Cascia: tornano tanti “gioielli”


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C’è stata una ragione in più, quest’anno per andare a un fine settimana a Cascia: la riscoperta dello zafferano.

Ne scrive – da esperto – su “Repubblica”, Alvaro Fiorucci: “C’è la natura che in questa parte della Valnerina regala uno degli spettacoli più suggestivi dell’Italia Centrale. C’è il forte richiamo della spiritualità di Rita con l’imponente santuario a lei dedicato e Roccaporena il borgo che le ha dato i natali. E c’è, ancora, un ambiente dove dalle escursioni alla gastronomia tutto si muove con sincronismo slow…c’è una ragione in più per spendere un fine settimana a Cascia. C’è, infatti, un weekend interamente dedicato alla riscoperta dello zafferano e alle tradizioni della sua coltivazione e del suo impiego in cucina nel corso dei secoli. Da non perdere la passeggiata per le “vie dell’oro” una degustazione guidata da cuochi e sommelier. La preziosa spezia gialla è in tutti i piatti, dai primi ai dolci. E addirittura in pasticci e liquori, nella birra e nei formaggi. gustosi e arditi esperimenti per dimostrare che il limitante binomio risotto – zafferano è ormai definitivamente superato. Di più: accanto al protagonista, fanno il loro ingresso in scena la roveja che è un minuscolo pisello selvatico e il fagiolo “monachello” la cui coltivazione è ripresa da pochi anni grazie a 64 semi recuperati fortunosamente dall’antropologo Luciano Giacchè.




In bottega è festa per i vecchi sapori


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In un tempo ormai lontano – leggiamo su “Libero” in un bellissimo articolo di Federico Giannini – durante la Quaresima, si mangiavano i “quaresimali”, dolce tipico romano fatto di acqua, farina, zucchero, uvetta e pinoli.
Alla festa popolare di San Giuseppe erano sempre presenti le “frittelle” e i “bignè alla crema”, preparati dai “friggitori” e fritti in strada dentro giganteschi pentoloni.
Le tradizioni popolari romane sono un patrimonio comune, alcune di queste sono scomparse, altre sono state tramandate oralmente e altre ancora continuano ad esistere grazie ad alcune figure professionali che stanno scomparendo: gli artigiani.
Una volta, era costume, specialmente nelle zone popolari di Trastevere, mangiare “en plein air” mettendo a disposizione del vicino quello che si possedeva. Pranzi e cene sociali in tavolate sgangherate e traballanti su sampietrini pieni di fessurazioni: “magnate” all’aperto per godersi durante il pasto l’arietta romana. Vino, cantastorie e menestrelli animavano le serate trasteverine.
“La pasta bolla!”, urlava la Sora Margherita a Vicolo del Bologna per chiamare chiunque volesse unirsi a quelle divertenti e popolari tavolate.
Siamo riusciti a ritrovare quell’atmosfera chiassosa e allegra in via della Lungara 141, nell’antica bottega di un fabbro. Dagli anni Sessanta, vicino alla porta carraia del Regina Coeli, il Signor Remo Cascioli e Armando Zucconi continuano questa tradizione popolare, invitando a pranzo amici, clienti e colleghi artigiani del rione.
Martedì, pasta e fagioli, giovedì, gnocchi e venerdì, baccalà. Una “trattoria” artigiana dove ognuno degli invitati porta qualcosa e ha un suo ruolo ben definito. Per il caffè è delegata la moglie (napoletana) del Signor Salvatore Saviano, che ha un negozio di termoidraulica davanti alla chiesa di San Giacomo in Settimiano. Le salsicce vengono cotte alla brace su un trapano a colonna dal falegname Ennio Latini (bottega a vicolo Cellini) ed estratte con la forgia del fabbro dall’idraulico Franco Santucci (bottega Vicolo San Francesco). Universi culturali distanti fra di loro si uniscono per la durata di un pranzo, attraverso racconti passati che contrastano con la vita di tutti i giorni. Si mangia in una lunga tavolata di ferro tra piegatricie rullatrici in un’ atmosfera ormai persa nel tempo.

Poco distante da Trastevere, nel rione Borgo, abbiamo avuto la fortuna di trovare un ristoratore che si è fatto artefice di far rivivere in serate tematiche, sapori e sonorità scomparsi.
Con la rassegna “Stornelli e fornelli” all’osteria “la Pancia Felice”, tutti i giovedì di luglio in Via di Porta Castello, 11/12, viene ricostruito un autentico borghetto romano, dove “rugantini e ciumachelle” si occupano di far trascorrere serate all’insegna del come eravamo. Piatti romaneschi, vino “bono”, musica e stornelli, sono i veri protagonisti di questo ritorno alla più genuina tradizione romanesca. Il costo della serata varia dai 15 ai 25 euro a seconda del menù comprensivo di spettacolo e vino.
Per info e prenotazioni: 06.6861819 / 346.9579716 – www.gruppocicala.com




Cucina molecolare e pagnotte di Lucania


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Capita raramente di trovare in un quarto di pagina di giornale, tutto il suo contrario; e cioè in grafica “Cucina molecolare” e prodotti naturali. Ci è accaduto di recente su “Il Sole 24 Ore”, con la recensione di un libro dove si parla di gastronomia tra “molecole” e reazioni chimiche e si scrive di Lucania e dei suoi “tesori” naturali e tradizionali.

Cominciamo dal libro: “Cucina e scienza” pubblicato dalle edizioni Hoepli, (pagg. 230, € 19,00) da Stefano Colonna – professore di chimica e amante della buona cucina – e dall’esperto di gastronomia Fabiano Guatteri.

Un minimo di familiarità con le molecole e le reazioni chimiche in cui esse sono coinvolte, spiegano i due autori, aiuta non solo a capire i fenomeni, a sgombrare il campo da superstizioni e luoghi comuni, ma crea anche i presupposti per nuove invenzioni. Il libro si inserisce nel filone della gastronomia molecolare, una disciplina sviluppatasi alla fine del 1980, codificata nel 1992 da fisico francese Harvè This e lanciata a livello mondiale dal cuoco-alchimista inglese Hcston Blumenthal. In cucina – scrive nella recensione Antonia Bordignon – In cucina le competenze scientifiche possono migliorare prodotti e processi. Con l’azoto liquido si può creare in 30 secondi un ottimo gelato che non gela la bocca. Si può friggere il pesce in una miscela di zuccheri fusi anziché nell’olio, eliminando i grassi e dimezzando i tempi di cottura. Ma anche creare una maionese senza uova, usando la lecitina di soia,un emulsionante vegetale ricco di proprietà salutari che favorisce l’eliminazione dei grassi e del colesterolo nel sangue.

La scienza aiuta a capire anche che per un buon brodo è indifferente immergere la carne nell’acqua fredda o calda e che per un buon arrosto, la rosolatura iniziale è ininfluente.

Il libro ha tre sezioni, la prima è dedicata all’esame dei vari ingredienti (alimenti, integratori e additivi).Qui è spiegato, tra le altre cose, che l’equazione cibo biologico uguale cibo sano non è una verità assoluta. L’unica certezza è che contiene meno pesticidi e residui sintetici, ma potrebbe avere maggiori quantità di pericolose tossine naturali. La seconda parte esamina i processi di cottura, i metodi di conservazione dei cibi, i processi di trasformazione. Nella terza, infine, si parla di menu, gusti, sapori, aromi. Esaminando i sapori si viene a sapere che il piccante del peperoncino generato dalla capsaicina, è avvertito in misura maggiore dalle donne, perché l’estradiiolo, ormone tipicamente femminile, potenzia l’effetto della molecola. Dall’analisi sensoriale emerge poiché quando profuma di buono, il cibo è buono.

Ma risponde il “nostro” squillo di tromba; quel Davide Paolini che seguiamo da anni con stima affettuosa. E comincia come meglio non si potrebbe; con un delineazione della Lucania, che è davvero cultura profumata”. Perché la definisce: Terra dolce-piccante come il suo più noto peperone, saporita come le sue luganeghe a punta di coltello, povera ma orgogliosa come 1a sua pezzente. La Basilicata è – prosegue Paolini – un territorio forse trascurato dal viaggiator goloso per le sue anguste vie di comunicazione, per la carenza di collegamenti ferroviari, per l’assenza di aeroporti. Peccato perché sarebbe terra di viaggiatori (e non di turisti) in grado di offrire paesaggi che si rinnovano di stagione in stagione. È una regione ricca di i un patrimonio gastronomico eterogeneo, generato dalla sua attitudine a rielaborare, con creatività e semplicità, tutti gli elementi offerti dalla natura…

Un territorio tuttora legato alle usanze gastronomiche del’mondo contadino, di cui possiamo gustare i sapori d’antan a cominciare dal “pane’mbusso”, dove il pane raffermo è inzuppato nei fagioli. Il pane, appunto, sulle li tavole lucane non manca mai: farina, acqua e lievito madre plasmati anche in pagnotte da 10 chilogrammi, cotti sempre nei forni a legna (come all’antico Forno Lucia Perrone “pane e pace” di Matera). Il pane di Matera è oggi giustamente Igp (Indicazione geografica protetta) per le sue eccellenti qualità e soprattutto per vecchie varietà di grano duro (Cappelli, Duro Lucano,Capeiti, Appulo). I passaggi di popoli conquistatori hanno lasciato contaminazioni: con gli Svevi arrivò il rafano, da cui la rafanata. Con i francesi,arrivò il biancomangiare, cucinato soprattutto dai pastori, per il divieto, allora imposto dal calendario liturgico, di cagliare il latte durante l’ascensione. Importato dai Longobardi, invece, fu il baccalà. Oggi è proposto in zuppa, arrostito, fritto con peperoni cruschi, ovvero secchi e saltati in padella. I peperoni sono quelli di Senise, assai noti anche per la polvere rossa che deriva dalla macinatura.

Assai bizzarra è invece la provenienza, pare africana, della rara melanzana rossa di Rotonda. Ricca di carboidrati, la cucina lucana è rinomata per le sue paste fatte in casa: famosi gli strascinati o i cauzuni (ravioli) serviti su un letto di crema di fave con verdure fresche alla menta, le orecchiette con le verdure selvatiche (piatti locali lucani d’assaggiare: Trattoria Lucanerie di Matera, Locanda del Palazzo a Barie, Al Becco della Civetta di Castelmazzano), i cavatelli con ragù.

I formaggi abbondano: Caciocavallo Silano, Caciocavallo Podalico (la razza podolica è pure pregiata per la carne), Fior di latte, Cacio ricotta, Rinomati i piatti con i fagioli di Sarconi, con i quali si prepara anche una crema dolce, da abbinare ai formaggi freschi…”.




Orto in città un’idea che va


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Si sta diffondendo a ritmi serrati, l’iniziativa degli “orti in città”; un’ipotesi – se ci si consente – alla quale abbiamo guardato già alcuni decenni fa, quando ancora quasi nessuno si preoccupava dei problemi dell’ambiente. C’è voluta l’iniziativa della moglie di Obama alla Casa Bianca per “mobilitare i media del mondo”.
Ma, leggiamo, a cura di Margherita Frezza, che in Italia quattro persone su dieci si dedicano all’orto metropolitano. “A coltivare sono soprattutto anziani, come confermò anche il sondaggio Salute-Censis presentato al convegno sulla1a terza età nel maggio dell’anno scorso: alla domanda su quale attività svolgevano con regolarità, il 66 per cento degli anziani intervistati rispondeva “coltivare in vaso prezzemolo, basilico e altre spezie”; chi aveva lo spazio necessario, il 21 per cento, indicava l’orto. Anche tanti giovani,scelgono di dedicarsi all’orto in casa per diverse ragioni. Non più soltanto per passione, ma anche per ottenere una gratificazione personale e risparmiare sulla spesa.
Quali sono i vantaggi della coltivazione in balcone? Il primo e più facilmente apprezzabile è il recupero dei sapori di una volta. I cibi che coltiviamo direttamente hanno un sapore diverso e più ricco. La prima volta che assaggiamo un pomodoro coltivato da noi ci rendiamo subito conto della differenza. In primo luogo perché stiamo mangiando un ortaggio che è stato appena colto e non ha stazionato a lungo in celle frigorifere. Inoltre, abbiamo la possibilità di mangiare frutta e verdura nella loro vera stagione di maturazione.
Sta poi a noi scegliere il livello di genuinità dei nostri prodotti. Se vogliamo ortaggi naturali al 100% basta scegliere se menti biologiche che vengono prodotte senza ricorrere a concimi chimici o di sintesi e senza utilizzare pesticidi.
Un’altra scelta importante è quella che riguarda i fertilizzanti. Meglio preferire quelli di origine animale e vegetale, evitando quelli chimici…”.
Non a caso esiste una disciplina chiamata “Horticultural Therapyi” che si basa proprio sulla coltivazione come metodo di cura, volta al miglioramento fisico e psicologico dell’individuo tramite l’interazione, anche solo visiva, con la natura.
Si tratta di una disciplina nata già nel diciannovesimo secolo da un’intuizione del dottor Benjamin Rush, considerato da tutti il padre della psichiatria americana, che pubblicò i primi lavori sull’effetto curativo dei giardini e del fare giardinaggio per persone afflitte da disturbi psichiatrici.
Negli Usa sono stati istituiti già da tempo dei master in terapia orticolturale e anche in Italia qualcosa si sta muovendo, tanto che è già attiva a Torino l’Holticultural Therapy Italia, l’associazione inglese che ha anche un sito internet (www.ahta.org). Sono sempre più numerosi poi i Comuni che mettono a disposizione dei pensionati dei piccoli appezzamenti di terreno da coltivare.
Del resto, i benefici per la salute sono stati ribaditi anche da uno studio durato ben 35 anni e recentemente pubblicato sul “British Medical Journal”. Secondo i ricercatori dell’Università di Uppsala, in Svezia, chi fa giardinaggio o coltiva anche soltanto un orto, anche se piccolo. guadagna circa un anno di vita rispetto a chi rimane passivo.

U.G.




Il gran ritorno dei piatti contadini


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Tornano – e trionfano! – i piatti contadini, quelli rimasti vicini alle origini e che hanno custodito meglio le tradizioni dei sapori locali.
In “Viaggi a tavola” ne scive su “Repubblica” da quel bravo esperto che è, Marco Angelini:
“una breve escursione sulle colline che circondano quella zona dell’Umbria settentrionale conosciuta come Alta Valle del Tevere consente l’incontro con numerosi paesini, alcuni poco più che frazioni, sapientemente restaurati. E’ il caso di Montone: un borgo raccolto e vivace ricco di storia e pregevoli opere d’arte. Lasciata alle spalle la confusione della città ci si inoltra per le stradine con scalinate che consentono di superare agevolmente i punti più scoscesi, piccoli porticati che si aprono in piazzette dove si affacciano case con facciate decorate. Si possono anche ammirare le belle chiese medievali, con affreschi e cori lignei. In una di queste stradine strette e tortuose all’interno di un antico palazzo del 1100, dimora del famoso Capitano di ventura Braccio Fortebracci, si trova la Locanda del Capitano, splendido relais di campagna composto da un ristorante e 10 suite, ristrutturato con il massimo rispetto della tradizione umbra. La cucina curata personalmente dallo chef e patron Giancarlo Polito (coadiuvato dal giovane e promettente Lance Keirle) coniuga con sapiente creatività ricette non solo regionali, accosta piatti moderni a sapori contadini affiancati da una ricercata cantina che offre una selezione di 400 etichette. I menù variano a seconda della stagione, delle occasioni del mercato, della personale sensibilità di Giancarlo. E sia che durante la buona stagione preferiate cenare sulla terrazza, circondati dai profumi che si levano dal giardino circostante, sia che in inverno preferiate l’ampia sala rallegrata da belle litografie d’autore, troverete sempre ad accogliervi la squisita cortesia di Carmen Polito e la raffinata semplicità della cucina creativa di Giancarlo.”




Due Paesi in guerra nella bassa – formaggi


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Diciamo meglio: tra i formaggi più famosi, le caciotte stagionate sottoterra. Il marchio doc è stato assegnato solo a quelle prodotte a Sogliano, in Romagna. Ma Talamello, nelle Marche, contesta e batte alla porta, poiché anche qui si produce un’ottima caciotta, da 500 anni. E che 18 mesi fa, il Ministero delle Politiche agricole aveva concesso una salomonica dop provvisoria: “Formaggio di fossa di Sogliano al Rubicone e Talamello”. Marchio in condominio e tutti contenti. Troppo facile. È stata l’Unione Europea a dire che così non poteva andare: il marchio deve essere breve e soprattutto indicare una sola area di produzione. Sogliano, Talamello: come in “Highlander”, ne resterà uno solo. Qualche settimana fa il ministero ha fatto la sua scelta premiando il paesino romagnolo e mettendo in castigo quello marchigiano: “Formaggio di fossa di Sogliano” dice la proposta per il marchio definitivo che deve essere sottoposta di nuovo al parere di Bruxelles. Apriti cielo. Incontri al ministero, interrogazioni parlamentari: dal sindaco di Talamello al presidente della Regione, nelle Marche sono tutti in pressing per ottenere una marcia indietro. Ma le speranze sono poche. La scelta è caduta su Sogliano perché lì di formaggio se ne fa di più, il 70 per cento della produzione certificata. Ma i marchigiani non ci stanno: «È vero che producono più di noi», dice il sindaco di Talamello, Rolando Rossi, «ma è vero anche che il formaggio nelle fosse lo mettono più di una volta l’anno come invece vorrebbe la tradizione». I romagnoli, si sa, sono più imprenditori dei mansueti marchigiani. E si sono dati da fare, al punto che nelle campagne vicino a Talamello c’è chi maligna forte. È qui che serpeggia l’infamante accusa di tradimento, rivolta a mucche marchigiane e relativi allevatori. La maggior parte del formaggio destinato alle fosse, dicono, viene prodotta in realtà proprio nelle Marche. Solo che, invece di metterlo sotto terra, i contadini poco patriottici lo vendono agli astuti romagnoli. Sono loro a farlo nelle fosse ed ecco che, per miracolo, le caciotte marchigiane diventano made in Romagna. Un accordo tacito che finora tutti tolleravano, ma che lo sgarbo della dop ha trasformato in un’onta da lavare. Il sindaco di Sogliano, Enzo Baldazzi, veste i panni del vincitore magnanimo: «Capisco che a Talamello 1’abbiano presa male, fossi in loro protesterei anche io. Ma purtroppo non vedo alternative: un marchio che accontenti tutti e due non si può avere e, se scelta deve essere, è giusto premiare noi».
In realtà Sogliano e Talamello non sono state sempre rivali. Prima che il formaggio di fossa diventasse trendy, avevano addirittura creato un consorzio unico per promuoverlo. Poi, una decina di anni fa, è cominciata la moda, quel cibo da poveri ha iniziato a portare soldi e turisti.




Ricco “Dizionario” delle cucine locali


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La cucina italiana beneficia delle ricchezze delle tradizioni culinarie locali e degli ingredienti che contraddistinguono la maggioranza delle aeree dello Stivale: mare, monti, colline, laghi e pianure. Ed è anche il risultato di culture che hanno avuto una particolare sensibilità verso il cibo, visto non solo nella sua forma più essenziale, ma anche come elemento per ottenere piacere o addirittura ostentare ricchezza e potere.
La nostra cucina nazionale si può quindi definire come un insieme di culture e tradizioni regionali: spesso i piatti sono nati da circostanze storiche e non pochi risultano essere gli aneddoti sviluppatisi intorno alla creazione di ricette diventate capisaldi della nostra cultura gastronomica. Ad aiutarci nella penetrazione di questo complesso universo c’è ora il Dizionario delle cucine regionali italiane (a cura di P. Gho, Slow Food editore, pp768, € 23), vasto inventario di prodotti, pratiche e piatti che costituiscono il corpo dell’italica tradizione.
Col dichiarato intento di essere strumento di lavoro (per restare viva e vitale, qualunque tradizione deve essere praticata ma, prima di tutto conosciuta) quest’opera sgombra il campo dalle tante asistematiche e scientificamente inattendibili pubblicazioni degli ultimi vent’anni. Ricco di quasi diecimila voci, riporta anche pezzi di archeologia culinaria come il ris e trigoi (piatto mantovano che prevede l’utilizzo della castagna d’acqua, scomparso perché questa pianta non sopravvive all’inquinamento dei nostri fiumi), la torta Umberto (creata da un pasticcere reggiano in onore di re Umberto I) e i tagliolini in brodo con gli inciampi (piatto toscano riservato alle grandi occasioni, a base di fegato di pollo).

(Gianluca Montanaro – “Il Domenicale”)




Accademia della cucina e “civilta' della tavola”


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La lanciò Orio Vergani neli Anni Cinquanta, insieme ad altri intellettuali, sostenendo che, “in un mondo che tendeva a capovolgere e a stravolgere i valori tradizionali”, l’Accademia aveva il compito “di sottolineare l’importanza della civiltà che aveva il proprio fondamento nella convivialità familiare, nel rispetto delle tradizioni, nella salvaguardia del costume gastronomico, nella conoscenza della storia, nella valutazione serena e obiettiva della trasformazione dei tempi senza rinnegare né idealizzare il passato. L’Accademia, – diventata un’istituzione culturale “della Repubblica con decreto legge del 18 agosto 2003 – conta adesso 212 Delegazioni in Italia e 75 all’estero. Nella nostra nazione ne sono presenti in ogni Provincia, anche più di una, in funzione dell’ampiezza del territorio e dell’attività svolta.

A Cortina d’Ampezzo, ad esempio, gli accademici sono attualmente 34, ovvero 27 ai quali si sono aggiunti 7 nuovi soci: avv. Monica De Mattia, Diego Dipol, Antonio Librici, l’architetto Etienne Majoni, Giorgio Marchesini, l’architetto Luca Menardi Ruggeri e Gabriella Milazzo. Ci sono “traguardi” ambiziosi, per l’Accademia, con tre dettami fondamentali, chiamati anche le 3 C: civiltà, cultura e cucina. Lo studio e la ricerca continua che l’Accademia svolge in tutto ciò che riguarda la civiltà della tavola, passano anche attraverso un’intensa attività conviviale, che oltre a costituire occasione d’incontro e di fervido scambio di idee, rappresenta un momento molto intenso di partecipazione. E si racconta di “salvare una ricetta della tradizione, cercando di conservare il nostro passato, farlo conoscere e trasmetterlo alle generazioni future…Sì certo, di tenere in considerazione la cultura, la divulgazione e la salvaguardia dello spirito conviviale.

Quest’anno, la “cena ecumenica” ha luogo il 16 ottobre ed è dedicata al “maiale in cucina”. L’Accademia è anche sinonimo di riconoscimenti, quali premi e diplomi per tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nel mondo della gastronomia, difendendo i valori culturali e garantendone i principi di qualità e difesa della tradizione. C’è il Premio Vergani, il Premio Angelo Berti, con la difesa dei titolari di piccole aziende che valorizzano i prodotti nazionali; c’è il Premio Dino Villani per i ristoranti e il Premio Beppe Gavotti per il rispetto della cucina tradizionale. E tanto altro ancora…

Umberto Giusti




Il "grande" zafferano


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Prima fu colore, poi profumo ed infine sapore. Già agli albori della storia c’è tutto un frusciare di vesti e di veli tinti di zafferano, uno sfumare di cosmetici e un incalzare di paragoni con il fiore prezioso. Dalle toghe degli antichi Egizi all’abito del Datai Lama, lo zafferano ha donato il suo colore giallo agli abiti regali o sacri di ogni tempo e luogo.

Ma non solo, utilizzato come tintura per i fili di lana che servono per dare vita agli stupendi tappeti persiani e per i tessuti del Kashmir, sembra che lo zafferano sia stato fin dall’antichità più remota altamente simbolico: da sempre è stato infatti collegato alla ricchezza, sia materiale sia spirituale, e per tale motivo è riservato a coloro che regnano o che si incamminano su di una via spirituale, come per esempio i monaci buddhisti tibetani, birmani o thailandesi.

Prezioso come la porpora, lo zafferano serviva per tingere gli abiti dei re Assiri e dei re d’Irlanda, le calzature dei re di Babilonia, così come per tingere le bende con cui si avvolgevano le mummie egiziane. Le spose dell’antica Roma portavano dei veli tinti con lo zafferano e questa tradizione giunse fino al Medioevo: le nobili dame indossavano infatti sotto i loro abiti nuziali una tunica di seta anch’essa tinta con lo zafferano (e probabilmente tale costume è nato anche a causa delle proprietà afrodisiache, oggi dimostrate scientificamente, possedute dalla spezia). Nelle miniature lo zafferano sostituiva spesso l’oro e con esso si tingeva anche il cuoio.

il colore giallo e quindi anche lo zafferano sono sinonimi dunque di benessere, bellezza, abbondanza, salute, gioia, felicità e vitalità. Nei paesi d’oriente si usa ancora oggi regalare lo zafferano per augurare una vita lunga, prospera e felice a chi lo riceve. Usiamo dunque la benefica spezia che regala ai nostri piatti il colore dell’allegria gustando queste ricette semplici e veloci.




Mostarda e cotognata da piu' di cento anni


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Tra i “luoghi del gusto” italiani piu’ qualificati e tradizionali, da segnalare una pasticceria siciliana. Ne scrive un “ritratto” davvero eccellente, Angelo Surrusca su “La Stampa”.

Leggiamolo insieme, ringraziando Surrasca per questa simpatica segnalazione:”Santa Venerina è una piccola località alle pendici dell’Etna, a metà strada fra Giarre e Zaf-ferana: è qui che si trova la pasticceria dei fratelli Russo. Lucio, Nevia, Annamaria e Salvatore costituiscono la terza generazione di una gestione familiare iniziata nel 1880 dal nonno Lucio. Molti arredi sono ancora quelli di un tempo: sulla grande credenza con le ante a vetri in stile liberty in cui fanno bella mostra i tanti dolci tradizionali. Due le particolari specialità legate all’antica tradizione contadina: la mostarda d’uva e la cotognata. La prima, tipica del periodo della vendemmia, è un dolce al cucchiaio che si ottiene con il mosto, l’amido, mandorle e cannella; l’altra si ricava dalle mele cotogne cotte in acqua e lavorate con lo zucchero; entrambe sono fatte addensare in piccoli stampi di terracotta smaltata. Altro vanto dei Russo è la pasta reale, buona ma anche molto bella da vedere: i tanti soggetti disponibili spiccano per la verosimiglianza. Da provare anche le mezzelune (biscotti di mandorle al cacao ricoperti con mandorle tostate), le paste di mandorle arricchite da pistacchi dell’Etna, nocciole, essenze di limone, arancia o mandarino, i mostaccioli, i biscotti con il sesamo, le granite accompagnate dalle classiche «briosce». ”

Pasticceria Russo – Santa Venerina (CT) – Via Vittorio Emanuele 105 – Tel.095.953202