla luce del crollo dei titoli delle loro aziende, ma si tratta pur sempre del 31% in meno rispetto al 2007. Senza contare che lo sboom della Borsa ha chiuso anche il rubinetto delle stock option: nel 2008 quasi nessuno è riuscito a esercitarle in attivo, mentre solo nel 2005-2006, per dare un’idea, i vertici delle 10 maggiori banche italiane,  avevano monetizzato (dati ufficio studi Mediobanca) ben 273 milioni di plusvalenze grazie agli incentivi azionari.

Le grandi aziende pubbliche nazionali, sfuggite alla tagliola un po’ sdentata dei tetti agli stipendi pubblici (ancora in stand-by), si confermano un’oasi di tranquillità sul fronte della remunerazione.

Piefrancesco Guarguaglini si consola del possibile rinuncia di Barack Obama all’elicottero Finmeccanica con un corposo aumento in busta del 31%. Il compenso di Paolo Scaroni (Eni) è salito del 10%, quello di Fulvio Conti (Enel) del 4%.

La classifica generale, assieme a tanti stipendi cresciuti malgrado il calo degli utili, evidenza anche qualche paradosso internazionale: Valerio Battista di Prysmian ( 276% di emolumenti a 4,1 milioni) guadagna il 10% in più del numero uno della Nokia, Pietro Giordano (Erg) surclassa di un paio di milioni Tony Hayward (Bp). E una vecchia conoscenza di questa graduatoria come Domenico Bosatelli, ad della Gewiss (357 milioni di ricavi) si è regalato un aumento del 12% a poco più di due milioni. Il doppio di quanto si è messo in tasca nel 2008 Jurgen Hambert, numero uno di un gruppo (la chimica Basf) che in quei dodici mesi, di milioni ne ha fatturati venti volte tanto”.

(U. G.)




Tramonto di “tanto” in corso in Thailandia


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Era stata, la Thailandia, l’ex – Siam, il primo Paese che si era aperto alla globalizazione; e al modello dell’economia liberal-capitalistica.

Adesso, è tracollo; con risvolti sociali drammatici. La <immagine> più efficace l’hanno data il premier cinese Wen Jiabao e il suo omologo giapponese Taro Aso, che sono stati “evacuati” in extremis dall’Aviazione Militare che ha dovuto interrompere con urgenza il “vertice” che si era aperto a Pattaya.

Oggi la Thailandia – scrive su “La Repubblica” Federico Rampini – “è un concentrato di ricette fallite”; e ricorda come sia stato proprio in Thailandia, nel 1997, un’altra crisi finanziaria internazionale, che fu detta “l’asiatica”.

E va anche ricordato, per capire meglio come stanno le case, che il leader deposto – Thasksin Shinawatra – che venne definito un “Berlusconi Asiatico”, è un magnate che fece fortuna con il boom delle telecomunicazioni ma poi fu “al centro di gravi accuse quando vendette il suo impero a investitori stranieri (di Singapore)”.

Leggiamo ancora che “dall’esilio dorato fra Dubai e Londra – dove ha comprato la squadra di calcio Manchester City – Thaksin  continua ad usare la sua ricchezza per finanziare le proteste anti-governative, convinto che un ritorno alle urne potrebbe consentirgli di insediare un premier – fantoccio.

L’alternativa tra un plutocrate populista e l’attuale governo sorretto (forse solo provvisoriamente) dai militari e dal re, è un’atroce caricatura di quel che potrebbe essere la dialettica democratica in un paese ormai sviluppato come la Thailandia. Il caos di Bankok è la smentita più severa di quelle teorie sul “modello asiatico” di paternalismo autoritario, che hanno importanti fautori da Singapore e Pechino. La presunta stabilità di quel modello, in tutte le sue varianti di destra e di sinistra, è messa a dura prova dalla tempesta economica attuale e non solo in Thailandia”.

C’è anche un “tesoro” in ballo: i 2 miliardi e 100 milioni di dollari, che l’ex premier depositò in banca nel 2006.

C’è anche il “dramma” della Capitale: Bankok è diventata una megalopoli  di una diecina di milioni di persone; e vive tante “leggende” sulle sue “notti insonni”, con tanta birra, droghe dappertutto e locali a centinaia destinati alle “orge sessuali!”.

Tutti si interrogano, frattanto, sul “silenzio” del Re, che godrebbe di una vasta popolarità. “Eppure – scrive nel “Corriere della Sera”, Bill Emmot – il suo silenzio è tremendamente rumoroso perché, non avendo condannato le <camicie gialle> che hanno fatto cadere il governo democraticamente eletto l’anno passato, il re ha di fatto delegittimato la democrazia Tailandese, lasciando mano libera alle tattiche extraparlamentari, riprese successivamente, com’era prevedibile, dalle <camicie rosse> pro-Thaksin.

C’è un sola persona in grado di risolvere la situazione , ed è il re, che sarà tenuto a esprimersi con chiarezza, ma anche a trovare un compromesso con Thaksin Shinawatra, forse restituendogli la carica di Primo Ministro sotto nuove restrizioni costituzionali ampiamente concordate.

I sondaggi di opinione suggeriscono che se si tenessero oggi le elezioni, Thaksin le vincerebbe di nuovo. Il Re non può ignorare questa realtà politica. l’alternativa è un caos senza fine, e forse la rivoluzione