Nuovo scandalo nelle Università…


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E’ quello scoppiato a Bari, Foggia, Chieti e Ancona (ma questa è la tipica inchiesta che certamente verrà estesa anche altrove) sui “test di medicina con il trucco”. già ci sono 128 indagati, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dell’Università, peculato e rivelazione del segreto d’ufficio.

Sul “Messaggero” leggiamo, a firma di Grazia Rongo che “la mente della truffa sarebbe il professor Marcantonio Pollice, biologo e insegnante di liceo in pensione, finito ai domiciliari nel settembre del 2008, attualmente in libertà. Era lui ad organizzare costosissimi corsi di preparazione, accedendo ai quali gli studenti, sborsando fino a 6mila euro, erano certi di poter contare sul suo prezioso aiuto. Una volta matricole, avrebbero dovuto sborsare altri soldi, fino a 30mila euro, per poi procedere nel normale percorso di studi. Il sistema però era a prova di asino: chiunque avrebbe potuto superare i test munito di telefonino collegato all’esterno con due centrali operative, una addirittura allestita nella stanza di un professore universitario, all’interno del Policlinico di Bari. Qui lavoravano una serie di titolati suggeritori, pronti a fornire la risposta giusta al momento opportuno. Un meccanismo ineccepibile che però non avrebbe funzionato alla perfezione senza la complicità di genitori o parenti. Pur di vedere i propri figli col camice bianco, erano pronti ad iscriversi alla prova d’ammissione per sedersi tra i banchi ed uscire, poco dopo, con i famigerati test sotto il braccio, pronti a sottoporli al gruppo di lavoro. Tra gli indagati ci sono Maurizio Procaccini, direttore dell’istituto di scienze odontostomatologiche e presidente del corso di laurea di odontoiatria dell’università di Ancona, il suo collega di facoltà Matteo Piemontese e Cosima Schiavone dell’università di Chieti-Pescara. I docenti dell’università di Bari indagati, sono il ginecologo Giuseppe Varcaccio Garofalo e suo figlio Mario. Dalla prima inchiesta, quella che vede come imputato principale il professor Pollice, i finanzieri sono risaliti ad un’altra organizzazione parallela, con base ad Altamura, nell’appartamento di un assessore comunale, dimessosi dopo lo scandalo. In questo caso gli aiutini arrivavano fino Foggia, Napoli e Verona.




E’ scandalo grosso il prof. “negazionista”


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Ancora uno scandalo sul “negazionista”, e più precisamente sul prof. Antonio Caracciolo, 59 anni, docente di Filosofia del Diritto a Scienze Politiche, coordinatore provinciale del PdL a Reggio Calabria e frequentatore di un Circolo romano del Partito. Leggiamo sul “Corriere della Sera”, a firma di Francesco Di Frischia, che “su uno dei suoi tanti blog personali il docente definisce l’Olocausto “una leggenda”, sostiene l’inesistenza dei campi di concentramento e ribadisce “l’inutilità di spendere soldi per i viaggi ad Auschwitz”.
Dall’ateneo il rettore, Luigi Frati, chiederà “spiegazioni a questo ricercatore: stiamo valutando provvedimenti disciplinari senza fare epurazioni” e nel frattempo lo invita ad andare “a Dacau”. Più duro Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana, che annuncia: “Denunceremo il signor nessuno…”. Leggiamo ancora: “Su una parete della sua casa, piena di libri, Caracciolo ha appesa la foto di Carl Schmitt, il filosofo tedesco sostenitore del regime nazista. Inoltre sul suo blog ( Civium libertas ) invita a boicottare “lo stato di Israele che dal 1948 attua una sistematica pulizia etnica dei palestinesi”. Di Dachau dice che “è meglio di molti paesini della Calabria”, sua terra d’origine, e sulla frase che ha scatenato le proteste, “l’Olocausto è una leggenda “, ribatte: “Lì manca un punto interrogativo”.




Piccole e Medie Imprese


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Debbono davvero trovarsi con le spalle al muro quelli delle Piccole e medie imprese (PMI), a giudicare da quanto chiedono quando pensano alla Finanziaria. Ed è davvero una vergogna che siano stati ridotti in queste condizioni!
Siamo indotti ad indignarci – e siamo lieti di esserne ancora capaci – da quello che ha scritto giorni fa sul “Corriere della Sera” il dott. Giovanni Quintieri, direttore generale della Federlazio.
Scrive, fra l’altro, Quintieri, appunto a proposito della ormai aperta <<caccia alla Finanziaria>>, tra suggerimenti-avvertimenti ad opera di tutte le forze politiche e sociali, che quelli del PMI si intenterebbero dell’impegno “di pagare nei tempi dovuti i diversi fornitori di beni e servizi della Pubblica Amministrazione…”.
Una «cosa» che dovrebbe avvenire senza difficoltà; che invece – come è a tutti noto – non si verifica da anni senza che nessun Governo si sia curato di intervenire.
Una “piccola cosa” insomma. Eppure – scrive ancora il Direttore della Federlazio – “Questa piccola cosa già da sola consentirebbe alle Pmi di non subire eccessive esposizioni con le banche, dunque di risparmiare sul costo del credito e pertanto avere più capacità finanziaria da destinare agli investimenti e allo sviluppo. Lo stesso discorso varrebbe per l’ abbattimento di un solo punto percentuale nel costo del denaro, anche in considerazione della riforma del Tfr che riduce ulteriormente per le Pmi la disponibilità finanziaria. E che dire degli effetti benefici che deriverebbero da interventi strutturali finalizzati a ridurre il costo dell’ energia? Oppure di una diversa gestione delle procedure di assegnazione delle gare di appalto, che non escludessero a priori la piccola dimensione, ma che selezionassero le candidature sulla base delle reali capacità tecniche e professionali delle imprese?…”.

(U.G.)




Italiani, tante tasse e poco Stato sociale


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Ormai, può essere questa la definizione del nostro Paese; la vera “fotografia” dell’Italia dei nostri tempi alla quale anche il demagogico governo di Sinistra sta dando luogo con le sue “liberalizzazioni” alla Bersani.

Che ci sia sempre meno Stato sociale, è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti, anche perché a tanto spingono le spinte liberaloidi che vengono da Strasburgo e da Bruxelles, da quella Commissione per anni presieduta da prodi che allora proprio a queste “pulsioni” dette luogo. E che poi le tasse siano tante è anch’essa “vicenda” che tutti ben conoscono – anche sulla propria pelle di contribuenti e che comunque vediamo documentata con esattezza su “Avvenire” in un lungo articolo da Milano a firma di Giovanna Sciacchitano. Nel quale leggiamo: “Italiani, popolo di tartassati. Si, perché paghiamo le stesse tasse dei francesi, più dei tedeschi e in compenso abbiamo meno servizi sociali. E’ quanto ha rilevato l’associazione artigiani Cgia di Mestre (Venezia) sui dati del 2004.

In media ogni cittadino del Belpaese versa in un anno all’erario imposte, tasse e tributi per 6.665 euro, contro i 5.877 di un tedesco e i 6778 di un francese. Secondo l’associazione, se i cugini d’Oltralpe pagano circa un centinaio di euro in più di noi, bisogna considerare che lo Stato francese per pensioni, sanità, istruzione e tutte le altre voci della spesa sociale distribuisce ben 9467 euro a ogni cittadino (2.420 euro in più che in Italia). In Germania si trasferiscono invece 8655 (1.608 euro in più che da noi), mentre in Italia si arriva a 7047 euro. Per gli artigiani di Mestre le tasse sono così elevate perché in Italia si mantiene una spesa pubblica eccessiva, costituita per una buona parte da sprechi, sperperi e inefficienze. Non va sottovalutato neppure il livello dell’evasione fiscale. Ecco perché per gli artigiani è opportuno far emergere il sommerso e non continuare a vessare chi le tasse le paga già. Il punto è che in Italia si continua a pagare più degli altri avendo in cambio servizi peggiori sia da un punto di vista quantitativo si qualitativo. La ricetta degli artigiani è quella di pagare tutti, ma migliorare l’efficienza della macchina amministrativa, razionalizzando così la spesa pubblica per renderla più equa e in linea con la media europea.

Per Adusbef quella della evasione è una piaga che equivale a 8 finanziarie. Nel 2002 (anno per il quale sono a disposizione i dati più aggiornati) è ammontata a 244 miliardi di euro. Secondo l’associazione degli utenti dei servizi bancari e finanziari a fronte di un reddito complessivo denunciato dai quasi 40 milioni di contribuenti di 623,4 miliardi di euro, i redditi totali ammontano invece a 868 miliardi, con una differenza di 244,6. I dati degli artigiani hanno attirato l’attenzione dell’ex sottosegretario a Welfare Maurizo Sacconi che ha parlato del «pericolo di una vera e propria rottura del patto sociale>>. Secondo l’esponente di Forza Italia << ci sono tutte le condizioni per mobilitare l’Italia intera contro la minaccia di una vera e propria violenza fiscale sulle persone e sulle imprese». E la preoccupazione è per le misure che i l governo ha allo studio: «si annunciano una rivalutazione più frequente degli studi di settore e degli estimi catastali, maggiori contributi previdenziali per gli autonomi. Il ritorno dell’imposta di successione, aliquote più elevate di azioni, titoli di Stato, affitti e altro ancora».




Tutti in coda, per 227 ore ogni anno


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Un primo calcolo; sul Grande Ingorgo Nazionale. Secondo uno studio presentato a Napoli dall’ Automobile Club “se tutti gli italiani prendessero nello stesso momento la macchina il risultato sarebbe la paralisi di tutte le strade d’ Italia, dai centri storici alle statali fino alle autostrade. Nel nostro Paese,  le vetture circolanti sono 36 milioni. Considerando che sono lunghe in media tre metri e mezzo, arriverebbero a coprire i 50 mila chilometri della rete italiana in tutte le sue carreggiate. Senza lasciare un solo centimetro libero!

Lee Iacocca, numero uno della Chrysler e quindi non esattamente al di sopra delle parti, aveva la sua teoria: «Come risolvere il problema del traffico? Basta comprare una buona autoradio». Non c’era nulla da fare, secondo il manager che salvò l’industria dell’auto americana dalla crisi degli anni Settanta. Nulla, se non rendere meno insopportabili quelle ore passate in fila al volante nella quotidiana processione casa-lavoro-casa. Eppure, a guardare i numeri, forse sarebbe il caso di buttare quell’autoradio dal finestrino. E trovare davvero una soluzione alternativa. Considerando solo le 10 città italiane più grandi con relativa provincia, il traffico ci ruba quasi un’ora al giorno a testa e ci costa in tutto 27 miliardi di euro l’anno.

Tanto per farsi un’idea,  27 miliardi di euro sono stati, nel 2008, quelli distribuiti al popolo italiano intero sotto forma di tredicesime, oppure il totale dell’evasione fiscale accertata dalla Guardia di finanza, o ancora i ricavi accumulati dall’intero gruppo Lufthansa.

Lo studio è opera della società di consulenza “Vision&Value” ed è stato discusso  a Napoli nel corso della conferenza «Kyoto of the cities», dedicata al tema dell’inquinamento nelle sue infinte forme. Come sono arrivati Francesco Grillo e Gabriele Cetorelli, autori dello studio, a quella cifra? …  I dati sono stati presi da 300 mila automobili che circolano nelle prime dieci città italiane. Macchine dotate di gps e di assicurazione a tempo, metodo innovativo ma già abbastanza diffuso che consente di pagare la polizza non per sei mesi o un anno ma per il solo tempo di effettivo utilizzo dell’auto. È proprio questo meccanismo elettronico a consentire di immagazzinare tutti i dati necessari per il calcolo. Non solo il costo della benzina, che viene facile moltiplicando il numero dei chilometri percorsi per il prezzo al litro. Ma anche il “costo sociale” delle emissioni di anidride carbonica che viene misurato mettendo insieme il livello di inquinamento delle singole vetture e il valore di una tonnellata di anidride per così dire a prezzo di mercato…

Ma il dato più comprensibile, e più spaventoso, è il terzo. Il tempo. Un’ora persa nel traffico vale, secondo questo studio, lo stesso numero di euro che avremmo prodotto come lavoratori se fossimo stati in ufficio invece che lì, fermi come dei cretini al semaforo. Dato questo sì approssimativo, perché ormai anche in macchina si lavora, al telefono e nei casi più disperati anche al computer. E perché il più delle volte l’imbottigliamento non ruba spazio al lavoro (si può sempre recuperare) ma al tempo libero, che non sarà monetizzabile ma ha sempre il suo perché. Al di là degli euro è il numero secco delle ore passate nel traffico che impressiona. Roma si conferma la città (della coda) eterna: ogni abitante della provincia di Roma, mettendo nel calcolo anche quelli che non hanno la patente, brucia nel traffico 227 ore l’anno. Quasi una al giorno. Più del doppio di quelli della provincia di Milano che si fermano di un soffio sotto la soglia psicologica delle 100 ore l’anno, superati da Palermo con 139 e da Napoli con 120. Persino a Venezia, la grande città meno motorizzata d’Italia, di ore se ne vanno 72. Da simbolo di libertà, l’automobile si trasforma in una galera. E non è l’unico guaio. Tre quarti buoni del tempo trascorso in macchina lo passiamo in situazione di congestione, cioè viaggiando a meno di 30 chilometri orari. La velocità media delle 300 mila vetture controllate dallo studio, infatti, non è poi così diversa da quella di una bicicletta: non solo a Napoli, dove si striscia a 16 chilometri orari, ma anche a Torino dove si arriva a 22 o a Milano dove si vola a ben 23 chilometri all’ora…”.

(U.G.)




“Muoiono le api!” ed è un pessimo segno


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Luciano De Biasi, ecologista di Soligo, riporta un dato allarmante: solo in Veneto ogni anno vengono sparse 15.000 tonnellate di pesticidi. «Ricordiamo che il lavoro delle api per l’ impollinazione è fondamentale. Se si considera che in un alveare ci sono dalle 30 mila alle 40 mila api e che un’ ape visita dai 100 ai 1000 fiori al giorno ne risulta, anche con un calcolo per difetto, che un singolo alveare con le sue bottinatrici contribuisce ad impollinare ben 3 milioni di fiori al giorno». Luciano De Biasi ha fatto una ricerca presso l’ Ussl 7 di Conegliano Veneto sui pazienti con il codice E48, ovvero «Soggetti con patologie neoplastiche». La risposta è stata preoccupante: nel 2007 vi sono state 8.760 persone colpite da tumore, mentre nel 2008 sono salite a 9.146, con un aumento pari al 4,3%. Possiamo dire che l’ aumento di malati di cancro, in percentuale, va di pari passo con l’ aumento dei pesticidi. E se si guardano le statistiche nei dettagli si scopre che la mortalità per cancro nei bambini aumenta ogni anno del 2%.

Leggiamo ancora, a firma Daria Maraini sul “Corriere della Sera” di qualche giorno fa:

“Se tutte le api morissero, all’ uomo resterebbero solo 4 anni di vita». L’ ha detto Einstein. Gli apicoltori sono allarmati perché da anni le api stanno scomparendo. Ma l’ opinione pubblica è assente. A sentire gli scienziati i maggiori responsabili della morte delle api sono le molecole dei pesticidi del gruppo dei neonicotinoidi. «Questi pesticidi vengono utilizzati nella concia dei semi di mais», spiega Andrea Zanoni, presidente di Paeseambiente. Le associazioni degli apicoltori italiani che sono circa 50 mila, con un milione di alveari, hanno protestato presso il ministero della Salute e dell’ Agricoltura, ottenendo una sospensione in via cautelativa dei pesticidi Thiamethoxan, Clothianidina, Imidaclopride e Fipronil, utilizzati nel trattamento di concia delle sementi. Il decreto è stato impugnato, come si può immaginare, dalle grandi case farmaceutiche Bayer, Syngenta e Basf. Per fortuna sia il Consiglio di Stato che il Tar del Lazio al quale le tre multinazionali si erano rivolte, hanno ribadito la sospensione. Eppure, nonostante il parere contrario della scienza e della legge, la pratica dei pesticidi continua. Ed è anche in aumento. I professori Vincenzo Girolami e Luca Mazzon del gruppo di Entomologia del Dipartimento di agronomia ambientale dell’ Università di Padova, hanno fatto una ricerca da cui risulta che un’ ape che beve gocce d’ acqua sulle foglie di piantine di mais nate da semi trattati con neonicotinoidi, muore nel giro di soli due minuti. Tutti d’ accordo gli apicoltori però che il problema della moria delle api non è imputabile solo ai prodotti per la concia del mais ma anche all’ utilizzo dei molteplici trattamenti chimici dei vigneti per i quali vengono utilizzati pesticidi a largo raggio…”.

Insomma le api ci stanno dando un segnale: Sta a noi capire e rimediare. Ricordando che siamo tutti parte di uno stesso mondo e che i veleni che distribuiamo lontano da noi, tornano sulla nostra tavola, attentando alle nostre vite.




Straniero pregiudicato “afferra un bambino”


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Ha cercato di sequestrare un bambino di tre anni, in pieno giorno, in un supermercato al centro della città. Un incubo per il piccino che è durato solo pochi istanti. Il bambino ha gridato: .”papà”, richiamando l’attenzione del genitore che era a pochi centimetri. Ecco che il sequestratore, uno straniero di 24 anni, è stato subito bloccato e il padre gli ha strappato dalle mani il piccolo terrorizzato. Una brutta storia quella accaduta domenica pomeriggio in un supermercato di piazza di Santa Maria Maggiore e risolta da un rapido intervento dei carabinieri che hanno arrestato lo straniero (di origine americana, ma vissuto in Marocco) per tentato sequestro di persona. Non si conoscono i motivi del gesto. Il ventiquattrenne si è chiuso in un mutismo assoluto, era senza documenti e ai militari non ha detto neanche come si chiama. I carabinieri si sono serviti delle sue impronte ed è venuta fuori l’identità dello straniero che aveva fornito in passato una serie di false generalità alle forze dell’ordine e risulta avere commesso altri reati nel nostro paese: furti e rapine.




I reati prescritti al papà di Noemi


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Un processo dimenticato per anni, con una richiesta di rinvio a giudizio che risale al 30 novembre 1993 e un epilogo scontato: non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dei reati. Benedetto Letizia, salito alla ribalta della cronaca per essere il papà di Noemi e per l’amicizia con il presidente del Consiglio Berlusconi, è stato assolto dal giudice per le udienze preliminari. Ma sull’ oblio del fascicolo il presidente del tribunale Carlo Alemi ha aperto un’inchiesta. La posizione di Letizia era stata stralciata nel 2001 nell’ambito dell’inchiesta su un presunto giro di tangenti per la vendita sottobanco di licenze annonarie.




Detenuti in cella ma solo per dormire


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Senza che nessuno se ne occupi e tantomeno se ne preoccupi, la situazione delle carceri sta diventando esplosiva. Per sovraffollamento. Ci sono 43.201 posti; e quasi 64.000 detenuti. Dei quali: quasi 40 mila italiani e 23.530 stranieri.
Scrive sul “Mattino”, Silvia Barocci: Ma i fondi per assumere più agenti o per aprire nuove carceri scarseggiano e vanno trovate al più presto soluzioni tampone. Perciò Ionta, nominato dal governo commissario straordinario per l’edilizia carceraria, ha deciso di non affidare la ricerca di soluzioni al solo piano che ha consegnato lo scorso maggio al Guardasigilli Alfano, ma ha avanzato la proposta dei soldati-sentinella per «liberare» circa un migliaio di agenti penitenziari da impiegare dentro gli istituti o per potere aprire quei padiglioni nuovi fino ad oggi inutilizzati a causa della mancanza di personale. L’idea non è nuova: nel ’93 una richiesta analoga arrivò sul tavolo dell’allora ministro della Difesa Salvo Andò. Non se ne fece nulla. A tentare la stessa soluzione fu nel 2000 il Guardasigilli Piero Fassino, che pensò ai militari di leva ma che subì l’altolà del collega della Difesa Sergio Mattarella, disponibile solo a concedere gli ausiliari. Un buco nell’acqua anche quello. Ma dal momento che l’indulto del 2007 ha esaurito i suoi effetti, dei palliativi vanno trovati, soprattutto quando il caldo diventa insopportabile. Così Ionta, con il capo della direzione generale detenuti, Sebastiano Ardita, ha firmato una circolare di 16 pagine per sollecitare i provveditori ad «aprire» le celle, vale a dire far trascorrere ai detenuti non pericolosi la maggior parte della giornata in aree destinate alle attività sportive e ricreative o lungo i «passeggi».
In cella dovrebbero tornare solo per dormire, e se il caldo è eccessivo sarà consentito aprire «i blindati anche oltre l’ orario».




E’ più povera una famiglia su due


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Nel Lazio una famiglia su due denuncia una riduzione sensibile del proprio benessere. Un impoverimento a cui si accompagna una contrazione dei consumi, all’undicesimo posto tra le regioni italiane e al di sotto della media nazionale. Mentre oltre un quarto del reddito regionale è nelle tasche del 5% della popolazione. È proprio 1’acuirsi della diseguaglianza sociale il dato più allarmante che emerge dall’indagine sulla condizione economica e sui bisogni delle famiglie del Lazio, condotta dall’Eures (ricerca condotta su un campione di 2.005 famiglie) e presentata dal presidente dell’Upi, Edoardo Del Vecchio, e dal presidente dell’Eures Fabio Piacenti. La forbice sempre più larga tra redditi alti e bassi è la priorità su cui intervenire sia per il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, che per 1’assessore regionale agli Affari Istituzionali, Daniele Fichera.
L’anomalia del Lazio, con Roma che rappresenta il 90% del dato economico generale, sta nel fatto che la regione detiene il primato della concentrazione della ricchezza. Un dato rilevante dal momento che il Lazio e la Capitale si posiziona in Italia al quarto posto per il reddito medio familiare (31.145 euro a fronte dei 28.552 della media nazionale). Sono le famiglie monoreddito quelle più colpite e si registra «un impoverimento della classe media e un aumento della ricchezza riservato a una quota contenuta di famiglie agiate».