Spese e niente poteri; e tanti soldi ai “narcos”


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Gran rilievo su tutti i giornali, anche quelli di Sinistra, sulla decisione del Sindaco Alemanno di ampliare i poteri e di aumentare le risorse del XIII Municipio (Ostia). Alcuni, sulla stampa di Sinistra, hanno ricordato che sarebbe stato Veltroni, per primo, a puntare a questo obbiettivo. Ma Matteo Vincenzoni – che ne scrive sul “Tempo” – ricorda a sua volta come andarono le cose (Veltroni non uscì dalle chiacchiere); ed emergono molte “cifre” su questo versante di spese.

Ci sono, dunque, nell’area di Roma, 19 Municipi, con altrettanti “Presidenti”, che guadagnano circa 3000 euro al mese; 36.000 euro l’anno. Moltiplicate 36.000 x 19 e avrete una prima, “bella cifra”. Poi ci sono 550 fra Assessori e consiglieri, che guadagnano, in media, 1000 euro a testa al mese. E ancora, leggiamo (dopo aver appreso che presidenti, Giunte, Assessori e consiglieri non hanno alcun potere concreto!), che “i compiti maggiori sono svolti dagli uffici circoscrizionali, non certo dalla rappresentanza politica. Circa 30 persone per ogni Municipio. Un esercito di 570 persone, alcune con rispettive segreterie, al soldo della cittadinanza. Un consigliere municipale guadagna quasi 1000 euro netti al mese, il presidente più del doppio. Eppure, a differenza del sindaco di Tagliacozzo, non hanno poteri decisionali. Vengono quindi pagati per produrre faldoni di cartelle e pareri per niente vincolanti: è il Campidoglio, alla fine, che decide.

E restiamo in zona, ampliandola di poco sino ad Anzio. Dove un recente sequestro contro narcotrafficanti, ha messo in luce una massiccia ed inquietante realtà; l’operazione di sequestro, nasce in seguito ad una complessa attività svolta dalla polizia di Stato. Il questore ha richiesto al Tribunale di Roma di applicare la misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno e confisca dei beni, secondo la normativa antimafia, a carico di tre persone a capo di un’organizzazione criminale dedita al traffico di stupefacenti a Roma e, soprattutto, a Ostia. Il Tribunale ha disposto il sequestro e la confisca dei beni nei confronti dei tre capi della banda e di altre persone coinvolte. L’intera attività investigativa e gli accertamenti patrimoniali sono stati coordinati dalla direzione distrettuale Antimafia di Roma, diretta da Giancarlo Capaldo, ed eseguiti dalla polizia Anticrimine diretta da Rosario Vitarelli. Il sequestro dei beni è in corso di esecuzione e riguarda alcuni esercizi commerciali, numerosi veicoli, quote di società di persone operanti nel settore di bar e ristorazione, a Ostia e Anzio. Insomma, una “marca di beni; e di soldi.

Umberto Giusti




Fondi: diventata “appalto” dei clan


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Ricordiamo personalmente una Fondi bellissima; città vivace nella quale si andava per il suo gigantesco e super-fornito mercato ortofrutticolo e per i suoi splendidi dintorni.

Intristisce e avvilisce – e dice molto sul degrado in corso nel nostro Paese – leggere quello che scrivono le cronache odierne.

Come quella – recente, sul “Messaggero” – di Alessandro Fulloni; che riferisce sulla Relazione – di ben 507 pagine! – che il Prefetto di Latina, Bruno Frattasi, ha consegnato al Ministro Maroni, chiedendo “lo scioglimento del Comune di fondi, infiltrato dalla criminalità organizzata”. Vi si legge tra l’altro: Soldi destinati dalla Regione a una bonifica ambientale attesa da anni, quella dell’Isola dei Ciurli, e finiti in bocca ai clan. E ancora: commesse di ogni genere (macellazione delle carni, lavoro interinale, edilizia) nelle mani della camorra, con nomi che si rincorrono in inchieste giudiziarie dal Circeo a Latina. Proprio di questo relazionerà oggi Maroni, atteso a un’audizione davanti alla commissione parlamentare Antimafia.

Con le dimissioni a sorpresa del consiglio, l’amministrazione di Fondi ha dribblato le severe disposizioni dello scioglimento governativo. Ma le infiltrazioni delle organizzazioni criminali sono sempre presenti, come dimostra l’inchiesta prefettizia. Sono 15 le società che hanno ricevuto commesse dal Comune, disinteressato alle certificazioni antimafia. Dalle carte emergono nomi, parentele e amicizie sospette negli uffici pubblici. E assetti azionari contigui alla camorra. Vale per l’«Idrostrade ingegneria», che a Fondi ha lavori per la manutenzione delle fogne, ma si scopre che il nome dell’impresa «è pertinente a indagini condotte dalla Dda di Salerno per omicidio, corruzione, violenza privata e associazione mafiosa». Oppure il caso della «Impec», indagata dalla Dda di Catanzaro: nella cittadina del Lazio si occupa della tutela delle risorse idriche. Eppure il titolare ha collezionato denunce che vanno «dall’inquinamento delle acque alla deturpazione di bellezze naturali».

Eloquente la vicenda dell’«ecomostro» dei Ciurli, le 21 palazzine abusive abbattute alla fine di un iter giudiziario risalente al 1968. Con il sindaco Parisella (centrodestra) che ribadiva di non avere i soldi per il «repulisti», è la Regione che nel 2007 s’incarica di sostenere il Comune, finanziando l’operazione. Ma dei 750 mila euro arrivati dal Dipartimento Territorio e urbanistica, 100 mila si perdono negli uffici del Municipio senza che alla commissione di 007 (carabinieri, poliziotti e finanzieri) venga «fornita documentazione giustificativa». Non solo. Il grosso della somma (650 mila euro) finisce, senza bandi, a imprese vicine alla camorra.

C’è una ditta che appartiene a un costruttore segnalato per rapina, estorsione, furto e abuso edilizio. L’uomo è in contatto con Carmelo Tripodo, sorvegliato speciale – figlio di un boss legato a camorra e ‘ndrangheta – che, prima dell’arresto a luglio per associazione mafiosa, spadroneggia su Fondi, tanto che il sindaco Parisella lo accredita direttamente in Comune per quanto riguarda altri appalti riguardanti le pulizie. Una seconda società, la «Gival», appartiene ad Antonio Ciccarelli, consigliere municipale. L’amministratore unico è suo cognato, Francesco Palermo, segnalato dalle forze dell’ordine al matrimonio di Tripodo. La «Gival», tra l’altro, ha una concessione per lo stoccaggio di rifiuti pericolosi. Ma la cava, sottolinea la relazione di Frattasi, è stata sequestrata dalla Forestale per violazione delle norme ambientali…”.




Italia: crescono le “salme innominate”


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Riprendiamo da “La Stampa” di Torino, a firma di Pierangelo Sapegno, e per motivi di spazio ci limitiamo a riportare:

All’ingresso del cimitero c’è una scritta in latino, «Beati i morti che sono morti nel Signore». Forse, moriamo tutti nel nome del Signore. Ma a Lauriano, sulle rive del Po, fra le croci e il silenzio venuto dal cielo, ci sono due lapidi senza nome, una di fronte all’altra. Quella più vecchia ha inciso solo una data: 15 aprile 1974, il giorno che la seppellirono. L’avevano trovata l’11 aprile e il brigadiere Raffaele Posca della stazione dei carabinieri di Casalborgone aveva scritto nel rapporto che era una «salma di sesso femminile dell’apparente età di quaranta-cinquant’anni. Giaceva in un groviglio di arbusti ammucchiati dalle acque del fiume, supina, completamente nuda, con all’altezza della vita un elastico, presumibilmente da reggicalze».

La morte, in fondo, appartiene alla vita. E l’identità è una delle cose più importanti della vita. Solo un anno fa i cadaveri senza nome erano 337. In dodici mesi sono più che raddoppiati: 114 di loro sono immigrati annegati in un barcone affondato nel mare. La maggior parte si trovano nel Lazio, 188. Poi seguono la Lombardia, 130, la Sicilia, 110, la Puglia, 52, il Veneto, 45, e la Campania 42. A Milano quest’anno sono 88 i corpi senza nome. Tecnicamente, il concetto di identità si può definire come quei «caratteri individuali che differenziano inconfondibilmente un determinato individuo da un altro». Ma l’identità di una persona non è solo questo: dentro c’è la vita, ci sono gli affetti, i sentimenti, le emozioni, anche le ingiustizie, tutto quello che troviamo sulla nostra stessa strada. Privare questo viaggio della parola fine è un po’ come negare che la persona sia mai esistita. Per questo la maggior parte dei cadaveri senza nome erano persone vissuta ai margini della società, clochard e immigrati, molte prostitute e diseredati di tutti i tipi. Degli 88 casi di Milano, la metà è oggetto di indagini come morti sospette, il venti per cento come omicidi certi. E in ogni caso l’identificazione dei resti non è come nelle fiction televisive: è molto più difficile, e a volte si hanno così pochi frammenti di un corpo che è quasi impossibile risalire al Dna. Così, per il suo lavoro, Cristina Cattaneo, dirigente del Labanof – il Laboratorio di Antropologia e Odontologia dell’Università Statale di Milano – ha messo su un team di esperti in odontologia, ma anche in archeologia, per studiare la conformazione di un terreno e capire dove fare gli scavi, o in botanica, con l’utilizzo persino di una muta di cani addestrati.

Il problema è che «manca un giusto coordinamento», come sostiene Elisa Pozza Tasca, presidente di Penelope, l’associazione che raccoglie centinaia di uomini e donne in ansia per i loro cari svaniti nel nulla e che lavora su questa tragedia con il nuovo commissario straordinario per le persone scomparse, il prefetto Michele Penta.

Secondo la banca dati del Ministero dell’Interno, gli scomparsi in Italia sono 24mila e 800: fra loro è ovvio che ci sono anche alcuni di quei cadaveri senza nome. «Da una parte la gente non sa come fare e dall’altra non c’è collegamento fra chi riceve la domanda, il ministero dell’Interno, il commissario straordinario che deve essere coinvolto in queste vicende e la famiglia». L’esempio lo racconta lei: è quello di Bachisio Inzaina, un anziano residente a Vinci, morto il 19 gennaio 2001: è caduto nell’Arno e la corrente ha trascinato il suo corpo a Pisa. Ma nessuno lo sa. Sta chiuso in una cella frigorifera per 8 anni. Le figlie Angela e Rita lo cercano disperatamente. Nel 2007 dalla Puglia arriva una segnalazione: c’è un morto con una cicatrice nella testa, come quella che aveva Bachisio. Le figlie danno il dna: non è lui. Però, ci sono 8 scomparsi in Toscana e finalmente confrontano i dna, e lo trovano. Ancora due anni dopo, perché tanto ci vuole per mettere la parola fine a una vita che non c’è più.

Invece, quella di Lauriano quella parola non l’ha mai avuta. Dovrebbe essere il cadavere ignoto più vecchio. Avevano detto di lei che era una prostituta. Non era vero. E’ che si può dire di tutto di un morto senza nome. Il cantoniere che portò il suo corpo alla camera mortuaria ricorda solo che faceva un caldo bestiale quel giorno. Il 15 aprile del 1974…”.




Il legale e… i segreti svizzeri


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Si “estende” lo scandalo che tutti i giornali definiscono dei <<segreti svizzeri>> e che riguarda Giuseppe Grossi, la sua “Green Holdin” e la vicenda relativa al “gonfiamento” dei costi della bonifica dei terreni di Montecity-Rogoredo. Effettuati già 5 arresti; ma si indaga su 80 persone e sono state effettuate perquisizioni in 9 regioni. Scrivono sul “Corriere della Sera”, Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella:
Milano – «È un chirurgo plastico». «Produce serrature e sistemi di sicurezza». «È un patrimonio ereditato dal padre e proveniente dalla cessione di un’azienda edile».Parla ai magistrati milanesi Fabrizio Pessina, l’avvocato svizzero tra i primi arrestati nell’inchiesta sui fondi neri creati dal «re delle bonifiche» ambientali Giuseppe Grossi nell’affare Montecity. Ma non è questo il filone nel quale Pessina diventa un prezioso teste d’accusa per i pm. È invece la costola d’indagine fiscale nata per caso dal suo arresto, e in particolare dall’ormai noto sequestro sul suo computer di una lista di oltre 500 clienti.
Molti estranei a reati, e finiti nella rubrica per le ragioni più svariate. Ma altri, spiega Pessina, per esempio gli 80 ieri indagati e perquisiti (come persone o società) dalla Guardia di Finanza di Milano in 9 regioni, evasori lo erano davvero…
La Gdf stima l’importo delle fatture false, nel caso degli 80 soggetti ai quali già dal 15 settembre l’inchiesta ha sbarrato la strada all’eventuale ricorso allo scudo fiscale, in 300 milioni di euro, di cui la più ottimistica delle prognosi prospetta un recupero del 40% tra tasse e sanzioni.




Per gli studenti: case in affitto…


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

In gran parte irregolari; alcune a Roma. In un’operazione delle Fiamme Gialle, su 200 controlli fiscali, nessuno – neanche uno! – ha avuto esito regolare; per un totale di 3 milioni e mezzo di euro evasi al Fisco; e sono stati individuati, in oltre 300 immobili, anch’essi irregolari.
“Intanto, i prezzi degli alloggi restano stabilmente alle stelle: servono 500 euro (in nero) per una camera da 10 metri quadri. E le inserzioni sui giornali lasciano pochi dubbi: a 300 euro, ci sono solo i «posti letto».
Poi il fenomeno del triplo-subaffitto: io che affitto a te, tu ad un altro e via dicendo. Così, step-by -step, i prezzi lievitano. Ma non è tutto. «Se vivi a Roma – dice Daniele che abita a Cinecittà e studia Fisioterapia – e cerchi una stanza per stare più vicino all’università, o magari non vuoi fare il bamboccione, non trovi nulla perché quasi tutti affittano (in nero) solo ai “non residenti”». Niente case ai romani, dunque…”




Camera e Senato pochissimo “lavoro”


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Com’è noto, sono stati 10 giorni di chiusura forzata, a Montecitorio, decisa da Fini. Ma c’è uno “strano virus” scrive su “Repubblica” Carmelo Lupara; un virus “che ne ha ridotto la capacità, abbattuto la produttività e infine mortificato la funzione…”. Vero che le Camere non hanno mai “brillato per i iperattivismo, “ma negli ultimi sei mesi, a causa del progressivo affievolimento dell’attività del governo… hanno rallentato e infine esaurito la loro corsa…”.

Il fatto è che le 8,6 ore di seduta a settimana (dal martedì al giovedì pomeriggio) alle quali si sono limitati i senatori dal 1 maggio al 31 ottobre e le 18 dei deputati (dal lunedì al giovedì pomeriggio) nello stesso periodo, raccontano di un arrancare senza precedenti. Denunciato in fondo, con tutta la diplomazia del caso, dalla clamorosa iniziativa del presidente Fini nel momento in cui ha chiuso per mancanza di leggi e di copertura per finanziarle… Al Senato invece si va avanti senza scosse, sebbene proprio lì i numeri parlino di un calo ancora più marcato: dalle 17,7 sedute al mese del primo anno di legislatura si è passati alle 14 degli ultimi 180 giorni; le ore di aula da 11 a 8,6 a settimana.

“Repubblica” ha passato al setaccio proprio gli ultimi sei mesi di attività di Camera e Senato, grazie ai dati ufficiali forniti dal Servizio statistiche di Montecitorio e dal Servizio resoconti e comunicazione istituzionale di Palazzo Madama. Un cammino nella giungla dei numeri per tentare di risalire alla fonte della paralisi. E se delle 47 leggi approvate da maggio ad ora 36 provengono dal Consiglio dei ministri, due miste e solo 9 di iniziativa parlamentare, vuol dire che le Camere ormai ratificano per lo più norme dettate dal governo Berlusconi e che di conseguenza il “legificio” si ferma se la macchina si intoppa. Cordoni chiusi della borsa del ministro Tremonti, ma c’è dell’altro.

Il richiamo di Fini ai presidenti di commissione non era casuale. In questo momento (come si evince dalla tabella) sono fermi proprio nelle commissioni ben 579 disegni di legge (297 al Senato e 282 alla Camera). Per non parlare di tutti gli altri ancora da esaminare: allora si tocca quota 1.621 al Senato e 2.606 alla Camera, oltre 4mila leggi al palo. Eppure, la commissione Affari costituzionali del Senato negli ultimi sei mesi si è riunita 37 volte per 25 ore di lavoro (meno di un’ora a seduta), la commissione Giustizia 33 riunioni per 36 ore di attività, Esteri 17 sedute in 14 ore, Difesa 24 sedute per 22 ore, e via così tutte le altre con l’eccezione della commissione Bilancio, 68 riunioni in sei mesi e 79 ore. Alla Camera, dall’1 maggio al 31 ottobre la commissione Affari costituzionali ha esitato 5 ddl in sede referente e 4 in sede legislativa, Giustizia solo 2 in sede referente. Difesa, Finanze, Cultura, Trasporti, Attività produttive zero (0) ddl esitati in sede referente.

La corsia preferenziale. L’attività e soprattutto la qualità del legislatore non si misura col cronometro. Vero. Ma a volte il timing svela qualcosa. Ad esempio (vedi altra tabella), che un disegno di legge di iniziativa parlamentare impiega 123 giorni in media per essere approvato al Senato e 147 alla Camera. Quando invece ai decreti e alle proposte con la firma del premier Berlusconi o di un ministro ne bastano 19 giorni al Senato e 22 alla Camera. Merito/colpa della spada di Damocle della fiducia (25 in 18 mesi, ultima sullo scudo fiscale), ma non solo. Sta di fatto che in 18 mesi di legislatura, su 112 leggi approvate, 97 sono di iniziativa governativa (ma 33 decreti e 45 ratifiche di trattati internazionali) e solo 15 parlamentari.

Dipendenti part time. Il 3 maggio, un’inchiesta di “Repubblica” rivelava che nei due mesi precedenti di marzo e aprile, al Senato, si era lavorato solo per 10 giorni al mese, col record di sole 7 ore di sedute in una settimana di aprile. Cos’è accaduto nei sei mesi successivi, in cui governo e maggioranza sono stati assorbiti anche da vicende non prettamente politiche? Al netto della pausa estiva, in sei mesi la Camera ha tenuto 72 sedute, 14 al mese circa, lavorando per 18 ore a settimana, 4 ore e mezza al giorno nel quattro giorni di attività. Comunque, un incremento rispetto alle16,5 ore a settimana dei primi quattro mesi. A Palazzo Madama le cose continuano ad andare peggio. L’assemblea, da maggio al primo novembre, ha tenuto 72 sedute per 173 ore complessive, ovvero 34,6 ore al mese (erano 46 i primi quattro mesi del 2009): dunque 8,6 ore a settimana (erano 11,5). In linea col record negativo di aprile che aveva destato scandalo…”.




Tanti i falsi “made in Italy”


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

C’è una cifra che lascia sbalorditi, anche perché è vera: nei soli Stati uniti il giro d’affari di prodotti dal “suono italiano” supera 16 milioni di dollari. E si deve aggiungere che nel 2008, sono stati sequestrati in Italia 400 mila pezzi, specie di orologi e gioielli.

Il giro d’affari è di 7 miliardi di euro.

Oltre ai gioielli falsi, sono presi di mira profumi e cosmetici e nel mondo il boom del “falso2 è cresciuto a dismisura: dal 1993 al 2005, aumento del 1850 %!

Ne scrive sul “Corriere della Sera” Roberto Bagnoli:

Contro i furbi e i contraffattori del made in Italy è in arrivo un nuovo sistema sanzionatorio con multe fino a 250 mila euro. Lo prevede il decreto 135 approvato recentemente dal governo che ridisegna le norme per proteggere le merci prodotte nel nostro Paese. Affinché sia pienamente operativo occorre attendere qualche mese, il tempo di emanare i decreti attuativi. Per Andrea Ronchi, il ministro per le Politiche comunitarie e regista di questa novità insieme al ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola e dell’ ambiente Stefania Prestigiacomo, il decreto «riguarda tutte le 480 mila imprese manifatturiere italiane che da anni chiedono una linea chiara e di maggiore garanzia per tutelare i loro prodotti». Il decreto prevede che al «vecchio» marchio made in Italy possa essere aggiunta la dizione «100% italiano o interamente italiano». Una decisione facoltativa ma, una volta scelta, deve valere solo per i prodotti «per i quali il disegno, la progettazione, la lavorazione e il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano». La rispondenza a queste regole sarà disciplinata da precisi criteri legali e non più «rimessa alla personale valutazione del produttore». Per i furbi sono previste pesanti sanzioni pecuniarie (da 10 mila a 250 mila euro) compresa la confisca amministrativa. Il decreto punisce anche l’ uso ingannevole o scorretto del marchio, come nel caso di «Tempo italiano» per un orologio fatto invece chissà dove. «Nel manifatturiero siamo il secondo Paese al mondo dopo la Germania – ricorda il ministro Ronchi – e per le nostre imprese i problemi più importanti riguardano proprio la contraffazione e l’ accesso al credito bancario». L’ industria del falso in Italia, secondo il Censis, vale oltre 7 miliardi di euro l’ anno ma quello che conta è l’ effetto internazionale impossibile da quantificare…”.




Atenei “regalati” a parenti e Sindacati


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

L’Università “Parthenope” di Napoli, come dice il nome, ha firmato con la Uil Campania una convenzione a chi ha la tessera del sindacato UIL, di vedersi riconoscere fino a 60 crediti per la laurea triennale in giurisprudenza.

Esiste – lo leggiamo sul “Corriere della Sera” – qualche precedente di queste lauree “agevolate”. I precedenti: 2006 Le lauree per i dipendenti del Viminale – Una convenzione tra l’Università. S. Pio V e il ministero dell’Interno, regolata dalla legge 448/2001, prevede che i dipendenti del Viminale, grazie ai crediti formativi maturati sul lavoro, possano ottenere una laurea triennale in Scienze Politiche sostenendo un numero di esami ridotto fino a 6.

2008 – Le scorciatoie per i giornalisti – Previo accordo con l’ordine dei giornalisti, otto atenei italiani (da Sora a Messina) negli anni scorsi hanno offerto lauree “facili” ai giornalisti, con tetti di crediti che potevano arrivare fino a 96 (o 72 per i Pubblicisti).

Ed ecco cosa accade adesso per il triennio in legge alla “Parthenope”:

«Non c’è proprio niente di strano». Questo il commento del professor Federico Alvino quando, due anni fa, saltò fuori che nell’università con il record di docenti imparentati, la Parthenope di Napoli, anche lui, preside di giurisprudenza, poteva vantare una parentela coi fiocchi. Sua moglie Marilù Ferrara è infatti la figlia di Gennaro Ferrara, ininterrottamente da oltre un ventennio rettore dell’ateneo. Una parentela, inoltre, dalle spiccate venature politiche. Alvino è consigliere comunale di Napoli, capogruppo dell’Udc. Invece il suocero è vicepresidente della giunta provinciale. Deleghe: politiche scolastiche e diritto allo studio.

Proprio niente di strano, per come funziona l’università italiana. Che dire allora dell’ultima perla di cui si può fregiare il trentasettenne Alvino, uno dei presidi più giovani d’Italia? Qualche settimana fa la Parthenope ha firmato con la Uil della Campania una convenzione che consentirà a chi ha in tasca la tessera del sindacato guidato da Luigi Angeletti di vedersi riconoscere fino a 60 crediti per il corso di laurea triennale in giurisprudenza. Uno sconto, secco, di un anno su tre.

Come ottenerlo? Sentite che cosa dice la convenzione: «In considerazione delle conoscenze e delle abilità che i lavoratori iscritti alla Uil potranno certificare in ragione delle funzioni e delle mansioni a loro attribuite verranno riconosciuti 60 crediti al personale impegnato in attività di tipo tecnico, gestionale o direttivo…50 crediti al personale impiegato in attività caratterizzato da conoscenze mono specialistiche…» . Ma sapete chi stabilisce i requisiti per avere diritto allo sconto? Ecco l’articolo 2 della convenzione: «La Uil segreteria regionale della Campania si impegna a collaborare con l’Università nell’individuazione dei requisiti nella fase istruttoria delle richieste degli iscritti». Cioè la decisione viene presa insieme al sindacato. E se un iscritto alla Uil ha magari già fatto qualche esame in quella università e vuole vederselo riconosciuto? Stropicciatevi gli occhi: «Il riconoscimento degli esami stessi — ha scritto Luciano Nazzaro della Uil Campania ai suoi colleghi — sarà curato dalla stessa Uil»…”.

(U.G.)




Traffico bloccato: un costo enorme


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Finalmente, si è riusciti a quantificare i costi – di vario genere – che comporta il traffico frenetico che imperversa un po’ dovunque ma soprattutto nelle grandi città. Per esempio, a Roma, Milano e Napoli.

Il romano medio, dunque, “trascorre” ogni anno , 260 ore in auto; e, globalmente, è stato calcolato che nella Capitale, si perdono annualmente, 1 miliardo e mezzo di euro. A Milano, 240 sono le ore “perse” in macchina; e a Napoli, 210 ore.

Calcolato, anche, che sono 3000 le corse dei bus, perse a causa delle doppie file.

Scrive sul “Messaggero” Fabio Rossi, commentando questi “nodi della mobilità”:

“Un miliardo e mezzo di danni economici, tra ore di lavoro perse, interventi dei vigili urbani e interruzioni dei servizi pubblici. Senza contare i danni di carattere ambientale. Tanto costa, ogni anno, uno dei principali problemi della Capitale e dei romani: il traffico. Il piano strategico della mobilità del Campidoglio parla chiaro: la congestione della circolazione cittadina non è soltanto un’inesauribile fonte di stress per chi si muove in auto, è anche una pesante voce passiva per l’economia romana. Basti pensare al monte-ore perse: 135 milioni in un anno. Ore passate dai romani in macchina senza poter lavorare, accumulando stress, consumando benzina e, dulcis in fundo, inquinando l’aria. E i mezzi pubblici? Alle carenze strutturali del servizio si aggiungono le aggravanti apportate proprio dal traffico, che rallenta autobus e tram. Ma anche e soprattutto dell’inciviltà di tanti automobilisti: l’Atac calcola in circa tremila le corse perse, ogni anno, a causa dei rallentamenti dovuti alle auto parcheggiate in doppia fila. Ma quanto tempo perde un automobilista romano medio, ogni anno, nel traffico? La risposta tenta di darla uno studio realizzato dal Codacons nelle tre principali città italiane: Roma, Milano e Napoli. Nel 2009, secondo l’Associazione di consumatori, nella Capitale si perderanno nel traffico fino a quasi 11 giorni, tempo trascorso in ingorghi e rallentamenti procedendo ad una velocità inferiore (anche notevolmente) ai 30 chilometri orari. Roma detiene il record negativo, con una media è di 260 ore all’anno passate al volante in code e rallentamenti, pari a 10,8 giorni del 2009. Segue Milano con 240 ore (10 giorni esatti) e Napoli con 210 ore (8,75 giorni su base annua). «È intollerabile che, per collegare un quartiere situato a sud con uno situato a nord, nelle ore di punta si impieghino in automobile oltre due ore – sottolinea Carlo Rienzi, presidente del Codacons – Lo stesso tempo che si impiegherebbe per raggiungere dalla Capitale regioni come la Campania, la Toscana o l’Umbria»… Secondo Antonello Aurigemma, presidente della commissione capitolina mobilità, la paralisi del traffico «è una delle tante eredità che abbiamo ricevuto dalle passate amministrazioni: in 15 anni di giunte di centrosinistra, Roma ha raggiunto livelli di paese da terzo mondo per quanto concerne, per esempio, il trasporto pubblico”.




Cronaca nera degli immigrati


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Ecco il “bollettino” di un paio di giorni a Roma: