A Fermo: Università per i Beni Culturali


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La Facoltà di Beni Culturali costituita a Fermo dall’Università degli Studi di Macerata, è concepita per formare le abilità professionali chieste dai decreti ministeriali concernenti musei, biblioteche, archivi e altri luoghi e istituti culturali, nonché dalla Carta Nazionale delle Professioni Museali e dalle normative delle Regioni. I corsi coprono tutti i profili, dai livelli tecnico-operativi a quelli scientifico-direttivi, fornendo una formazione integrata fra le conoscenze teorico-speculative e giuridico-economiche necessarie per valorizzare e gestire i beni culturali. Viene così facilitato l’inserimento lavorativo nei ruoli statali, regionali e degli enti locali e nella vasta gamma di imprese e di organizzazioni non profit attive nel settore. Oltre che unica per il carattere interdisciplinare che supera i gravi limiti degli approcci didattici tradizionali, la Facoltà di Fermo è anche assolutamente completa, giacché, come difficilmente altrove, comprende una laurea triennale in conservazione e gestione dei beni culturali, una laurea magistrale in management dei beni culturali, la scuola di specializzazione in beni storico-artistici e il centro di eccellenza convenzionato con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e con la Regione Marche. Dall’anno accademico 2008-09 verranno erogate 20 borse di studio di € 1.000,00 ciascuna e saranno aperte la casa dello studente e la mensa, universitaria.

Fermo è la quinta provincia della regione Marche, istituita con la legge n. 147 dell’ 11 giugno 2004 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 138 del 15 giugno 2004. Diverrà operativa a partire dal 2009, quando si svolgeranno le prime elezioni provinciali e avrà come capoluogo Fermo. La nuova provincia comprende 40 comuni e sarà scorporata dal territorio attualmente compreso nella provincia di Ascoli Piceno. La provincia ha targa FM, sigla che in precedenza era stata della provincia di Fiume.

Estensione: 859,51 Kmq
N. dei Comuni: 40
Popolazione: 173.020 abitanti
densità: 201 ab/Kmq (2006)
densità: 193 ab/Kmq (2001)




Calabria "di fuoco"


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In una intera pagina de “Il Sole- 24 Ore” dedicata alla Biennale Cinema di Venezia, Camilla Baresani “denuncia” quello che per lei – a tanti altri è apparso come il “pesce elastico” della laguna sulla pur rinomata (e costosa) Taverna dell’Excelsior al Lido dove – se non ci fossero altri motivi per andarci- per quello che riguarda il cibo “ci sarebbe da disperarsi; per il “buffet abbastanza respingente” Ce giù un elenco che fa rabbrividire. Va meglio con la cucina di “Mare” a Pellestrina, dove si salvano almeno gli antipasti ma il resto del menù “ha una cottura eccessiva” e l’insieme è comunque “deludente”. E allora ci appare un po come un approdo felice il piccolo panorama calabrese che ci spalanca il nostro sempre bravo Davide Paolini nell’articolo intitolato “I tesori di Calabria sono piccanti” che quì ci permettiamo di riprendere per la nostra rubrica. Anche perchè sfata un luogo comune che riguarda cucina e alimentazioni calabresi; che non sono soltanto “nduja” ma anche altri prodotti baciati dal peperoncino: caviale Crucoli, soppressata e salciccia.

Scrive dunque Paolini: I tesori di Calabria non sono i bronzi di Riace, parola di gastronauta. Se infatti t valida la tesi che un territorio si conosce non attraverso i musei, ma per mezzo de mercati, ecco quindi balzare evidente una realtà fatta di formaggi, salumi, pesce, ortaggi frutta, vino, olio. Non solo di peperoncino sebbene la sua importanza, soprattuttc nell’invadere, quale conservante, larga parte della gastronomia, calabra sia evidente. «Quando un calabrese chiede il peperoncino e lo versa religiosamente e in maniera sacrale su tutte le pietanze—scrive l’antropologo Vito Teti—non compie solo un atto alimentare: egli sta parlando della storia e della cultura della sua regione; narra di antiche privazioni e di recenti conquiste, di una fame antica e di tradizionali utopie alimentari, di desideri di abbondanza». Ebbene, il peperoncino (che contiene un vasodilatatore chiamato capsicina) è protagonista di un salume davvero originale, duttile come pochi: ‘nduja, termine che potrebbe discendere dalla salsiccia francese “an-douille”, preparata con le interiora del maiale, fegato, polmone, trippe bollite insieme a erbe e a piante aromatiche. Questa versione è suffragata dal fatto che Gioacchino Murat, vie ore di Napoli, nonché cognato di Napoleone, ordinasse la distribuzione gratuita di un salame di questo tipo per ingraziarsi i poveri. Altra interpretazione fa discendere la ‘nduja dagli spagnoli nel ‘500. La ‘nduja (da non confondete con la cugina ‘nduglia: salsiccia di fegato e di polmone e di parti grasse prodotta in alcuni territori della Calabria e della Basilicata) è un salume che si produce con parti magre e grasse del maiale, un tempo avanzate dalla lavorazione del maiale, fegato e polmoni. Dopo averla macinata, vengono aggiunti sale, semi di finocchio, pepe nero, ma soprattutto il pipereju, un peperoncino tipico di Spilinga, la capitale di questo salume, ricca solo di micro artigiani, quali Vittoria Lazzaro, Luigi Caccamo. L’aspetto bizzarro è che un tempo l’amalgama degli ingredienti veniva esperito solo da uomini (l’usanza ancestrale vietava addirittura alle donne mestruate di partecipare alla lavorazione). Quindi l’impasto viene insaccato in un budello cieco (detto orba). Dopo qualche giorno, il salume viene esposto al calore e al fumo di essenze legnose aromatiche per circa due settimane. Poi si passa alla stagionatura che dura intorno ai cinque mesi. Il risultato finale è un prodotto morbido, spalmabile sui crostini, nonché tremendamente duttile in cucina. Può venir usato per condire la pasta, abbinato con il tonno, altro giacimento del territorio di Pizzo Calabro (dove un tempo erano in funzione ben quattro tonnare, oggi sede di importanti aziende quali Callipo e Sarda-nelli), oppure con carni, quali l’agnello. Locali come l’Approdo di Vibo Marina e la Locanda di Alia di Castrovillari sono maestri nella creazione di pietanze con il ricorso al giacimento di Spilinga. La sorpresa forse più macroscopica è comunque un accostamento realizzato da un giovane pasticciere Giuseppe Mandaradoni: cioccolato e ‘nduja che danno vita agli ‘ndujotti. Non solo ‘nduja, nonostante sia il prodotto più intrigante, ma sempre baciati dal peperoncino: il caviale di Crucoli (ro-samarina), la soppressata e la salsiccia, quindi il capocollo, il caciocavallo silano, il canestraio crotonese, lo straordinario pomodoro di Belmonte, la cipolla di Tropea, i fichi secchi di Amantea e dintorni. Insomma uno scrigno di tesori, sì del gusto. Sine qua non. Davide Paolini

a cura di Pino Rauti



Fameia dei zater e menadàs del Piave


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A ricercatori….accaniti quali ci sentiamo delle tante e bellissime “realtà” locali che fanno dell’Italia un Paese unico al mondo nelle sue …biodiversità, ma può sfuggire quella singolare “famiglia” che è formata dall’Associazione storico culturale dei dendrofori e zattieri del Piave II°-XX° Sec. D.C.(Codissago di CASTELLAVAZZO BELLUNO)

Storia della zattera e degli zattieri
Epoca Romana

Roma ovunque arriva con le sue conquiste territoriali introduce la sua organizzazione, uno degli aspetti è rappresentato dallo sfruttamento delle foreste per ricavare il legno indispensabile per le costruzioni civili e navali. Non dobbiamo dimenticare che già al tempo dei Greci, questi avevano in grande cura i boschi e i romani continuano, seppur con minor cura, questa tradizione.Abbiamo così l’istituzione di collegi (corporazioni) di operai specializzati addetti alle varie operazioni di taglio e trasporto del legname.

I saltuarii custodi e amministratori dei boschi
I salturii limitanei destinati alla vigilanza dei confini delle selve.
I materiarii lignarii boscaioli
I tignoserrariis segantini
I dolobrarii squaradori.
I dendrofori o nautarum destinati al controllo del taglio alla costruzione e condotta delle condotte terrestri e fluviali del legname ad uso della marina e delle pubbliche costruzioni.

Sono dunque i dendrofori che in epoca romana esercitano la professione di zattiere. Plinio racconta del prezzo d’affetto per un albero da matadura di circa otto piedi di diametro pel quale fu pagata la somma di ottantamila sesterzi, l’ordinario prezzo di un raso cioè di una zatta d’antenne al tempo di Roma era di quarantamila sesterzi.Questi rasi si deve presumere che non differissero molto dai rasi che discendevano il Piave dalle Dolomiti bellunesi fino a Venezia fini ai primi del 900. A Roma arrivavano legni di grandezza portentosa da ogni parte dell’impero. Plinio racconta che tra quello ordinato da Tiberio pella costruzione del ponte Naumachiario v’era un trave di larice condotto dalle Alpi Rezie, e quindi dall’arco alpino orientale, che avea centoventi piedi di lunghezza (m. 35,46) ed una grossezza uniforme di due piedi per ogni lato (m. 0,591). Questa trave rimase esposta al pubblico fino alla sua messa in opera nella costruzione dell’anfiteatro di Nerone.

L’albero maestro della nave egiziana su cui Caligola fece condurre a Roma l’obelisco che è oggi collocato davanti alla cattedrale di S. Pietro allora Circo aveva nientemeno che 24 piedi (m. 7,09) di circonferenza. Un altro di cedro della nave di Demetrio, tagliato nei monti della Siria, era lungo centotrenta piedi (m. 38,41), e ne aveva di circonferenza circa diciotto. Il ritrovamento di cippi e lapidi dedicati a capi del collegio dei dendrofori testimonia la presenza dell’organizzazione romana riguardo al trasporto di legname che allora poteva avvenire soprattutto via fiume. Abbiamo il ritrovamento nel ducato di Baden nel luogo dove vi era il borgo romano chiamato Civitas aurelia aquensis e dove esisteva un collegium nautarum di una lapide dove vi è l’effigie di Mercurio protettore dei commercianti e una scritta in h.d.d.d. neptuno. Contubernio. Nautarum. Cornelius. Aliquandus. d. s. d.. In quel luogo è esistita fino a pochi decenni fa una numerosa congregazione di zattieri occupata a condurre il legname raccolto nella Foresta Nera sui confluenti Kinzig Nekar Enz e di là sul Reno fino in Olanda. Cesare racconta che: nel 53 a.C. duemila cavalieri Sicambri varcarono il Reno su zattere trenta miglia a valle del ponte da lui lasciato nel territorio degli Eruboni e nel 58 a.C. i celti-svizzeri attraversavano la Saona con zattere. Una lapide dedicato all’ars nautarum è stata trovata ad Alba Julia lungo il Tirgu Mures in Romania. Una lapide è stata trovata sull’Iser affluente del Rodano dedicato al dio Silvano “pro salu(t)e ratior(um) superior(um) amicor(um) suor(um)” che stabilisce la presenza di una organizzazione di zattieri. Due lapidi trovate a Brescia dedicate una a Arrio Paulino Apro patrono del collegio dei dendrofori e un’altra a Gaius Cripius Mesperio capo del collegio dei dendrofori. Quest’ultima posta dalla moglie Mariae Synethiae che offre a tutela mille sesterzi. Una lapide dedicata a Ercole Silvano dai boscaioli di Zuglio nella Carnia cosi diceva “herculi comiti custodi M. Caesius Aug. Lib. Sostratus praef. Fabrorum collegii dendrophororum etc.”. Troviamo lungo il Piave due cippi uno a Belluno dedicato a Marco Carminio Pudente capo del collegio dei dendrofori 200 d.C. e uno a Feltre dedicato a Caio Firmino Rufino, chiaramente questa abbondanza di ritrovamenti fa pensare che il Piave lungo l’asse Berua, Belluno, Feltre e Altino porto romano all’interno della laguna fosse già allora interessato da un traffico intenso di legname trasportato con zattere. Era soprattutto il larice che interessava ai romani

Cippo Marco Carminio Pudente
Ma questa storia deve essere ancora più antica se, come narra Strabone, i Veneti ancora prima della conquista dei romani costruivano navi di ampia carena, altissime in prora e poppa, capaci di lontanissima navigazione, e tutte di legname quercino che ridondava, di fatto, nel loro dominio.

Al tempo dei romani le foreste delle provincie erano così importanti che erano demandate quali ricompensa ai consoli usciti di carica e erano oggetto di gara fra loro per conseguire il governo delle province più ricche di boschi e farvi bottino D’altronde l’arrivo dei romani nel veneto non può dissociarsi dalla coscienza di essere diventati padroni di una ricchezza immensa di boschi ancora vergini come afferma sempre Strabone. Queste selve erano la Diomea sul Timavo, la Lupanica estesa dall’Isonzo alla Livenza, confinante con la Fetontea “Silva Magna”, la Torcellis, la Clocisca, la Lauretana, la Torunda, la Morgana, la Cavolana, il bosco del Montello e le grandi foreste lungo il Piave e il Tagliamento e i loro affluenti.

A Castellavazzo veniva costruito il Castrum Labazii campo militare a difesa della vallata da possibili invasioni da nord.

A Codissago durante scavi per il rifacimento delle fognature nel 1968 vengono trovate urne cinerarie con monete d’oro romane, questi reperti sono poi scomparsi..Gli zattieri del Piave hanno senza dubbio una tradizione millenaria e questa grande esperienza maturata nei secoli si è protatta ininterrottamente fino al 1915 con l’arrivo del trasporto su ferrovia..




Le Marche sono uno scrigno di bontà


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Se Lord George Byron rinascesse oggi, poeterebbe ancora malinconico sul potere dell’uomo che si ferma dove s’infrangono le onde del mare. Ma, forse, aggiungerebbe che esiste un luogo, il lungomare di Senigallia, in cui, fuori stagione o nei giorni di burrasca, quel senso di impotenza si dimentica subito, impazienti come si è di andare a sperimentare le evoluzioni gastronomiche di Moreno Cedroni, che la Michelin ha appena promosso a due stelle, e Mauro Uliassi, che le due le merita a sua volta ma deve pazientare ancora. È assodato che il rinascimento della cucina d’autore marchigiana e italiana debba molto al talento e alle tecniche (diversissime) dei patròn dei ristoranti Madonnina del Pescatore di Marzocca e Uliassi di Senigallia.

Ma dietro ai due alfieri scalpitano, nella stessa terra, promettenti cortigiani di cose buone come evidenziato dalla stessa guida francese con la stessa concessa, altra novità marchigiana, all’Enoteca dell’hotel Le Case a Macerata. Non solo cuochi ma anche vignaioli. Il tour tra le nuove Marche può iniziare 50 chilometri a sud di Senigallia, in quella Numana pittoresca tra il mare e i piedi del Conero, unico brivido montuoso nel piattume geografico che lega l’Adriatico da Trieste al Gargano.

Sulla litoranea, in località Marcelli, si staglia elegante da dieci anni il Saraghino di Roberto Fiorini, 071.7391596, a lungo allievo di Uliassi ma forgiato anche da Ferran Adrià e Andoni Luis Aduriz. L’estro è evidente già dagli antipasti che possono materializzarsi in convincenti Calamaretti con spinaci croccanti, schiuma di cocco, zenzero e salsa di soia o di un piccante ed equilibrato Crudo di spigola di porchetta con carciofi, guanciale croccante e fiori eduli. Provi poi le Capesante arrostite con tuberi, foglio di amaranto e germogli freschi, chiudi con i dolci da urlo e non capisci perché il nome di questo 36enne circoli poco tra critici e gourmettari. Oltretutto il menù degustazione di 7 assaggi a 50 euro è più che corretto, come la carta dei vini, con molte Marche in vetrina.

A proposito, a un passo da qui l’enologo Attilio Pagli e il titolare Antonio Terni, timido ingegnere nucleare pazzo per Bob Dylan, anche quest’anno ci hanno visto giusto: sono piovuti addosso alla loro Fattoria Le Terrazze, www.fattorialeterrazze.it, riconoscimenti per il Chaos 2004, un montepulciano-syrah-merlot da brividi. Forse condizionati da un eccesso di campanilismo, noi preferiamo però i due montepulciano in purezza Rosso Conero base e Sassi Neri, con quegli intensi profumi di sottobosco, che vanno giù eleganti come niente fosse. Spostandosi più a nord, nell’entroterra jesino, non mancano le occasioni per mettere nuovamente in tumulto cuore, gola e palato. Qui ha molto senso fiondarsi dai Conti di Buscareto, www.contidibuscareto.it, prima di tutto per la vista che si gode dalla cantina di Ostra, poi per alzare calici di buon Lacrima di Morro d’Alba, antico vitigno autoctono a bacca rossa ostinatamente recuperato da Enrico Giacomelli e Claudio Gabellini, titolari della nuova azienda. Il Lacrima Compagnia della Rosa 2003, ottenuto da uve selezionate e affinato in piccola rovere, è una scossa strutturata e atipica che colpisce i sensi.




Sale: parte da Napoli "una fiera mondiale"


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Che cosa hanno in comune Salisburgo e la via Salaria? La parola salario e l’espressione «cum grano salis»?
Un ingrediente che ha 14 mila usi conosciuti, ma nelle ricette compare indicato dalla sigla q.b. (quanto basta) o dall’indicazione «un pizzico». E, granello dopo granello, è diventato una cattedrale. Anzi una carovana, che parte da Napoli (appuntamento dal 3 al 6 maggio, alla Fiera d’Oltremare) per raggiungere San Francisco, New York, Sydney, Londra, Barcellona Francoforte.
«SaltExpo», un’idea di Fabio Fassone, quarantenne musicista-cuoco, fondatore di «Adhoc Culture», è la prima fiera- evento dedicata al sale (300 espositori di tutto il mondo, colonna sonora di Rino Gaetano), ma attenzione, non al banale cloruro di sodio sparso sulle strade gelate, o infilato nella lavastoviglie.

SaltExpo
E’ dedicata a quello che rende speciale un piatto (come il sale nero dell’isola di Molokai), diventa un elisir di lunga vita, occupa a tempo pieno gli esperti del Salt Institute, mobilita antropologi e ambientalisti, barman, poeti e touroperator. Si può attraversare il mondo per scoprire i Salares boliviani delle Ande e l’Hotel Playa Blanca, costruito con mattoni e arredato con mobili di sale. Per lasciarsi guidare nell’invisibile, salata, Detroit sotterranea, 50 miglia di strade nell’ex miniera dimenticata. O immaginare la vita a Taghaza, città del Sahara occidentale scavata nel sale. C’è chi allinea, come la collezionista di sabbia di Italo Calvino, barattoli trasparenti con un grigio e umido sale del delta del Po, un rosso, argilloso Alaea delle Hawai, un fleur de sal della Camargue o i rari «soffi» delle saline Ettore e Infersa di Trapani. Chi si specializza nel sale affumicato (mai provato il Salish del Pacifico?) con le spezie: vaniglia di Tahiti, noce moscata di Grenada, zenzero giamaicano. Chi sconsiglia, per i sali più preziosi, l’uso di cucina: è il caso dell’himalayano Halite, suggerito come antistress e antirughe per il poker di minerali che contiene (calcio, potassio, ferro e magnesio). C’è chi prepara una guida alle saline (il Touring), ambienti straordinari e giustmente protetti, chi una copertina (il Gambero Rosso), chi un nuovo elenco di cocktail salati (il barman dell’hotel Hyatt di Milano). Chi sta per scompigliare, seguendo l’esempio di Ferran Adrià, la carta dei sapori. E chi quella delle fragranze. Lorenzo Villoresi, principe dei profumieri, dice che oggi «c’è richiesta di note marine, legate agli odori delle alghe, a tutto ciò che il sale trattiene». Ormai, con macchine analoghe a quelle di Csi, oltre alla scena del crimine, è possibile ricostruire il profumo di un luogo, dalla foresta pluviale alla spiaggia. Non solo per gli scontatissimi sali da bagno, ma per la casa, o per piscine che sanno troppo di cloro.

Il business
A Napoli ci sarà tutto questo, più il Palcoscenico salato dello chef Carmelo Chiaramonte con l’esibizione dei cuochi come prestigiatori, e dopo i saltylabs e i saltystage, arriverà l’immancabile saltyhour per la gioia del saltypeople. Dietro il business, ovvio, c’è un po’ di magia e un po’ di snobismo. Forse non è indispensabile raccogliere il sale giapponese nelle notti di luna piena. Ma sarà necessario conoscere la differenza tra un salgemma e un sale marino, tra un fleur de sal (il più «forte» come gusto si raccoglie in Madagascar) e le decorative scaglie colorate, hawaiane, australiane, pakistane, da portare a tavola per la gioia degli occhi e del palato, per quel croccante retrogusto che allunga la lista dei piccoli piaceri.

Forse per snobismo, lo stellatissimo Heston Blumenthal suggerisce di aggiungere il famoso «pizzico di sale» all’acqua tonica, troppo amara, e Jean-François Piège, ex braccio destro di Alain Ducasse raccomanda un portoghese ricco di minerali, «puro, bianco, intenso», mentre rivela di essere molto intrigato dalla possibilità di riciclo del sale usato per la conservazione dei prodotti. Come quello del baccalà, che gli ha permesso di concepire un «branzino alla tapioca di ostriche». Ma il copyright più invidiato spetta, almeno per il momento, a Davide Scabin (il suo ristorante, Combal.zero, è il tempio del food design), autore di un sale liquido da spruzzare direttamente sul piatto. Altro che cloruro di sodio. Questo è un salt(o) di qualità. Roselina Salemi (“La Stampa”)




I profumi di Afrodite


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Proprio a Cipro, l’isola di Afrodite, dea della bellezza, sono stati ritrovati reperti archeologici della più antica fabbrica di profumi al mondo. Dei ciprioti, i ricercatori italiani del Cnr hanno rivelato la conoscenza delle piante e la sapienza nel riprodurne le essenze. In uno scavo a Pyrgos, i resti della fabbrica hanno rivelato tesori: ampolle, vasi, bacili, portaprofumi e un distillatore di 4.000 anni funzionante. Tecnologie sofisticate, simili a quelle usate dalla polizia scientifica, hanno svelato la composizione dei profumi. «Siamo convinti che le terracotte contengano tracce di famosi profumi mai recuperati come il Ciperum», spiega Maria Rosaria Belgiomo, ricercatore dell’Istituto per le tecnologie applicate ai Beni Culturali del Cnr. «Abbiamo scoperto essenze inaspettate, come il profumo al prezzemolo che ricorda la lavanda oggi usata nei prodotti per neonati. Oppure l’aroma al rosmarino, o il coriandolo, simile al patchouli». I ricercatori del Cnr, osservando le antiche prescrizioni, hanno identificato e riprodotto diversi profumi, come quello alla mandorla amara, alla lavanda, all’origano, a base d’olio d’oliva che nell’antichità veniva usato come amalgamatore ed era elemento base in molte altre lavorazioni di Cipro.




Un'arte: quella di tingere il legno


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Colorare e schiarire il legno: l’arte di tingere il legno era conosciuta fin dall’antichità, si dal tempo degli Egizi e dei Persiani. Questa tecnica è stata documentata però solo in epoca più tarda: greco-romana. Abbandonata durante il medioevo, fu reìntrodotta alla fine del Quattrocento grazie ad alcuni intarsiatori che, per rendere un maggior effetto cromatico alle tessere usate la utilizzarono nei loro laboratori. Infatti , le tessere vennero colorite e ombreggiate effettuando la bollitura delle essenze con liquidi colorati con estratti naturali.

La tintura, a differenza della verniciatura, permette di conferire al legno la colorazione desiderata senza avere l’effetto coprente proprio della verniciatura. Pertanto, dopo la tintura i disegni delle venature, la tessitura delle fibre, i nodi o marezzature restano ben visibili lasciando al legno questa inimitabile caratteristica che lo rende unico e così vivo. L’ebanista o il restauratore sono interessati alla coloritura superficiale dell’essenza che viene sottoposta a questo trattamento prima o durante la fase di lucidatura.

La tintura del legno, potrebbe in un primo momento sembrare cosa alquanto semplice, ma così non è: il risultato della tintura dipende sia dal tipo di tinta usata che dalla reazione delle sostanze contenute del legno. La tinta deve essere compatibile con tutti gli altri materiali che intervengono nel restauro :colle,stucchi, cere o gommalacca. Apprestarsi a tingere il legno potrebbe quindi supporre una elevata conoscenza tecnica e scientifica. I vecchi restauratori, possiedono una conoscenza empirica di questi fenomeni, data da numerosi anni di esperienza: tale conoscenza porta sicuramente a ottimi risultati.

Ecco come stanno le cose:
I mordenti: alle tinte naturali, di origine vegetale o minerale si sono aggiunte sostanze sintetiche derivanti dal catrame. Fra le tinte di origine vegetale , usate sin dalla antichità: il thè, la cicoria ed il mallo di noce sono quelle più note, vanno preparate per infusione e utilizzate a caldo. Queste tinte venivano usate per ravvivare le essenze nazionali (legno di frutto, quercia e faggio). Altre tinte, forse meno note sono la curcuma, il campeggio, l’indaco, il cartamo e lo zafferano. Altri coloranti erano di origine animale estratti da alcuni insetti della famiglia degli Omotteri, come la cocciniglia ed il Kermes. La Terra dì Cassel di origine minerale ed impropriamente chiamata “mordente noce” assai diffusa oggi in commercio. Questi prodotto viene estratto dalla torba proveniente dalla zone di Colonia e di Cassel ed è commercializzato in frammenti bruni che si sciolgono in acqua bollente. In commercio esistono tinte color Noce, Mogano, Ebano. Le proporzioni della soluzioni si dosano a seconda dell’intensità di colore che si vuole ottenere. Se si aggiunge qualche goccia di ammoniaca la Terra di Cassel assume sfumature violacee. Mentre, se addizionata con anilina rossa, assume sfumature della tonalità del mogano. Come le altre tinte a base acquosa, la stabilità alla luce è buona. Di seguito riporto un semplice ricettario che può dare un piccolo suggerimento di come procedere per ottenere la tonalità voluta :

• Noce chiaro e quercia: diluire la composizione base in acqua (sciogliere un paio di manciate di granuli in mezzo litro d’acqua in ebollizione)
• Noce scuro: diminuire la quantità d’acqua nella composizione base
• Noce rossiccio: aggiungere alla composizione base un poco di mogano
• Mogano Chiaro: aumentare le dosi d’acqua nella composizione base
• Mogano scuro: diminuire la quantità d’acqua nella composizione base
• Mogano con riflessi bruni: alla composizione base aggiungere un poco di noce
• Ciliegio: Noce Base più Mogano Base
• Ebano con riflessi: alla composizione base aggiungere un poco di Mogano

Le aniline: Le tinte estratte dal catrame vengono comunemente chiamate aniline. La gamma dei colorì disponibili va dal giallo al bruni cupo, si acquistano in mesticheria sotto forma di polveri commercializzate in bustine da poche decine di grammi. Le aniline si distinguono in dipendenza dal solvente: aniline all’acqua o aniline all’alcool. Le aniline all’acqua sono, come la terra di Casse!, più stabili alla luce e compatibili con prodotti vernicianti a base alcolica e sintetica.

Altro vantaggio delle tinte ad acqua è la loro praticità, in quanto possono essere miscelate fra di loro e con quelle di origine naturale per ottenere tonalità intermedie. Inoltre il loro impiego è piuttosto semplice in quanto ripassando su una parte appena trattata, non si rischia di lasciare aloni o chiazze più scure dal momento che l’acqua evapora lentamente.

Le aniline all’alcool sono particolarmente indicate per tingere i legni molto sottili (piallacci e lastroni) che, se trattati con grandi quantità d’acqua, si imbarcano e deformano tendendosi a staccare. L’uso di tinte all’alcool non è comunque semplice poiché l’alcool può deteriorare la colla, per cui occorre proteggere le giunzioni con uno strato di paraffina. Possono dare luogo a tinte non uniformi se stese da mani poco esperte e non ultimo, la lucidatura a gommalacca è possibile solo dopo circa una quarantina di giorni dal trattamento di tintura.

Esiste anche un metodo di tintura del legno che si basa non sull’aggiunta di pigmenti colorati, ma sulla reazione con i tannini del legno facendoli diventare più scuri. Questo metodo, chiamato mordenzatura, da effetti esteticamente molto validi, ma è di una elevata difficoltà in quanto l’esito no è prevedibile a priori se non con una grande esperienza.

Bicarbonato di potassio: I cristalli di bicarbonato di potassio sono praticamente indicati per la colorazione del mogano. Questo metodo viene usato anche per dare al legno un spetto anticato. Si presta bene per armonizzare le integrazioni nuove. Ai cristalli viene aggiunta acqua necessaria allo scioglimento completo. Al momento dell’uso si aggiunge acqua per poter ottenere la giusta colorazione. Sebbene il liquido risultante sia un arancio vivo, da al legno un colore caldo e piacevole. Se usato molto concentrato si ottiene una colorazione quasi nera. Lo scurimento del legno non avviene appena applicato, ma ad asciugatura avvenuta.

Schiarire il legno: L’imbiancamento è un procedimento usato per schiarire i legni che poi verranno tinti in seguito al fine di uniformare meglio le integrazioni.

L’acqua ossigenata è la sostanza sbiancante più consigliabile dal momento che svolge un’azione poco dannosa sulle fibre legnose, è adatta tutte essenze e non richiede risciacquo poiché i suoi componenti evaporano spontaneamente » durante l’essiccazione. L’acqua ossigenata ad alte concentrazìoni (60-130 volumi) stabilizza con acido forte, va attivata al momento dell’uso con sostanza alcalina, ad esempio l’ammoniaca diluita.

Nota dell’esperto: Per la sbiancatura del legno, ho utilizzato una soluzione ottenuta componendo al 95% acqua ossigenata a 100 volumi e per il rimanente 5% ammoniaca pura. Per ciò che attiene al processo di sbiancamento , dopo avere indossato dei guanti protettivi, con un pennello ho incominciato a spennellare la parte da trattare lasciando qualche minuto come tempo d’azione della soluzione sul legno. Mi raccomando di usare anche una mascherina , perché i vapori dell’ammoniaca sono terribili. Successivamente con una pezza di cotone si strofina energicamente la parte da trattare.




Montagna di latte


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Un mondo fatto di oltre 1200 aziende zootecniche, 324 malghe, 8500 mucche ali’ alpeggio, i milione e 500 mila quintali di latte annui e oltre 20 formaggi tipici. E’ questa “La Montagna di Latte in Trentino”, una realta che il Consorzio dei Comuni Trentini intende promuovere attraverso un progetto di valorizzazione delle zone dì montagna. «La montagna dì latte» sì inserisce infatti in un panorama di iniziative che punta a rafforzare il ruolo delle Municipalità nella lotta allo spopolamento e ali” abbandono delle zone più periferiche della nostra provincia.

Nello specifico “La Montagna dì Latte” mira alla valorizzazione dei prodotti lattiero-caseari trentini, riconoscendo specìfici incentivi economici ad una serie dì iniziative finalizzate a stimolare occasioni di incontro tra produttori e consumatori. Il bando integrale del progetto è già stato diffuso ed è a disposizione presso la sede del Consorzio dei Comuni Trentini in via Torre Verde 21 a Trento e sul sito internet www.comunitrentini.it.

Complessivamente sono disponibili risorse pari a 1 milione e 100 mila euro. Ciascun evento dovrà essere preventivamente comunicato – almeno 5 giorni prima – per consentire l’effettuazione di precisi controlli, affidati ali’ Agenzia per la garanzia della qualità in agricoltura – AQA – di San Michele all’Adige (organismo accreditato presso SINCERI”). Il Consorzio organizzerà inoltre alcuni percorsi formativi destinati a far conoscere meglio il latte ed i suoi derivati agli operatori dei settori interessati.

“La Montagna di Latte” intende coinvolgere, oltre ai Comuni dove sì svolge l’evento, le Istituzioni Scolastiche, i Parchi, gli alberghi, i ristoranti, gli agriturismo, le enoteche e tutti gli altri enti o aziende che possono rientrare nella promozione dei prodotti della filiera lattiere – cascarla trentina. Per il Presidente del Consorzio dei Comuni Trentini Renzo Anderle “il progetto è un altro tassello importante nel quotidiano impegno dei Comuni trentini teso a garantire un adeguato sviluppo a un territorio speciale come il nostro”. Inoltre, per Silvano Rauzi, Presidente della Federazione degli Allevatori e Franco Brunori, Presidente di Trentingrana-Concast, “la riduzione della presenza zootecnica in montagna e la conseguente penalizzazione della filiera lattiere casearia^produrrebbe effetti non solo sugli operatori del settore, ma, più in generale, potrebbe incidere negativamente sulla capacità di mantenere e curare il vasto patrimonio di pascoli e prati della nostra provincia”. Per Claudio Chini, responsabile per Agricoltura e Montagna all’interno del Comitato Esecutivo del Consorzio dei Comuni, “il progetto sottolinea l’importanza che l’Ente pubblico riconosce agli allevatori, i veri «Giardinieri della Montagna».(Alessandra Rosa – “La Stampa”)




Pericolo nei piatti: da quello che importiamo


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Nuovo sondaggio:

Eurobarometro II 62% dei cittadini con passaporto Ue è preoccupato della presenza di organismi geneticamente modificati negli alimenti e la percentuale in Italia sale al 77%. Nonostante ciò i casi dì individuazione di prodotti alimentari trasformati contenenti Ogm sono frequenti. In Francia nel corso del 2005,gli esami effettuati su 69 campioni prelevati a caso tra prodotti alimentari vari hanno rivelato la presenza di organismi geneticamente modificati in ben 17 casi.

E in Italia come vanno le cose?

Ne scrive Vanni Corvero su “La Stampa”: “Innanzitutto c’è da dire che la nostra agricoltura ha detto «no» agli organismi geneticamente modificati. Nel nostro Paese, inoltre 11 regioni, 2355 comuni, 41 province e 50 comunità montane hanno già aderito alla campagna «liberi dagli Ogm» sostenuta dalla Coldiretti per impedire la contaminazione da biotech del territorio e conservare il proprio patrimonio ambientale e alimentare. Sono numeri che mettono in evidenza la piena sintonìa tra cittadini e Istituzioni territoriali nella battaglia perché gli Ogm non entrino nei piatti del Made in Italy e questo nell’interesse generale dell’economia, dell’ambiente e dell’intera società. «L’Italia – fa rilevare la Coldiretti – con il primato europeo nella qualità alimentare, ottenuto proprio grazie al divieto di coltivazioni Ogm nei campì nazionali e alla leadership nei prodotti tipici e biologici, è tra i Paesi d’Europa maggiormente interessati al rispetto del principio di precauzione (quello che ‘ suggerisce di non coltivare in campo piante Ogm poiché i margini di rischio non sono ancora accertati n.d.r.) per evitare scelte irreversibili a danno delle imprese e dei consumatori». Se sul Made in Italy si può stare tranquilli resta il grosso problema delle importazioni.

L’ultimo caso che ha messo in allarme i consumatori di mezza Europa è stato quello della scoperta di partite dì rìso contaminate in Francia, Svezia, Germania, Austria, Gran Bretagna e Italia. Un fatto che dimostra l’eccezionale gravita e dimensione del fenomeno, peggiorate dal ritardo con cui le autorità statunitensi hanno fornito informazioni all’Unione Europea le informazioni relative al riso LLRICE601 non autorizzato prodotto dalla Bayer.

E si torna ai controlli. Qui è il punto dolente.

Se sulle produzioni agricole italiane la sicurezza è praticamente assoluta, il discorso cambia se si parla di “prodotti alimentari trasformati” insomma quelli preparati per andare in tavola. «Se si parla di monitoraggio anti-Ogm il problema in Italia è l’organizzazione del sistema. Tecnicamente le difficoltà non sussistono, ma i mezzi a disposizione sono pochi e le competenze spesso troppo centralizzate. I controlli sono affidati ai IMas dei Carabinieri, che sono bravissimi, ma il sistema nel complesso non è attrezzato per un monitoraggio capillare sui generi alimentari». A parlare è il professor Marcelle Buìatti, Ordinario di genetica alla facoltà di Scienze naturali dell’Università dì Firenze, esperto sul tema Ogm del Comitato economico-sociale europeo. «La scoperta del riso Ogm è avvenuta quasi per caso -prosegue Buiatti – perché il controllo dei prodotti sugli scaffali, nelle attuali condizioni, non può essere che episodico. L’etichettatura di quello che si trova nei supermercati è affidabile, dato che le maggiori catene hanno loro laboratori di analisi per quanto riguarda i prodotti italiani commercializzati con il loro marchio, ma per quanto riguarda quelli di importazione è difficile dire altrettanto. Occorre mettere a punto un sistema per il controllo genetico lungo la filiera».

L’area più critica resta quella Usa: «Io sono un moderato, convinto che gli allarmi sulle coltivazioni Ogm non siano da enfatizzare – spiega il professore, a cui fanno capo anche i controlli in materia della Regione Toscana – ma ciò che mi preoccupa, più di quello alimentare, è l’aspetto delle coltivazioni per uso farmaceutico. Negli Usa sì sta, ad esempio, coltivando mais Ogm per produrre proteine coagulanti e anticoagulanti. E’chiaro come, in caso di contaminazione da polline, altre coltivazioni di mais potrebbero assumere le stesse caratteristiche, senza che questo sia noto. Tantopiù che in America il sistema di monitoraggio è molto relativo, visto che non c’è l’obbligo di una mappatura delle coltivazioni Ogm».

La conclusione è di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food: “Gli Ogm sono una tecnologia nata per essere invasiva della natura e del mercato. L’attuale situazione ci mette dì fronte al fatto che è sempre più difficile per i normali cittadini conoscere esattamente ciò che mangiano.”

Pino Rauti



Si torna alla canapa la "fibra più italiana"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Quelli che ci seguono con maggiore attenzione, certamente ricorderanno come e quanto noi si sia scritto sulla canapa e sulla possibilità di un suo ” ritorno ” alla grande nell’inserto di “Saperi e Sapori” lanciato su ” Linea” molti anni fa. Cercando su Internet -nell’interessantissimo sito promiseland.it- abbiamo trovato vari e utilissimi e documentati riscontri a questa ipotesi, avendo come fonti ” il forestale” numero 28 con articoli di Alessia Giovannetti e Cristina Altina’ nonché il Consorzio Canapa Italia.

Ma anzi tutto un po’ di storia; mai tanto utile ed anzi indispensabile come in questa davvero affascinante vicenda

La canapa e un tessuto naturale con molte qualità particolari. Eppure, a volte, parlando di canapa, si confondono le sostanze che derivano dalla canapa indiana e destinate al mondo illegale della droga, con le possibilità enormi che invece ci offre questa pianta, la “cannabis sativa”. Nel 1611 a Jamestown i primi coloni inglesi la piantarono per ricavarne fibra. In quegli anni, la Virginia e il Connecticut emanarono le prime leggi che imponevano la coltivazione della pianta per favorire lo sviluppo dell’industria dei tessuti: la “Cannabis sativa” si diffuse ovunque rapidamente. L’Italia divenne il produttore dei tessuti migliori, famose le qualità “Carmagnola”, “Bolognese” e “Napoletana”. Oggi, oltre che nel settore tessile, la canapa trova impieghi davvero innovativi.

Fresca d’estate e calda d’inverno, la canapa ha dimostrato di essere all’altezza di fibre come il cotone ed il lino e, grazie alle sue proprietà, oggi ricopre un ruolo di punta nel “made in Italy”. Per quasi un millennio, l’Italia è stata uno dei maggiori produttori ed esportatori di questo tessuto e la Marina Inglese, per oltre cinque secoli, l’ha utilizzato per confezionare le sue divise. L’importanza della canapa risale al V secolo a.C, quando veniva impiegata per la produzione tessile di vele e nella realizzazione dei capi d’abbigliamento. La natura e la composizione della fibra, infatti, conferiscono ai manufatti proprietà eccezionali: fra tutti i materiali tessili naturali è il più resistente, e ciò conferisce ai panni una stabilità dimensionale, un’elevata resistenza meccanica e una durata ineguagliabile. I filati in canapa sono il punto di partenza per la fabbricazione di diversi tessuti, che vengono utilizzati puri o in mischia per la realizzazione di numerosi articoli, che vanno dalla biancheria per la casa ad abiti ed accessori moda. Risulta essere fresca e traspirante in estate, calda e coprente in inverno: è stato notato, infatti, che – tra le fibre naturali – la canapa è particolarmente efficace per il potere di assorbimento dell’umidità, caratteristica che la rende confortevole per tutte le stagioni. Inoltre i tessuti di canapa possiedono spiccate caratteristiche anallergiche: non irritano la pelle, non conducono energia elettrica, proteggono dai raggi UV ed hanno un’azione benefica di massaggio.

Quello degli articoli tessili in canapa è attualmente un settore in grande fermento, la ricerca continua di soluzioni innovative ed alternative induce a creare prodotti nuovi e confortevoli, superando la vecchia credenza di un prodotto grezzo e poco raffinato. Ecco allora che, con la canapa, è possibile produrre tessuti e realizzare abiti sportivi, giacche e camicie ma anche abiti eleganti. Una versatilità d’impiego che – insieme al comfort e alla sicurezza di una fibra tessile naturale – rappresenta uno dei requisiti fondamentali per un capo di tendenza. La canapa, vista come coltura alternativa, può non solo vestire, ma è anche utilissima per risolvere i problemi che derivano dall’inquinamento industriale. Queste caratteristiche, alcune delle quali scoperte di recente, ne fanno pertanto una delle migliori colture per il recupero biologico del terreno. La cannabis sativa, la pianta da cui proviene la canapa, ha un tipo di coltivazione che richiede infatti pochi pesticidi e fertilizzanti. Attualmente viene lavorata attraverso impianti industriali che sostituiscono le lavorazioni artigianali di un tempo riuscendo a renderla talmente sottile da poterla sostituire al cotone o alle fibre sintetiche

Nel tempo molti studi si sono succeduti, volti a scoprire nuovi possibili impieghi della canapa. Negli anni ’50 e ’60 sono stati registrati notevoli progressi nelle tecniche di coltivazione e trasformazione della cannabis, tuttavia non sufficienti ad arrestare il declino della coltura. Negli anni ’70 sono state studiate le potenzialità della canapa come coltura cartaria, negli anni ’80 ancora nell’industria della cellulosa, e più in generale come specie da biomassa, in grado di produrre un elevato quantitativo di sostanza secca potenzialmente utilizzabile per la produzione di energia. Dalla seconda metà degli anni ’90 le cose sembrano essere cambiate ed un rinnovato interesse sembra aver riportato la canapa alla ribalta, se non della coltivazione almeno della cronaca, grazie anche al Consorzio Canapaitalia che ha portato avanti studi e ricerche su tale fibra. Sono quindi moltissime le prospettive che si aprono per un impiego apprezzabile della canapa: dall’industria automobilistica a quella dell’abbigliamento, ma anche nella produzione di carta, carburante e foraggio, nella bio-edilizia e nella realizzazione di prodotti per l’igiene personale, come saponi, bagnoschiuma e cosmetici.

A cura di Pino Rauti