Le notti proibite del centro di Roma


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Si è costituito il Comitato residenti del centro di Roma. ecco come descrive la situazione:

Per i residenti come me, dalle 22 in poi, vige una sorta di coprifuoco ufficioso, mai ufficiale, che colpisce tutti i suoi abitanti; verso quell’ora, infatti, Campo de’ Fiori e Trastevere, con tutte le loro vie e vicoli annessi, sono territorio di orde di ragazzi (che vanno dai 17 ai 25 anni e più) che scorrazzano, disturbano, distruggono, sporcano e aggrediscono indisturbati il centro e i suoi sfortunati avventori. In sostanza, questi due rioni diventano “terra di nessuno”.
Queste orde, appunto, prendono, ad una certa ora della sera e per sei giorni alla settimana, pieno possesso del “territorio” e si comportano come se ne fossero i padroni incontrastati. I gruppi più numerosi, poi, se ne vanno in giro come fossero delle vere e proprie gang di delinquenti a distruggere macchine, orinare dappertutto e, quando gli gira male, a menare qualche malcapitato.
Ieri notte è toccato a me: verso l’una della sera, un gruppo di non ben identificati ragazzini ha rotto una finestra di casa mia lanciando un sasso di più di 10 cm di lunghezza. Un gesto pericoloso commesso senza alcun motivo.
Ora, non sto qui a sottolineare la diffusa ignoranza alla quale la nostra città è sempre più soggetta, né il disorientamento e l’idiozia che caratterizza i più giovani, ma vorrei mettere in luce la drammatica situazione d’emergenza che tiene in ostaggio tutti i residenti, ed anche i commercianti, del Centro Storico.
Non ci sono controlli; non c’è prevenzione, ma solo (poca) deterrenza; c’è un’indifferenza sistematica delle amministrazioni municipale e comunale; l’impossibilità delle forze dell’ordine di agire di conseguenza; la continua mancanza di fondi (chissà poi com’è, visto che continuiamo a pagare tasse sempre più alte) che si risolve in disservizi e disagi.

(firma a nome del Comitato, Stefano Minutillo Turtur)




Fuga di cervelli: ancora allarme


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Si moltiplicano gli allarmi per la fuga dei cervelli.
Leggiamo a firma di Dario Martini su “Il Tempo”: E’ questo il senso della lettera inviata dai 180 ricercatori dell’Irbm di Pomezia al ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola, al governatore del Lazio Piero Marrazzo e al presidente degli industriali romani, Aurelio Regina. Un grido d’allarme per scongiurare la chiusura dell’Istituto di ricerca di biologia molecolare Angeletti dismesso dalla multinazionale Merck. «Dall’inizio di luglio ci è impedito l’accesso ai laboratori con l’interruzione di ogni attività di ricerca – scrivono i lavoratori – Possiamo solo sperare che entro la fine di settembre si concretizzi un nuovo futuro per l’Irbm, altrimenti . saremo costretti a cercare alternative che non saranno l’Italia».
Il futuro dell’istituto, all’avanguardia mondiale nella ricerca farmaceutica (alcuni premi Nobel hanno già raccolto le firme per scongiurarne la chiusura), dipende dalla costituzione di una holding con a capo la Uir per rilevare e rilanciare l’azienda.




Ergastolani uscivano e andavano a rapinare


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Crediamo che solo in Italia, in questa loro sgangherata Italia, si possa verificare una vicenda come quella accaduta presso Gaeta (Provincia di Latina).
Eccola; secondo quanto ne scrive sul “Corriere della Sera”, Lavinia Di Gianvito:
Due condannati all’ ergastolo per omicidio, in permesso premio; un terzo affidato in prova ai servizi sociali, nonostante la partecipazione allo stesso delitto; un altro già libero, grazie all’ indulto. Insieme a tre complici, sono i componenti di una banda di rapinatori armati fino ai denti, bloccati dopo un assalto a un portavalori vicino a Gaeta. Se stavolta non hanno ucciso nessuno, è solo perché perché i kalashnikov non hanno «bucato» la portiera del furgone. «C’ è stata una collaborazione perfetta tra polizia e carabinieri» sottolinea il capo della Dda, Giancarlo Capaldo. Ma «senza l’ uso dei tabulati e delle intercettazioni telefoniche» aggiunge il magistrato, le indagini «non avrebbero raggiunto questo risultato». Il capo della banda è considerato Luciano Febi, 54 anni. Con il cugino Mario, 53, e con Daniele Piani, 46, nel ‘ 91 ha partecipato all’ assalto a un blindato dell’ Assipol, sulla Roma-L’ Aquila, costato la vita alla guardia giurata Marco Chiari. I Febi sono stati condannati all’ ergastolo, ma già nel 2000 Luciano ha avuto dal tribunale di sorveglianza di Roma i primi permessi premio. Due anni dopo, a settembre, ha ottenuto il lavoro esterno e da marzo 2008 è in semilibertà.




Inchiesta convoglio deragliato. Spunta un consulente


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Una società di intermediazione commerciale con sede a Genova. Un consulente delle Ferrovie che, contemporaneamente, lavora anche nell’interesse del committente e proprietario del convoglio che assicura il trasporto di gpl (la “Gatx” di Vienna). Carri merci di cui oggi si denuncia la vetustà e l’origine estera (la ex Ddr), ma che da cinque anni, in realtà, si muovevano lungo un unico asse all’interno dei nostri confini: la tratta Trecate-Gricignano. E di cui le Ferrovie conoscevano dunque perfettamente provenienza e impiego.
La strage del merci 50325 si svela come una storia cui continuano a mancare tasselli cruciali. Utili oggi a ricostruire le premesse dell’inferno che ha inghiottito otto giorni fa 23 vite innocenti e domani, forse, a definire con maggiore nitidezza la catena delle responsabilità. Una storia, appunto, che ora – come confermano fonti investigative – si arricchisce di nuove circostanze. A cominciare da una società genovese, la Ffi, di cui, alla Gatx di Vienna dicono di “non essere autorizzati a parlare”. Salvo confermare che il suo amministratore, Aldo Bordi, lavora come loro consulente commerciale per l’Italia. Bordi è il professionista che intermedia e consegna alle Ferrovie il contratto con cui l’azienda casertana Aversana Petroli (con sede a Casal di Principe e di proprietà di Luigi Cosentino, padre del Nicola sottosegretario all’economia) si affida alla Gatx e alle stesse Ferrovie per il trasporto settimanale di Gpl da san Martino Trecate (provincia di Novara) a Gricignano di Aversa. Ma Bordi è anche un professionista legato da un contratto di consulenza commerciale con le stesse Ferrovie…

(Carlo Bovini – La Repubblica)




Passa in Tribunale ben sedici anni


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E’ accaduto – e accade – ad un uomo oramai ottantenne che nel 1993, a Milano, si rivolse alla Giustizia perché fosse stabilito con chiarezza il “diritto di passaggio” sotto la sua abitazione.
Il ricorrente chiedeva sapere chi aveva ragion; se lui o il Comune.
Qualche giorno fa, quando pensava che fosse tutto finito, o quasi, si è visto rinviare l’ ultima causa in Appello a Milano: per le conclusioni, cui seguirà la sentenza, l’ appuntamento è per il 25 febbraio 2014…
Quello di questa storia è, suo malgrado, Filippo Marsiglione, che negli anni Sessanta lasciò Catania per fare il restauratore di quadri antichi a Milano. Resistette una ventina d’ anni prima di fuggire dal caos e dallo smog rifugiandosi a Castelmarte, ameno paesino di 1.200 anime a 450 metri di altitudine nelle Prealpi in provincia di Como, dove comprò una casa medioevale adiacente al Comune con un bel portico attraversato tutti i giorni dai compaesani che andavano in Municipio. Quando il viavai gli diventò fastidioso, Marsiglione reclamò il diritto di chiudere il passaggio e si finì in giudizio. Ci vollero sei anni per la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di Como gli diede ragione, ma solo in parte…
Nove anni per una causa fino all’ Appello non sono poi tanti in Italia, se le cose fossero finite lì. Invece parallelamente si innescarono una serie di cause con i protagonisti (Comune, un vicino, Marsiglione) che di volta in volta indossavano vesti diverse, spesso per questioni minime, di puntiglio e ripicca oppure già chiarite.




Mini campi nomadi aumentano a Vicenza


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Da “Il Giornale” di Vicenza, a firma Eugenio Marzotto:
Un mini campo nomadi per ogni ecocentro. È la prima proposta concreta che tenta di risolvere la questione degli accampamenti di Rom e Sinti sparsi nella provincia che hanno suscitato negli ultimi mesi montagne di polemiche e prese di posizione.
È la Chiesa vicentina a rompere gli indugi con appelli e proposte. Il vescovo si rivolge prima di tutto ai nomadi, ma anche alle comunità cristiane, ai Comuni e alle Ulss: «Possiamo tollerare che questi fratelli Rom e Sinti non abbiano condizioni minime per vivere, terra, acqua, dimora e sentirci a posto come cristiani?».
Così, dopo lo sgombero di via Nicolosi, il fossato di Schio e le denunce dell’associazione Opera Nomadi, arrivano appelli e proposte. Don Giovanni Sandonà direttore della Caritas, un’idea ce l’ha per evitare il sovraffollamento dei campi e gravi condizioni igienico sanitarie: «Trasferiamo una o due famiglie negli ecocentri dei Comuni interessati. In questo modo potremmo risolvere una serie di problemi. In quelle aree sono predisposti allacciamenti per l’acqua e sotto servizi, si tratta di zone lontane dai centri abitati ma comunque non isolati, senza contare che spesso gli ecocentri sono gestiti da associazioni o cooperative che potrebbero rapportarsi con le famiglie nomadi. Un accordo ventennale per esempio – prosegue don Sandonà garantirebbe ai Comuni l’integrazione sul territorio e un impiego per i nomadi visto la loro tradizione nel riciclo dei materiali».



E’ tornato a crescere il “lavoro a termine”


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Torna ad aumentare, il lavoro a termine. L’incidenza sul totale dell’ occupazione dipendente, infatti, è arrivata al 12,3%. Un incremento di mezzo punto percentuale rispetto al 2004 (era dell’11,8%), che compensa la riduzione segnata nell’ anno precedente. La crescita del lavoro a termine, diffusa sull’intero territorio nazionale, coinvolge quasi tutti i settori produttivi. Sono i dati diffusi dall’Istat nell’ Annuario statistico italiano 2006.
Complessivamente nel 2005, si assiste a una diminuzione dell’incidenza relativa dei dipendenti con contratto di lavoro standard, ossia a tempo indeterminato e con orario pieno, passata tra il 2004 e il 2005 dal 78,3% al 77,3%. Oltre ai contratti a termine, infatti, è cresciuto anche il part time: la quota dei lavoratori permanenti a tempo parziale, sul totale dei dipendenti, è salita dal 9,9% al 10,4%. Sono 118mila in più, nel 2005, i lavoratori a termine, pari a un incremento del 6, 2% rispetto all’anno precedente. Ma l’aumento dell’occupazione dipendente, registrato lo scorso anno, riguarda anche la componente permanente, cresciuta del 2,1% (229mila unità in più). Nel complesso, gli occupati alle dipendenze segnalano un aumento del 2,6% (+416 mila unità), a fronte di un calo degli indipendenti pari al 4,1% (258mila unità).



Il Parlamento all’epoca delle “impronte digitali”


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Non c’è bisogno di commento e neanche di alcuna “sottolineatura”; leggiamo insieme quello che scrive – crediamo, con amarezza profonda, con sincero disgusto – Francesco Merlo su “La Repubblica”; dice, dei parlamentari, che si tratta di “bestiame politico”. Perché nessuno di loro, infatti, “viene eletto e dunque nessuno ha una propria forza elettorale né un territorio che li esprime, li protegge e al quale devono, già a fine settimana, rendere conto. Gli onorevoli deputati della Repubblica italiana sono nominati dal leader del partito e non scelti dal popolo, sono dunque espressione del capobranco che, ovviamente, non tollera più una mandria euforica, disinibita e incontrollabile; non sopporta più i famosi “pianisti” disobbedienti che una volta erano trasgressori eversivie sorprendenti, con personalità troppo autonome e forti per potere essere ripresi, puniti, o, in via preventiva, appunto marchiati. Certo è difficile immaginare – prosegue Merlo – De Gasperi e Togliatti trasformati in un’ impronta digitale, o in una chip nell’ orecchio come avviene con i buoi che passano il controllo del veterinario comunale. E neppure sarebbe stato possibile quando, in tempi più recenti, i partiti, magari già degenerati, comunque esibivano in Parlamento una miscela vincente di acrobati del pensiero o di nani e ballerine, o di signori delle tessere, o di asceti bolscevichi. Insomma, oggi votare al posto di un altro non è più uno di quei momenti di dialettica politica disordinata ed anarchica che avevano reso la Camera simpatica alla vecchia generazione dei cronisti, trasformando, per esempio, l’ andreottismo in letteratura. Non è certo un bello esempio per il Paese che la democrazia debba essere coercitiva, anche se rimane come consolazione l’ idea che a tutti piacerebbe vivere in un modo senza chiavi dove le porte si aprono non appena riconoscono il padrone. Nell’ epoca in cui tutto è riproducibile, e anche i capolavori possono essere pataccati, l’ impronta digitale è l’ ultimo baluardo dell’ identità e dell’ unicità. Dunque una garanzia. Se non ci fosse questo odore di polizia e questa puzza di delinquente. E se i modelli di riferimento non fossero i parlamenti di Messico, Brasile e Albania, che sono Paesi rispettabilissimi ma di non grande tradizione democratica, abituati alle dittature militarie ai soprusi. Essere costretti ad imitarli è una forma di autodegradazione. Una volta avevamo come modelli gli Stati Generali francesi, la Camera dei Comuni di Churchill, i grandi oratori, le passioni, i primati, le sfide tra leader, la qualità del contributo intellettuale. Oggi il leader è Di Pietro, che si intende di punizioni penali, e vorrebbe rendere il voto all’ impronta obbligatorio per tutti e vincere così la resistenza di un gruppetto di ribelli che per adesso è composto solo da diciannove parlamentari, ma potrebbe crescere perché ce ne sono ancora 111 nel girone degli ignavi, che non hanno cioè risposto alla chiamata. È una contabilità penosa – conclude Francesco Merlo – per un Parlamento che ha già tentato di non pagare il conto al ristorante e che dovrebbe essere abituato a ben altre conte e a ben altri conti. Non sappiano quanti deputati alla fine rifiuteranno di farsi prendere queste malfamate impronte digitali. Pare che la polizia sia già sul chi vive. Pronta a confrontarle con quelle lasciate sui luoghi di tanti delitti impuniti.”.




Dipendenti Senato e pensioni ricche


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Destano scandalo – ma poi tutto si placa e niente cambia – le pensioni “ricche” dei dipendenti del Senato; che sono 598 persone; e per le quali è prevista una spesa, al 2009, di 79milioni e 950mila euro (rispetto ai 69milioni e 150mila euro spesi nel 2007).
Un aumento, dunque, del 15,6 % con pensioni che, in media, ammontano a 133.695 euro.
Di recente, un commesso del Senato, di 52 anni, ha deciso di licenziarsi: avrà 8.000 euro al mese per 15 mensilità ogni anno
Sergio Rizzo ne scrive in modo assai ben documentato sul “corriere della Sera”; leggiamo con l’attenzione che merita:
“Quest’anno, sempre se le previsioni saranno rispettate (ma di solito le stime sono in difetto) la spesa per le sole pensioni «dirette» sfiorerà 80 milioni. Esattamente 79 milioni e 950 mila euro. Cifra che divisa per 598 dipendenti pensionati fa, tenetevi forte, 133.695 euro ciascuno. Vale a dire, quindici volte e mezzo l’importo di una pensione me­dia dell’Inps. Inoltre, detta­glio non trascurabile, le pen­sioni del Senato seguono la dinamica degli stipendi di pa­lazzo Madama. È stata la crescita abnorme di questa voce che ha impedi­to al Senato di rinunciare, co­me invece hanno fatto Came­ra e Quirinale, all’adeguamen­to all’inflazione programma­ta per il prossimo triennio? Chissà. Certamente è vero che l’aumento della spesa per le pensioni dei dipendenti si è mangiato quasi tutte le sfor­biciatine fatte al bilancio di palazzo Madama.
Tanto per fare un esempio, la maggiore spesa previdenziale equivale a più del doppio del rispar­mio sui contributi ai gruppi parlamentari dovuto alla ridu­zione del numero dei partiti presenti in Senato. Ma non è che a Montecito­rio la pressione di chi vuole andare in pensione sia meno forte. Fra il 2007 e il 2009 l’au­mento della spesa della Came­ra per questo capitolo è stato infatti del 14,2%. Quest’anno le pensioni dirette e di rever­sibilità graveranno sul bilan­cio di Montecitorio per 191 milioni, circa 24 milioni in più rispetto al 2007. Quale può essere la molla che ha fatto scattare questa fuga ormai evidente? Forse il timore di un nuovo giro di vi­te particolarmente doloroso, che metterebbe in crisi i privi­legi sopravvissuti a tutti i ten­tativi di riforma? Non è affat­to da escludere.
Al Senato, per esempio, chi è stato as­sunto prima del 1998 può an­cora oggi, nel 2009, andare in pensione a 50 anni di età, sia pure con una penalizzazione del 4,5%…”.




I ritardi costano 177 milioni al giorno


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114 sono i miliardi di spesa prevista nel Piano di infrastrutture previsto dalla Legge – obiettivo. Un anno di ritardo, significherebbe una perdita di 3 miliardi. Questo calcolo – v. Sergio Rizzo, documentatissimo, sul “Corriere della Sera” è contenuto in uno studio sui costi dei ritardi infrastrutturali dell’ Italia elaborato da Giuseppe Russo, docente del Politecnico di Torino, con Michele Belloni e Pier Marco Ferraresi, in collaborazione con il centro studi dell’ Ance, l’ associazione dei costruttori che l’ ha commissionato. Un calcolo complesso, che prende in considerazione l’ impatto totale sull’ economia di un simile investimento, valutabile secondo gli autori in 312 miliardi di euro (compresi gli effetti indiretti e quelli sull’ indotto). Nel solo Nord Ovest, tenendo conto delle opere infrastrutturali programmate fra il 2007 e il 2013 (52 miliardi e mezzo la spesa prevista), lo slittamento di un anno produrrebbe un costo di 17 miliardi. Di analoga entità risulterebbe il peso per l’ economia italiana se il piano Anas 2007-2011 dovesse accusare un anno di ritardo: in questo caso il «vuoto di produzione», come lo definiscono gli autori dello studio, ammonterebbe a 16,7 miliardi fra costi diretti, indiretti e dell’ indotto.