La "tradizione" essenziale anche nell'agroalimentare


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Tra Milano e Palermo, in due giornate “ad alto livello” quanto a titoli dei partecipanti, confronto aperto sull’«universo alimentare in Europa e nel Mediterraneo» in occasione del secondo incontro internazionale, dal titolo “Sicilia madre mediterranea”.

Si è discusso – come dai giornali – su invito della fondazione Buon Ricordo e della Regione Sicilia “di come l’isola e i suoi prodotti possono affrontare la globalizzazione. E la risposta dei presenti è stata una: la qualità «dato che certo – ha sottolineato Ayman Korra, dell’Associazione per il miglioramento dell’ export ortofrutticolo (Heia) egiziano – i prezzi nei Paesi meno sviluppati sono più bassi.

«Però – ha aggiunto Franco Iseppi, coordinatore scientifico dell’incontro – gli altri non hanno il nostro territorio, il che non significa soltanto il clima ma quell’insieme di tradizioni, costumi, e stile che fanno dei nostri prodotti unici». Prodotti unici che vanno fatti conoscere e difesi dalle “imitazioni”.

«.NOI siciliani – ha commentato Felice Crosta, dirigente generale dell’assessorato all’Agricoltura della Regione – siamo convinti di fare i migliori prodotti del mondo, e spesso è vero. Abbiamo olio, vini, l’unica oliva da mensa Dop italiana. Però lo sappiamo solo noi:

dobbiamo farlo sapere anche agli altri».

L’obiettivo finale? Spiegare quello che c’è dietro ai prodotti, come è accaduto con il prosciutto di Parma che ha impiegato anni a far capire agli americani che non è semplicemente maiale crudo e che quindi può essere importato senza problemi per la salute, e per il parmigiano che ha a fatica convinto gli europei di non essere il nome di tutti i formaggi grattugiati.

«Un ruolo importante in questo – ha concluso il presidente della Fondazione Buon Ricordo e del Touring Club – potrà giocarlo anche. il turismo».




Folla all'insegna della "cucina povera"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

“E’ stato incredibile” hanno commentato gli organizzatori della grande rimpatriata d’autunno, svoltasi a Soriano nel Cimino, nel Viterbese. Il tema scelto era quello della riscoperta della “cucina povera”, diventata adesso la cucina che più piace a tutti perché la più semplice, la più naturale e gustosa. Non c’è stato giornale, che anche a livello nazionale, non abbia dedicato grande attenzione all’incontro di Soriano; una cittadina bellissima, che era parsa cadere nel dimenticatoio ma che adesso, con iniziative, diciamo, enogastronomiche sta impetuosamente rinascendo. La “zuppa” che è andata di più è quella più popolare: ceci e castagne; le castagne dei Cimini e i ceci – non meno famosi della vicina Talentano. Le prime, a Soriano, si chiamano “vajole” – leggiamo in un bell’articolo di Luca Zanini sul “Corriere della Sera” – e ad esse sono dedicate feste, sagre (e cene pantagrueliche) per tre fine – settimana, tra ottobre e novembre. Insieme “il fieno della nonna”, una pasta all’uovo molto sottile. Feste e sagre affollatissime anche a S. Martino, Canapina, e Vallerano.

Nella zona dei Cimino, si producono oltre 100 mila quintali di castagne l’anno. I più ricercati sono i “marroni dolci” di S. Martino.

Eguale successo anche a Roviano, vicino a Roma, dove il tema scelto è stato: “cultura e castagne”. Cultura perché “quel dedalo di viuzze bianche e casette di pietra calcarea” – come scrive su “Repubblica” la sempre brava e attenta Francesca Alliata Bronner ha storia alle spalle e richiami artistici di prim’ordine dal “blasonato Palazzo Baronale che ospita dal 2001 il Museo della Civiltà Contadina della Valle dell’Aniene, il più antico della regione, con oltre 2.000 pezzi tra cui molti reperti preziosi e perfino macchine agricole, sposti tra affreshi del ‘500 “ai due magnifici Parchi, dei Monti Lucretili e dei Monti Simbruini…”. E poi si va a cavallo a Campaegli di Corvara e anche in canoa, lungo l’Aniene, fra Subiaco ed Agosta.

E quanto alla castagna – ottime anche qui – adesso è destinata la “Rostera”, con il suo fuoco, che ha visto anche quest’anno tanta gente nel confinante paese di Riofreddo. C’è ancora una regola antica (e sociale!) da quelle parti, rigorosamente osservata da secoli; si dice che “se per <<i morti>> il proprietario non ha provveduto alla raccolta delle sue castagne, ma anche dell’uva o quant’altro abbia coltivato significa non gli occorre e quindi è giusto che ne godano gli altri. Una festa corale e gustosa dove dalle 13 vengono offerte castagne bollite (“pappuni”) e arrosto, ma anche tonnarelli ai porcini locali, salsicce, bruschette e vino rosso. Come il foulard di Garibaldi, protagonista accanto ad altri cimeli, del piccolo museo di Rifreddo, allestito nella ex villa di Ricciotti Garibaldi, figlio di Giuseppe, che veniva qui a trascorrere le sue vacanze”.




Adria: sino al 28 febbraio cibi e bevande del "Veneto antico"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Originale iniziativa all’insegna dei “Saperi e dei Sapori”. Dal 26 settembre scorso e sino al 28 febbraio del 2005, ad Adria (Rovigo) si tiene una rassegna su: “I vari aspetti dell’alimentazione in Veneto nell’età del ferro e in quella romana”. Come scrive in merito Renzo De Simone:

“Saranno messi in mostra reperti provenienti da scavi archeologici effettuati in varie aree della regione: attrezzature da cucina, stoviglie per banchetti commemorativi e per cerimonie funebri. l’allestimento comprende anche una sezione che è stata denominata “Cibo degli dei”, riguardante le offerte propiziatorie alle divinità con riti che prevedevano delle oblazioni di cibi e bevande in appositi santuari. Non mancherà uno spazio dedicato ai condimenti, tra cui la salsa di pesce per i cibi salati, il miele come condimento dolce e l’olio d’oliva. Il percorso lungo le vie del gusto “antico” proseguirà illustrando gli aspetti commerciali del vino, come le principali zone di produzione, le rotte commerciali, i produttori e i risvolti divini e mitologici legati a Dioniso. la mostra si preannuncia come un’anteprima della III rassegna espositiva nazionale “Cibi e sapori nell’ Italia antica”, promossa dalla Direzione Generale per i Beni Archeologici del ministero per i Beni e le Attività Culturali. Sono previsti anche specifici laboratori per le scuole, nell’ambito di un progetto di didattica museale finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo”.

La rassegna si tiene nei padiglioni del Museo Archeologico Nazionale di Adria, che viene riaperta in questa occasione dopo circa un anno di lavori di ristrutturazione e di ampliamento. (Museo Archeologico Nazionale – Adria – Via G. Badini, 58 – Tel. 0426-21612 – ingresso L. 4.000 – (Da millenni centro di culture diverse e di attivi scambi alle foci del Po, Adria documenta in questo Museo il susseguirsi degli antichi veneti, dei greci, degli etruschi e dei romani. Tra i reperti, notevoli la biga in ferro da tomba gallica del IV sec a.C., le ceramiche greche, i vetri egizi e fenici, gli oggetti di Adria romana. Vasi, ceramiche, bronzetti, monete, oreficerie).




C'è tutta una storia nel "forno a legna"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Il nostro incessante girovagare fra i Saperi e i Sapori d’Italia, si arricchisce in questa occasione di una nota assai valida e approfondita sul “forno a legna”, autentica fucina di tante tradizioni locali. Lo scritto è di Silvestro Faiato ed è tratta da “Benevento”, il giornale dell’amica Biele. Leggiamolo insieme:

“Nei nostri percorsi tra le realtà contadine del Sannio abbiamo notato come i/ forno a legna fosse legato a tradizioni nonché ad elementi logistici cioè una sorta di mix tra funzionalità, usi e consuetudini. Originaria mente il forno a legna era all’interno della casa, a fianco del camino domestico. Ma, col tempo si preferì fabbricarlo all’esterno (per scongiurare i rischi di incendi), collocato come ancora oggi in molte nostre realtà un’apposita piccola costruzione con portichetto antistante dove c’era il deposito degli stecchi e della legna, anzi qualche volta abbiamo notato anche la lavanderia a fianco, la porcilaia sotto e il pollaio sopra ( specialmente nella zona del Fortore).

Dalla bocca del forno iniziava la volta o camera di cottura. Era questo uno spazio sufficientemente ampio per potervi addossare alle pareti gli stecchi e i pezzi di legna, fare fuoco, ricavarne le braci, scaldare il forno e una volta ben caldo, contenere il pane da cuocere. Il piano del forno (detta da molti contadini platea) era una costruzione ellittica, lastricata di pietre arenarie o di sasso (Antonio Martone di Bonea ci diceva che sono sconsigliabili i mattoni perché asciugano troppo il pane e facilmente lo bruciano). La volta, quella si era di mattoni saldati e stuccati con il gesso non troppo alta per mantenere più a lungo il calore. La bocca (abbiamo notato che il più delle volte è proporzionata alla volta) tanto grande da essere comoda per infornare, si chiudeva con una portella di ferro. Il forno, acceso con l’attizzatoio (il più delle volte non è altro che un solfano o stecco di canna, il nostro Antonio a volte usa della canapa imbevuta nello zolfo) bruciava prima gli stecchi e poi si portava alla temperatura voluta, consumando legna scelta e ben stagionata.

L’operazione di riscaldamento richiedeva un certo tempo: circa due ore. Quando era pronto, caldo al punto giusto (Antonio ci diceva che conviene arrivare ad oltre 2500, perché nel togliere la brace, nel pulire la platea e nell’immettere il pane parte del calore va perso) si toglieva un terzo circa delle braci con il tirabrace, il resto si accantonava sul fondo del forno, per mantenere il calore. Prima di infornare era necessario pulire il piano passandovi sopra lo spazzaforno ( molti lo facevano con uno spazzolone involto di stracci appena inumiditi).

In alcune nostre realtà contadine ancora oggi si fa il pane in questo modo per una intera settimana e alcune volte anche per parenti e amici. Abbiamo provato quel pane e possiamo sicuramente assicurarvi che ha un sapore diverso del tutto ancestrale.”




Entriamo nel mondo degli "antichi frutti"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Perché di un “mondo” si tratta. E cioè di un ambiente assai più vasto, dal punto di vista quantitativo, di quanto comunemente si crede; ed assai più ricco di contenuti, iniziative e prospettive – anche “solide” in termini economici – di quello che lasciano supporre le poche notizie correnti.
Ed è un “mondo” in netta crescita; in decisa espansione.
Abbiamo intenzione di scriverne spesso, anche in relazione a precise iniziative in atto; e di approfondirne le motivazioni che appaiono connotate da un bene impostato recupero di antiche tradizioni, anche culturali.

Ed ecco la nostra prima “carrellata”, tratte da notizie stampa e da una breve ricerca su Internet:

FRUTTI ANTICHI A PARMA – Si segnala che all’interno di un progetto triennale finanziato dai Parchi della nostra provincia (Taro Carrega e Stirone) del quale sono protagonisti il prof. Melegari e la dott.ssa Unghini dell’Istituto di Coltivazioni Arboree dell’Università Cattolica di Piacenza, è in corso di svolgimento un ulteriore censimento delle coltivazioni di Frutta Antica presenti nelle provincie di Parma (fascia collinare tra Collecchio e Salsomaggiore) e Piacenza (fascia collinare tra Vernasca e Morfasso-Castell’Arquato). Il lavoro interessa le seguenti specie: melo, pero, cotogno, ciliegio (dolce, ciliegione, marasca e visciola), vite, ulivo, nespolo, azzeruolo, corniolo, nocciolo, susino, fico, mandorlo e sorbo. Già parecchio materiale è stato censito e descritto anche in funzione di un possibile utilizzo commerciale. Il Vivaio Forestale di Pontescodogna (ex CFS) gestito dal Parco dei Boschi di Carrega cura la parte di propagazione del materiale censito del quale se ne garantisce la provenienza. Pertanto chiunque fosse interessato, oltre che direttamente con il prof. Melegari, può contattare la sede del Vivaio di Pontescodogna (tel. 0521-805987) per l’acquisizione del materiale che via via si rende disponibile per la vendita al pubblico. Si precisa tuttavia che l’attività di propagazione è ancora in fase iniziale (si è appena conclusa la prima annata 2001-2002) ma che è in programma una nuova campagna di innesti.

Azienda Agricola Benecchi è un piccolo vivaio che opera da qualche anno a Medesano con qualche varietà di vecchi frutti della nostra provincia: Per Nobel, Per Angurien, Pom Roson, Pom Cavuch, Biricoccolo, Per spadon, Per Decorè e altre. Sono piante (generalmente in vaso) di tre quattro anni in vaso che sono forse più indicate al frutteto casalingo che a grandi impianti. Indirizzo: via Carnevala 14 Medesano, sulla statale tra Medesano e Felegara. Telefono 0525-421190.

Il Vivaio con 100 varietà di frutti e frutti antichi, uve da tavola, frutti piccoli. si trova in via delle Vigne a Ozzano Taro (Collecchio) Tel e fax 0521-809991

Azienda Agraria Sperimentale Stuard – Strada Madonna dell’Aiuto, 7 – 43016 San Pancrazio Parma. Tel. 0521-671569 Fax 0521-672657

L’INCONTRO DI PADERNO – Il 6/7 ottobre grande incontro al Castello di Paterno (Piacenza) per una “Rassegna di piante, fiori e frutti dimenticati”, per una Mostra mercato intitolata ai frutti antichi. All’incontro partecipano vivaisti, esperti e specialisti di area, collezionisti e i tanti appassionati di giardinaggio e agricoltura.
Gli Istituti Agrari Raineri e Marcora saranno a disposizione per consigli ed informazioni sulla cura del verde, mentre vivaisti specializzati aiuteranno nei progetti di allestimento floreale.
Punti informazione e prenotazioni: Ufficio informazioni di Grazzano Visconti – Cortevecchia, 7 Grazzano Visconti 29020 Vigolzone – Tel: 0523-870997 – Fax: 0523-870997. L’ingresso è a pagamento e la tariffa intera è di 5 euro. Il sabato dalle 9.00 alle 14.00.

L’APPUNTAMENTO DI MODENA – Sabato 8 novembre . h. 9,00/22,00 “appuntamento con i frutti antichi”. Sino ai primi decenni del Novecento, molte piante da frutto coltivate erano di origine locale, legate al territorio e alle sue specificità. In seguito, l’avanzata di moderne tecniche colturali e di miglioramento genetico, hanno comportato la progressiva sostituzioni di queste vecchie piante con altre, moderne, standardizzate e spesso provenienti dall’estero. L’antico patrimonio sta dunque scomparendo. Con esso scompare anche un mondo di sapori, di tradizioni, di usi, di espressioni, di ricette e di paesaggi tipicamente locali, che contribuiscono all’identità dei luoghi e che sono sempre più ragione di interesse e di attrazione. L’istituto agrario Bocchialini di Parma lavora da anni a censire le antiche varietà di frutta del territorio emiliano e riproduce, in un vivaio sperimentale, le specie più meritevoli secondo tecniche moderne. La manifestazione si terrà nella piazzetta del Centro commerciale La Rotonda – strada Morane, 500 – 41100 Modena. Info: bibliote@comune.modena.it – www.comune.modena.it/biblioteche.

IL PARCO DELL’ADAMELLO – A cura del Parco sono stati censiti oltre 200 tipi di piante “potenzialmente interessanti”. Inoltre, nel Comune di Sonico sta per essere ultimata la struttura destinata ad accogliere il campo collezione delle varietà locali ed il previsto vivaio.
In particolare: lavori di bonifica come aratura e spietramento, concimazione organica e minerale, secondo i risultati di analisi chimico-fisiche del terreno e la costruzione di un edificio come deposito attrezzi. Ad integrazione del progetto, è stata commissionata un indagine storico-bibliografica, allo storico camuno Oliviero Franzoni: “Le fragranze del brolo sulle tracce di antiche piante da frutto in Valle Camonica”, disponibile per ora, per chi volesse visionarla, presso gli uffici del Parco dell’Adamello.

LA FESTA DEI FRUTTI DIMENTICATI – E’ a Casola Valsenio il 16 e 17 ottobre. E chi volesse leggere non solo sull’incontro ma su tutto questo “versante” pagine che non esitiamo a definire affascinanti anche dal punto di vista culturale deve far ricorso a quanto pubblica in merito la rivista “Meridiani – Viaggi del Gusto” che nel suo numero 12 (sett. 04) dedica un servizio bellissimo a: “Quei frutti ritrovati” della Romagna. “Quanti possono dire infatti – scrive nel suo editoriale Clelia D’Onofrio – di aver mai provato il sapore il sapore di una pera volpina, di un’azzermole, di una giuggiola? Quanti il sapore galeotto di una mela crociata un tempo offerta dai ragazzi alle fanciulle che volevano far innamorare? Noi, il sapore di tutto ciò lo abbiamo “colto” sugli alberi di uno straordinario frutteto ritrovato in una campagna romagnola che pareva perduta per sempre. Una bellissima storia di persone laboriose e di piatti «d’autore» da raccontare come una favola….”.

Poi scrive Raffaella Rietman, in sintesi introduttiva alle tante pagine del servizio: “Le giuggiole dolcissime. Le sorbe che sanno di vino cotto. Le azzermole dal gusto agrodolce. E poi le nespole, le corniole, le cotogne, i corbezzoli, i prugnoli o le pere volpine. Frutti che un tempo erano sinonimo di povertà. Frutti che, per questo, sono stati a lungo dimenticati. Ma quel loro sapore antico legato all’infanzia e ai ricordi è stato riscoperto di recente in un angolo di questa terra che guarda da una parte a Faenza dall’altra all’Appennino Toscano. E, per amore o nostalgia, alcuni che hanno creato menù innovativi dove queste delizie della natura sono protagoniste in tavola”.

Pino Rauti




Sannio: Società storica e recupero a Benevento


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Abbiamo da Benevento:

Un gruppo di studiosi di ricerche patrie ha deciso di ricostituire la Società storica del Sannio, antico e glorioso sodalizio diretto da Antonio Jamalio che ebbe vita dal 1922 al 1932 nella nostra città dando luogo alla rivista Annali della Società storica del Sannio (di recente ristampata integralmente dalle Edizioni Torre della Biffa).

Con tale iniziativa si vuole apportare un ulteriore contributo di studi in una città che ha sempre coltivato la propria memoria storica (come dimostrano tante pubblicazioni oramai estinte) e nello stesso tempo si desidera onorare figure come quelle di Alfredo Zazo, Almerico Meomartini, Mario Rotili, Gaetana Intorcia, Gianni Virgineo, Giovanni Giordano, Salvatore Basile e Mario Boscia.

L’Associazione si propone una serie di iniziative, tra cui approfondire aspetti storico-culturali del territorio inserendoli nella più ampia prospettiva nazionale ed internazionale, organizzare incontri scientifici e conferenze, promuovere pubblicazioni come periodici, libri e supporti informatici (sia in proprio sia avvalendosi di altre strutture editoriali, grazie ad un accordo con il milanese “Club di Autori Indipendenti”).

Un progetto editoriale iniziale consiste nella riproposta delle prime venti annate (1850-1870) della prestigiosa rivista La Civiltà Cattolica (della cui redazione fecero parte anche gesuiti “beneventani”), strumento indispensabile per affrontare lo studio del periodo risorgimentale.

L’assemblea dei soci, in base allo statuto associativo (redatto presso il Notaio Giovanni Jannelli), ha eletto Presidente il dottor Gianandrea de Antonellis (Università di Cassino), coadiuvato in qualità di vicepresidente dal professor Francesco Collenea Isernia.

“Benevento: il futuro nella Storia”.

Vincitore del “Concorso Nazionale di Progettazione per il recupero e la valorizzazione dell’ area nodale Arco del Sacramento”, il progetto definitivo è stato redatto per la riqualificazione urbanistica di un lotto di mq 552.

Il progetto prevede: la realizzazione di muri di perimetrazione e la risarcitura delle mura longobarde; la riapertura del fornice del secondo arco romano; la creazione di un’arena e di un centro di servizi di quartiere; la ricostituzione del vecchio percorso di vicolo San Gaetano.

Su piazza Manfredi di Svevia si prevede la demolizione dello strato di muro più recente ed il restauro e la risarcitura del muro di matrice altomedievale.

Si ripristina così l’antico passaggio che, partendo dal secondo arco romano, si sviluppa sulla sommità delle mura per accedere all’ Arco del Sacramento. Dallo svuotamento del fornice del secondo arco romano, si realizza l’ingresso principale all’arena ed al centro servizi.

Su via Carlo Torre si prevede un accesso secondario nelle adiacenze dei ruderi e la costruzione ex novo di un muro rettilineo di altezza variabile, che assume il carattere astratto di uno schermo appena segnato dal taglio netto di un’apertura che permette di trapassare visivamente l’intera area fino al vicolo San Gaetano, dove è ubicata un’uscita.

Tra la parete che delimita vicolo San Gaetano e la struttura dei servizi, è collocata un’arena che ha come suggestivo fondale i ruderi adiacenti al secondo arco romano. L’arena ospita 230 posti a sedere. Il centro servizi è articolato su due livelli.

Il progetto, per il quale sono stati stanziati 2.013.539 euro, è stato redatto dagli architetti: Damiano Dolce – Roberta Di Ciò – Nicola Moffa.

Sabato 26 e domenica 27 giugno nel Centro Storico di Apice si è tenuta la XIII edizione della manifestazione “Due Notti al Castello”, organizzata dall’Associazione Culturale “Il Castello”, diretta dalla dott.ssa Ida Albanese, in collaborazione con Amministrazione Comunale di Apice che nei giorni scorsi ha approvato un piano particolareggiato di recupero del Centro Storico ed ha in corso lavori per il recupero di alcuni edifici.




Saluto ad Elio Galasso una vita al servizio del Museo del Sannio


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Riprendiamo qui integralmente quanto ha pubblicato sul numero 9 del 7 maggio scorso, Francesco di “Benevento”, Francesco Morante:

“Lo scorso 1 maggio il prof. Elio Galasso, direttore del Mu­seo del Sannio, è andato in pensione, lasciando la presti­giosa carica che ricopriva da oltre trent’anni. Elio Galasso entrò al Museo nel 1960 in qualità di vicedirettore. Era allora direttore del Museo il compianto Mario Rotili, che ricopri­va quel ruolo da un paio di an­ni. Quando il prof. Rotili passò all’insegnamento universitario, nel 1970, Galasso ne assunse le funzioni, fino al 1973, quan­do, a seguito di concorso, di­venne il direttore di ruolo del museo.

In questi decenni la presen­za di Galasso al Museo del Sannio è stata un punto di rife­rimento per molti studiosi e ap­passionati di storia locale, ma soprattutto è stata una presen­za di stile. Le sue doti di affabi­lità e di signorilità erano l’imma­gine vincente di una istituzione che tutto sembrava fuorché “provinciale” .

Ed ovviamente vi era la sua profonda competenza nel settore museologico, che ha portato il Museo del Sannio a dive­nire oggi la più importante ri­sorsa culturale della città. “In questi trent’anni il patrimonio del Museo è più che triplicato” ci ha detto Galasso, “grazie a molte acquisizioni ma anche a tante donazioni, di enti e di pri­vati, che nel corso degli anni ho sollecitato”. Un museo non specialistico, in senso discipli­nare, ma che spazia su un arco temporale quanto mai ampio, dalla preistoria fino ai giorni no­stri. “La funzione del Museo del Sannio, a mio parere, deve es­sere quella di illustrare il rap­porto della città, del suo territo­rio, della sua storia, con la di­mensione storica meridionale ed europea in cui la città si è mossa”. In questa ottica si è mossa anche la sua visione di allestimento museale, che, do­po le ristrutturazioni e gli am­pliamenti (peraltro molto di­scussi, ad opera del prof. De Felice), si è concretizzata nell’attuale felice disposizione delle collezioni. Un museo ono­rato da visite prestigiose, di uo­mini di cultura ma anche di esponenti istituzionali quali i presidenti della Repubblica, “ed anche di qualche sovrano inglese” aggiunge Galasso “giunto in incognito, ma di cui resta testimonianza la firma ap­posta nel registro dei visitatori”.

Ma da ricordare soprattutto che nella gestione di Galasso il Museo non è mai stato un semplice contenitore di opere e di testimonianze storiche. È stato bensì un centro vivo e palpitante di iniziative e ricer­che, a contatto con il settore più avanzato del mondo acca­demico sia napoletano che sa­lernitano. Il Museo in questi an­ni è stato al centro di sperimen­tazioni sia nel campo teatrale (da ricordare che Mario Marto­ne ha mosso i primi passi pro­prio qui nel Museo del Sannio) sia in quello dell’arte contem­poranea d’avanguardia. Un in­sieme di incontri, mostre, inizia­tive e altro ancora, che sicura­mente meriterebbero di essere storicizzate, per mostrare come il Museo del Sannio è stato il volano di una forte sprovincia­lizzazione della nostra cultura cittadina.

Ma quale sarà il futuro di questa istituzione? “Il mio pare­re” ci ha detto Galasso “è che il nuovo direttore non deve esse­re uno specialista, altrimenti si rischia di snaturare il carattere del Museo. Faccio un esempio. Se si chiama un archeologo è probabile che il nuovo direttore potenzi la parte antiquaria, ma non sia al contempo interessa­to a valorizzare la collezione d’arte moderna, o altri settori del museo. Ci vorrebbe, inve­ce, un museologo nel senso più appropriato del termine. In pratica una persona che vanti, non meriti politici, ma compe­tenze specifiche nella gestione dei beni culturali, e che soprat­tutto, aggiungiamo noi, abbia lo stesso stile di Galasso.

Ma quale sarà il futuro dell’ex direttore? “La Provincia ha probabilmente intenzione di utilizzarmi ancora come consu­lente, anche se le modalità non sono ancora definite”. Ma noi ci auguriamo anche che, messa da parte la routine quotidiana di responsabile di un ufficio, Elio Galasso possa trovare il tempo e l’entusiasmo per la ri­cerca, e quindi regalarci nuove ed affascinanti pagine di storia locale. Perché una vita dedica­ta alla cultura non conosce certo pensionamenti”.

Al saluto di Francesco Morante ad Elio Galasso, aggiungiamo quello del nostro Sito. Con una nota di documentazione sul Museo del Sannio.

Fondato nel 1873 dal Consiglio Provinciale di Benevento, il Museo del Sannio raccoglie un ricco patrimonio storico ed archeologico prevalentemente di area beneventana .

Dopo una prima sistemazione nel 1892 nella trecentesca Rocca dei Rettori Pontifici – sede della Sezione Storica, dove oggi vengono presentate periodicamente mostre di cimeli e documentazioni della storia locale di ogni epoca, il Museo del Sannio ha acquisito negli anni una seconda sede monumentale: l’Abbazia benedettina di Santa Sofia, con la Chiesa di età longobarda eretta da Arechi principe di Benevento, ora sala numero uno del Museo e l’annesso Chiostro Romanico del XII secolo.

Riconosciuto con Decreto Ministeriale 15 settembre 1965 “Museo Grande”, il Museo del Sannio è organizzato in quattro Dipartimenti e due centri di ricerche. L’ordinamento museografico in corso di revisione privilegia un criterio tematico.

Testimonianze della cultura preromana nel Sannio antico si confrontano con quelle di area greca e magno – greca del Ve IV secolo a.c., alternate a sculture greche o copie romane di statuaria greca. Tra questi la Danzatrice da originale greco del V secolo a.c.; il Diskoforos, copia romana in basalto verde del capolavoro di Policleto; l’Athena, copia risalente ad un originale prassitelico.

Reperti di una vasta necropoli sannitica provengono da ” Caudium ed includono tra l’altro ceramiche greche e figure che risalgono fino all’VIII secolo a.c., opera di maestri attici e di Magna Grecia.

Il complesso di arredi dei santuari egiziani di Benevento costituisce a sua volta un “unicum”, è il nucleo di sculture egizie più cospicuo per quantità e qualità rinvenuto fuori dell’Egitto.

Si tratta di sacerdoti, sfingi, falchi, divinità obelischi, leoni, frammenti architettonici e personaggi imperiali, fra cui spicca la statua di Domiziano in veste egizia. Interessante una recentissima ipotesi di Elio Galasso secondo la quale, con l’arrivo del Cristianesimo, la dea Iside demonizzata e rimpiazzata dalla figura della Vergine – che presentava le stesse caratteristiche iconografiche di “mater lactans” divenne “strega”.

Di qui l’origine della leggenda delle streghe di Benevento, che dal Medioevo ad oggi continua ad ispirare arti figurative, letteratura e musica. Importanti reperti della necropoli longobarda di Benevento del VI – VII secolo, armi, utensili, vasellame, monili ed elementi di abbigliamento confluirono nel 1927 nel Museo, che conserva anche monete d’oro della zecca longobarda con le immagini dei duchi e dei principi. Nel Dipartimento di Arte sono presenti opere di Donato Piperno, pittore raffaellesco attivo in Benevento nel 500 e di artisti di area napoletana.

Tra i tanti Achille Vianelli ( 1803 – 1894 ) vicino alla scuola di Posillipo che ha lasciato delicate immagini della Benevento ottocentesca, in parte distrutta da bombardamenti del 1943. Da segnalare, di Giuseppe Bezzuoli (1784 – 1855), “il ritrovamento del corpo di Manfredi tre giorni dopo la battaglia di Benevento del 1266″, spettacolare scena che domina l’Auditorium dell’Istituto, sede di continue attività culturali, e le opere di notevoli artisti italiani del 900, tra cui un bassorilievo di Pericle Fazzini raffigurante la danza delle streghe sotto il noce di Benevento.

Da qui “maranero” tante cose; fra le quali “La Strega”, il liquore di Benevento famoso in tutto il mondo.

E mi viene in mente, mentre concludo, la tesi di fondo di quel libro bellissimo che Salvatore Sattis ha scritto sul nostro patrimonio culturale (“Italia S.p.a.” –Gli Struzzi – Einaudi). Questa della Strega di Benevento, è una “perla” per lui!

 

Umberto Giusti




"Balsamico è" ed è da secoli


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Tra le manifestazioni volte a “sottolineare” e magari – quando sotto il fumo c’è l’arrosto – a far conoscere come si deve un prodotto che lo merita, va certamente annoverata quella in corso (e che dura sino al 6 giugno) sull’Aceto Balsamico.

E’ la manifestazione “Balsamico E’” che si svolge a Modena (e provincia) per far conoscere al meglio un prodotto tra i più “tipici” d’Italia e davvero unico al mondo.

Si tratta in particolare dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e dell’Aceto Balsamico di Modena.

Insieme a questi saranno “in mostra” anche gli altri “sapori” che rendono il territorio modenese una mensa unica, inimitabile e nota in tut­to il mondo: Parmigiano Reggiano, zampone, cotechino, prosciutto, tor­tellini o cappelletti, gnocco fritto, ti­gelle e erbazzone innaffiati dall’im­mancabile Lambrusco. Durante la manifestazione saranno organizzate visite guidate in acetaia, menù a te­ma nei ristoranti, convegni, degu­stazioni, corsi di cucina, feste, sa­gre e mostre. L’iniziativa è sostenu­ta tra gli altri, dal Consorzio Aceto Balsamico di Modena, nato nel 1993 dalla volontà dei principali produtto­ri per una regolamentazione della produzione.

“In questo territorio da secoli il Bal­samico -commenta Cesare Mazzet­ti, presidente di Acetum e vicepresi­dente del Consorzio Aceto Balsami­co di Modena- si è prodotto e si con­tinua a produrre nelle piccole acetaie di famiglia come nelle grandi che esportano in tutto il mondo”. Un la­voro che ha reso l’aceto balsamico uno dei simboli del Made in Italy, in particolare del Made in Emilia, adot­tato per arricchire ed esaltare i sa­pori di molte portate, dall’antipasto al dolce. L’aceto balsamico tradizionale è composto esclusivamente da mosto cotto, invecchiato per un pe­riodo che non può essere inferiore ai dodici anni in batterie di botti celle de­crescenti per volume. Suo erede di­retto è l’Aceto Balsamico di Modena che, come spiega Mazzetti, si rica­va unendo “sàba, ovvero il mosto cot­to, e aceto di vino, li si fermenta e li si lascia invecchiare in tini e botti di legn., A seconda del periodo di in­vecchiamento, che può andare dai tre mesi ai dieci anni, e a seconda del rapporto tra mosto e aceto di vino ne scaturisce un prodotto estrema­mente piacevole, dal più economico e decisamente più adatto ai normali usi di cucina fino ad uno più pregia­to, perfetto anche con i dolci oda bere come liquore da meditazione.,

Diversi, quindi, i tipi di aceto balsa­mico esistenti: l’Associazione degli Assaggiatori Italiani di Balsamico ha studiato un sistema per distinguer­ne 4 tipi. Sull’etichetta della botti­glia vengono apposte da una a quattro foglioline di vite che indicano una qualità via via crescen­te e quindi una maggio­re piacevolezza e com­plessità nell’utilizzo.




All’Antica Credenza S. Ambrogio canale navigabile da Milano al Po


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Gran successo di pubblico, a Milano, all’Antica Credenza di S. Ambrogio – nella sede di via Rivoli, 4 – alla conferenza di Enrico Lombardi sul tema: “il canale navigabile Milano-Cremona-Po”. Lombardi ha ripercorso, con dovizia di riferimenti tecnici e anche culturali, la storia del Canale, i progetti, lo stato attuale dei lavori, le ipotesi di uso di una arteria fluviale che potrebbe essere di enorme utilità per l’alleggerimento del traffico nella pianura padana, che è una delle aree più congestionate d’Europa, fonte di pendolarismi massacranti per milioni di persone e “perdite” economiche valutabili, ogni anno,secondo gli esperti, in almeno 10.000 miliardi delle vecchie lire.

Ma, com’è nostro costume “documentario”, l’occasione ci sembra buona per informare i nostri lettori su che cos’è l’Antica Credenza di Sant’Ambrogio.

E’ – leggiamo sul sito internet – una “associazione culturale che ha per scopo primario diffondere, afferma e difendere i valori e le tradizioni milanesi, da troppo tempo sopiti e sottoposti all’intransigente supremazia di altre realtà culturali, peraltro rispettabilissime, ma che tendono ad eliminare quella cresciuta e affermata nella nostra terra, attraverso vicissitudini di secoli che hanno alimentato e plasmato storia e cultura del territorio in cui viviamo. L’obiettivo è di riattivare nei cittadini quella “milanesità” che appare offuscata, e di cui noi siamo portatori, sia attraverso la memoria dei padri sia i fatti salienti della passata vita milanese, sia ergendosi, come fece l’antica Credenza duecentesca, a controllore del corretto agire delle Istituzioni, per la difesa del buon nome di Milano e delle sue millenarie tradizioni”.

Ma c’è anche una “storia della credenza”, che risale al sistema amministrativo dei Comuni lombardi, specialmente di quelli lombardi!

In essi, la Credenza era il consiglio di coloro che assistevano i Consoli nel governo e che era costituito dai più sapienti cittadini, cioè i boni homines, che, secondo testi dell’età barbarica, erano coloro cui fides admittitur o cui creditur, ossia i credenziarii o, anche silentiarii in quanto dovevano giurare nelle mani dei Consoli credentia, cioè segretezza sugli affari di stato. Esso divenne, pertanto, il germe del Senato o Consiglio degli Anziani o, anche, Consiglio minore, al quale venivano sottoposte segretamente, e al di fuori di ogni pubblicità, le questioni più gravi che il Governo doveva risolvere nell’interesse generale.

Su questa falsariga nacquero, dalla fine del XII secolo le Credenze, speciali organizzazioni formate dal popolo e dalle arti minori che esprimevano il progressivo evolversi, all’interno dell’organizzazione comunale, verso ordini più democratici, in contrapposizione alla forma fino ad allora in essere e che privilegiava la presenza degli aristocratici e delle arti maggiori. Essi venivano radunati prima dai consoli e poi, dopo la pace di Costanza nel 1183 contratta tra Federico I Barbarossa ed i Comuni della Lega Lombarda, dai podestà, plenipotenziari originai da luoghi diversi da quello dove erano chiamati ad amministrare e sottoporsi al gradimento Imperiale. L’adunanza avveniva in camera di consiglio e durante il suo svolgimento si sceglievano i Consoli, si nominavano Magistrati comunali, si esaminavano e discutevano le deliberazioni relative ai negozi più delicati del Comune. Al fuori della Lombardia e sulla falsariga della Credenza Milanese, vennero fondate quella di Pavia, detta di San Siro, mentre in Emilia, a Modena e Bologna, essa assunse la denominazione di massa populi e in Toscana, cor in altre regioni, venne a fondare il commune populi.

In Lombardia il consilium credentiae si trova costituito fin dalla metà del 1100 con la partecipazione di un numero variabile di cittadini, da un minimo di cento o duecento fino ad un massimo di ottocento come avvenne appunto, a Milano. Ma ad un maggior numero di rappresentanti corrispondeva una minore credibilità dell’istituzione, in quanto i Consoli, e poi i Podestà, si rivolgevano prima alle Credenze con minor numero di partecipanti, che erano detta maggiori, e poi a quelle con maggiore numero, che erano perciò dette minori, ed alle quali non sempre partecipavano gli esclusi dalle maggiori.

Dalla fine del XII secolo la Credenza venne chiamata consilium communis, costituendo così il consiglio minore della città, dal quale erano però escluse le classi minori quali gli artigiani, i mercanti ed i cittadini meno rappresentativi che a questo punto iniziarono a reclamare il proprio diritto a partecipare nelle scelte di governo.

È nel 1198 che a Milano i cittadini- minori, appartenenti cioè a quelle attività economiche considerate di secondaria importanza, ossia i mercanti e gli artigiani, che venivano sempre più spesso a trovarsi in contrasto con la vecchia aristocrazia comunale, decisero di raccogliersi in un’adunanza che prese il nome di Credenza diSant’ Ambrogio.

Questi contrasti erano generati dalla frenetica espansione delle attività economiche che a Milano, dopo la fine delle guerre con l’Impero, avevano preso sviluppo favorite dall’apertura di nuove vie di comunicazione, in particolare della prima via d’acqua, il Naviglio Grande, iniziato nel 1179 e, circa quarant’anni dopo, nel 1231, di Passo del San Gottardo, che consentivano ai commercianti milanesi di affacciarsi sui mercati dell’Europa Centrale Settentrionale.

Fu quindi per poter contrastare gli interessi dell’aristocrazia allora insediata e, al contrario, per dare impulso alle proprie attività che i Cives, i Cittadini, si riunirono in questa nuova Associazione, basata sulle (corporazioni artigiane alla cui testa posero inizialmente Drudo Marcellino, personaggio di spicco nella Milano duecentesca, e che riuscì nel giro di pochi anni ad ottenere che alle cariche comunali venissero chiamati in ugual misura rappresentanti della Credenza e delle Associazioni aristocratiche, ossia la Credenza dei Consoli, formata dai Capitani, e della Motta che raccoglieva i Valvassori: ognuna di queste svolgeva proprie adunanze, magistrati, giudici e dettava leggi.

La prima sede della Credenza era ubicata, secondo il Giulini, in una casa munita di torre sita all’angolo tra le via del Rebecchino e dei Mercanti d’oro, nella parrocchia di San Galdino, di proprietà della famiglia Bottazzi.

La torre, distrutta, venne ricostruita sotto la Signoria di Azzone Visconti, mantenendo il nome di Torre della Credenza.II riconoscimento ufficiale della Credenza di Sant’Ambrogio avvenne nel 1201 dopo che tra le diverse fazioni avvennero scontri violenti e dopo che i nobili costituirono, inutilmente, una società avente lo scopo di opporsi alla Credenza e per questo detta “dei Gagliardi”.

In questo modo da un unico governo ne erano sorti in pratica tre diversi, ognuno con un suo Consiglio, quello della Credenza di Sant’Ambrogio formato da 400 membri, quello dei Consoli da 300 e la Motta da 100, ma, quel che contava, in contrasto l’uno con gli altri. Dice il Cantù “I Plebei si distinguevano col colore bianco, i nobili col rosso; e quando si unirono, i due colori divennero la coccarda della Città”.

Le vicende della Credenza di Sant’Ambrogio, seguirono da vicino per tutto il XIII Secolo quelle del Comune che andava inevitabilmente evolvendosi verso la struttura signorile con l’affacciarsi sulla scena politica delle due famiglie patrizie dei Torriani e dei Visconti dalle cui lotte di potere la seconda riuscì vincitrice, assumendo il governo signorile con Matteo nel 1317 allorché l’Imperatore Enrico VII lo insignì del titolo di Dominus Generalis della Città. Al contrario alla testa della Credenza di Sant’Ambrogio vennero chiamati alcuni dei massimi rappresentati della famiglia Torriani, Pagano nel 1240, dopo che Milano aveva sconfitto con il suo aiuto Federico II di Svevia e Martino, suo nipote, nel 1247.

Autori diversi ritengono che la Credenza abbia cessato la propria presenza nell’ultimo ventennio del XIII Secolo, del resto ormai aveva perso il suo scopo e poteva non essere più strettamente necessaria visto l’orientamento giuridico – amministrativo che il Governo cittadino andava assumendo, secondo il Giulini nel 1279, allorché a scioglierla sarebbe stato Ottone Visconti, e per il Ghiron tra il 1292 ed il 1299.

In quest’ultimo anno sarebbe sorta un’Associazione, detta Nuova Credenza di Sant’Ambrogio, ma di carattere militare che pare fosse forte di circa 1000 armati e dotata dal Consiglio Generale di stendardi e bandiere: essa avrebbe perso la sua importanza, col ritorno di Guido Torriani nel 1302 e pare scomparsa definitivamente nel 1308.

Nel 1997, milleseicento anni dopo la morte del Santo Patrono di Milano, un gruppo di Cittadini, appartenenti alle più disparate classi produttive della Città, come allora nel 1198, allorché si diede vita alla primitiva Credenza, intendono nel suo nome ridare slancio e voce a Milano, affermando, diffondendo e difendendo la sua sopita realtà.

Ecco l’organigramma, della attuale – e sempre più attiva – “Credenza”:

Presidente: Giuseppe Frattini; Vice Presidente: Enrico Lombardi.

Consiglieri: Giuseppe Bassini, Bruno Calvi, Sergio Codazzi, Pier Luigi Crola, Orazio Daverio, Ernesto Gastaldelli, Enrico Meregalli, Tullo Montanari, Valerio Soffientini.




Torino: il mese dei "prodotti tipici"


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Si sta svolgendo con crescente successo il “Mese dei prodotti tipici” della provincia di Torino. Se non conoscete il Saras del Fen, il Salampatata del Canadese o la Toma del Lait Brusc o volete assaggiare i veri Asparagi di Santona, Maggio è il mese dei prodotti tipici!

Per tutto il mese di maggio, 95 ristoranti d’eccellenza di Torino e provincia cucineranno per Voi le straordinarie specialità agro-alimentari del “Paniere dei prodotti della provincia di Torino”.

Ed entriamo nel dettaglio.

“IL PANIERE FLAMBE’” – sino al prossimo 6 luglio, “Arte in Tavola” – Associazione Italiana Maestri di ristorazione e Ospitalità, sezione Piemonte e la Provincia di Torino organizzano la prima edizione della manifestazione itinerante primaverile “IlPaniere Flambé”. L’iniziativa prevede che nel periodo da maggio a luglio alcuni Ristoranti aderenti all’Associazione prepareranno, con la professionalità che li contraddistingue, un menù (al costo di € 43,00 ) con i prodotti tipici del Paniere della provincia di Torino, proponendo ricette anche inedite, di cui alcune preparate alla lampada.

A coloro che interverranno ad almeno 8 serate verrà offerta una cena presso uno dei locali partecipanti. Avranno, inoltre, diritto ad indicare la ricetta che preferiscono per il “Galà finale”.

Una struttura da conoscere,in particolare: il <<Museo del Gusto>> (Via Principe Amedeo, 42/a – Frossasco Torino)

Il cibo è il protagonista di questo museo, che nasce tra le mura dell’Argal di Frossasco, già Centro di Valorizzazione del Prodotto Tipico delle Montagne Olimpiche di Torino 2006, e viene rappresentato nelle sue più attraenti e seducenti evocazioni.

La storia dell’alimentazione si miscela così, armoniosamente, con la tradizione e con il futuro: si passa dai banchetti pantagruelici, alle più raffinate espressioni della Nouvelle Cuisine sino a raggiungere il cibo sintetico degli astronauti … E poi le arti che con il loro contributo da sempre ci hanno fatto sognare: dai film come “Chocolat“ alle note del brindisi di “Traviata”.

I segreti dei cibi diventano elementi didattici per i bambini e momenti di curiosità per gli adulti.

Realizzato dall’Azienda Turistica delle montagne olimpiche – Montagnedoc con il contributo della Provincia di Torino, il Comune di Frossasco, la Comunità Montana Pinerolese Pedemontano e con l’apporto della Regione Piemonte e di sponsor privati, il Museo del Gusto è stato progettato per rappresentare nel concreto il gusto e il cibo attraverso percorsi che si snodano in numerose sezioni.

Visitando il museo… nell’introduzione al gusto, presentata con l’apporto scientifico del Prof. Giorgio Calabrese, si trovano le risposte a quesiti come: cosa mangiamo, cosa servono le proteine, i grassi, i carboidrati, ecc.

Sono illustrate le varie diete e i numeri del cibo (fabbisogno quotidiano, calorie, informazioni nutrizionali); in una sala è presentata l’alimentazione tradizionale delle genti alpine, in contrasto con quella delle attualità contemporanee, spesso proposta o imposta dai media, pur nella grande riscoperta dei cibi locali e dei prodotti tipici.

Lungo le strade del gusto si scoprono i segreti dei liquori alpini, del cioccolato, dei dolci, del caffè, dell’acqua, dello zucchero, del pane, del vino, ecc., mentre il “gusto fatto in casa” presenta tra gli altri: il ciclo del vino, del latte e quello del pane.

Sono altresì presentati, in un contesto artistico, il gusto nel cinema, nella pittura, nei fumetti, nella pubblicità e nella musica, fino alle recenti espressioni artistiche come il food design.

Un rilievo particolare è riservato alle iniziative di valorizzazione e di tutela del prodotto tipico e delle produzioni tradizionali (Provincia di Torino, Coldiretti, Consorzi di tutea, Tipico Pinerolese, Argal, Fungo d’oro, ecc.).

Prenotazioni visite:

Museo del gusto – sig.ra Franca Miglio – Telefono 0121352398 – 355158 – 3471538274 – info@montagnedoc.itwww.museodelgusto.it

Per informazioni: Provincia di Torino – Progetto sviluppo e valorizzazione produzioni tipiche, Via Bertola, 34 Torino – tel. 011 8615141 – ATL2 – Le montagne olimpiche 2006, Viale Giolitti, 7/9 – Pinerolo (TO) – tel. 0121 794003 – ATL3 – Canadese e Valli di Lanzo, Corso Vercelli, 1 – Ivrea (TO) – tel. 0125 618131.