Ritorna Weber


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Con la crisi dello “Stato sociale” e mentre volontariato e filantropia tentano di fronteggiare le devastazioni del capitalismo selvaggio, torna d’attualità – Max Weber. Che noi, per la verità, abbiamo sempre tenuto bene in vista nelle analisi sociologiche sul quale vanno a scrivere anche come di uno tra i pensatori precursori del Fascismo più socialmente impegnato. Partendo da una annotazione di base: tutti i “surrogati privatistici” delle società che una volta erano strutturalmente coese all’insegna del “comunitarismo”, sono, appunto, dei surrogati. Qualcosa che sostituisce quello che una volta c’era, che dovrebbe esserci e che adesso nelle società, non c’è più. E alla “mancanza” e alla gravità delle sue conseguenze che bisogna soprattutto badare; è adesso, in termini di nuove strutture statali ed anzi, al limite, di un “nuovo Stato”, che bisogna provvedere. La beneficenza e la filantropia, riempiono le cronache; ma fanno poca Storia.




Lo studioso degli "stermini"


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Muore in Francia Pierre Vidal-Maquet, all’età di 76 anni, studioso qualificato della Guerra antica e delle sue istituzioni. Più noto, però, e anzi per questo diventato famoso, per le sue “campagne” contro il colonialismo francese in Algeria. A leggere bene Vidal-Maquet, al di là del suo “impegno” politico sinistrorso, ci sono molte riflessioni utili da fare, in termini di approfondimenti interessanti sulle “patologie” delle battaglie politiche del Novecento – dall’affare Dreylus in pio -; un secolo di cui Vidal-Maquet indagò gli “stermini”: un degrado della civiltà che lascia interdetti per la sua ripetitività. Accanto a lui, ricordare su tutto ciò anche le opere di Chabod e di Brandel; e il ricco contributo – diventato poi una Scuola – de “Les Annales”, insieme a quello di Iohan Huizinga.




Anche il lusso, si va "delocalizzando"


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Anche le aziende del lusso spostano la produzione nei paesi emergenti. Ma risparmiano sui costi per investire di più su marketing e comunicazione, non per abbassare i prezzi.

Vetrine allestite splendidamente, confezioni regalo che sembrano opere d’arte: le aziende del lusso hanno sfruttato ogni risorsa per le feste di Natale, un periodo cruciale per il loro giro d’affari. Ma cosa direbbero i clienti se scoprissero che i prodotti dei loro sogni sono stati realizzati lontano da Parigi, Milano o Ginevra? Per esempio nelle fabbriche cinesi, magrebine o dell’Europa dell’est?

La realtà è questa: Valentino fa confezionare gli abiti da uomo in Egitto, mentre Hugo Boss ha scelto la Turchia e ora sta sperimentando la produzione di alcuni capi d’abbigliamento in Asia. Lancel e Longchamp hanno affidato la piccola pelletteria ad alcune imprese nordafricane. Macadam, una delle borse di Celine in tessuto jeans e cuoio, è prodotta in Cina. La lista è senz’altro incompleta, perche il segreto del “chi delocalizza cosa” è gelosamente custodito. Nessun esperto del settore del lusso azzarda cifre sulle dimensioni del fenomeno, ma tutti confermano che la tendenza è reale. Scottate dalla crisi del 2001, che per due anni ha provocato la diminuzione delle vendite, oggi le aziende del lusso s’interrogano sul loro futuro a lungo termine. “In questi ultimi anni”, osserva Nicolas Boulanger, esperto della società di ricerca Eurostaf , “le aziende hanno concentrato investimenti e strategie sulla distribuzione e sulla comunicazione a svantaggio di altre componenti della catena del valore, come la manifattura.

Ma la decisione di delocalizzare non è affatto semplice, perche l’impatto sul marchio può essere negativo”. La diversificazione dell’offerta per attrarre nuovi clienti, l’avanzata della contraffazione, il costo sempre più elevato dell’apertura di punti vendita nei quartieri ricchi: sono tutti elementi che spingono gli imprenditori del lusso a rivedere il loro modello aziendale. E non bisogna dimenticare che per i marchi francesi e italiani una moneta unica forte penalizza un settore che esporta la maggior parte dei prodotti fuori dalla zona dell’euro. Quale sarà allora il futuro della Baccarat, che fabbrica oggetti di cristallo e il cui nuovo azionista di maggioranza, la statunitense Starwood, vuole lanciare articoli fatti con materiali diversi?

Ordine decrescente Le risposte variano da un paese all’altro. In Francia i marchi più prestigiosi si aggrappano con le unghie e con i denti al made in France, che garantisce il prestigio e la qualità dei prodotti. In Italia e negli Stati Uniti la parola delocalizzazione fa meno paura. “Anche gli industriali di questi due paesi proteggono i loro marchi di punta, che però sono disponibili in diverse linee più o meno lussuose”, osserva Joel Benzimra, dello studio di consulenza A.T. Kearney. Un esempio tipico è Giorgio Armani, che propone il suo marchio – in un ordine decrescente di prestigio – attraverso le linee Giorgio Armani, Emporio Armani e Armani Jeans, da molti anni confezionate nell’Europa dell’est. Un altro caso interessante è quello della statunitense Coach.

La maggior parte della sua produzione – borse vendute in media a 500 dollari – è stata delocalizzata in Cina, in India e nella Repubblica Dominicana. “Tuttavia”, sostiene un analista che segue da vicino l’azienda, “Coach non ha abbassato i prezzi e ha negozi sulle strade più belle degli Stati Uniti. Concentra gli investimenti sul marketing e sulla distribuzione, e guadagna rapidamente quote di mercato”. Al punto da far tremare Vuitton: i prodotti del marchio francese hanno molto successo tra i trentenni giapponesi, che però si fanno sempre più sedurre dalla Coach. “È davvero un’eccezione”, aggiunge l’analista, “perche se i clienti sapessero che le borse Coach sono fabbricate nei paesi emergenti, si aspetterebbero dei prezzi più bassi”.

Una prova che la delocalizzazione comincia ad avere i suoi effetti è “la riorganizzazione di alcune case di lusso”, spiega Boulanger. “Nascono nuove figure professionali come i responsabili dell’approvvigionamento e i detective che indagano sulle contraffazioni”. È come se gli industriali si preparassero ad affrontare il futuro, quando i cinesi decideranno di applicare il loro know how all’industria del lusso lanciando nuovi marchi prestigiosi.

Articolo di Le Monde – tradotto da Internazionale




L'allarme ambiente adesso è continuo


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Viviamo in uno stato permenente di allarme ambiente e si può dire che non passa giorno senza che se ne abbiamo le prove. Prendiamo questa “storia delle api”; che, a causa del cambiamento climatico e per colpa dei pesticidi, si sono dimezzate

La gente sa poco delle api, a parte il fatto che se ne tiene alla larga per paura delle punture ma si tratta di “lavoratori eccellenti” perchè, per esempio, per produrre un chilo di miele – leggo nella bella pagina che Antonio Cianciullo dedica al problema su “Repubblica”- un ape deve compiere un tragitto di 150 mila chilometri. E non sono neanche poche, in Italia, le api; ammontano pensate un po, a circa 50 miliardi; e tutte insieme producono 14 mila tonnellate di miele, grazie al lavoro di 7.500 apicoltori professionisti.

Adesso, è tutto una vera e propria devastazione. Vediamone alcuni aspetti: Le stime che si susseguono da alcuni anni in Europa e nell’America del Nord indicano una riduzione che oscilla tra il 20 e il 50 per cento. Il dato viene ricordato nel dossier «Pesticidi nel piatto» che la Legambiente ha presentato citando due sentenze del Consiglio di Stato francese che vietano l’uso di due pesticidi (il Guacho e il Regent) sul mais. Questo verdetto conclude una lunga disputa iniziata nel 1991, quando i fitofarmaci contenenti le molecole neoni-cotinoidi sono stati introdotti in Francia e sono stati osservati i primi effetti negativi.

Per la moria di api dell’anno scorso in Piemonte – si ricorda nel rapporto – il principale accusato è il Tiamethoxam, usato contro la flavescenza dorata sulla vite: tra giugno e luglio 2006, tracce di Thiamethoxan sono state trovate nei campioni di api trovate morte. La molecola è stata dichiarata «non ecotossica», dalla Syngenta, che produce un fitofarmaco che la contiene, ma secondo gli apicoltori piemontesi è «assai pericolosa per l’ambiente». Anche per la senatrice verde Loredana De Petris «se si continua con l’uso di prodotti fortemente tossici avremo presto primavere senza api: in Friuli si segnala un calo del 50 per cento della produzione di miele e una moria di 20 mila api ad alveare. Quest’anno la situazione è particolarmente grave perché, a causa del caldo anticipato, la fioritura stagionale ha coinciso con gli interventi fitosanitari praticati per le semine del mais. Bisogna sospendere immediatamente l’uso di questi prodotti, usati anche per la barbabietola da zucchero, il girasole e il pomodoro, seguendo l’esempio di Parigi».

La minaccia non riguarda solo la possibilità di approvvigionarsi dei 400 grammi annuali di miele che l’italiano medio consuma ogni anno, cioè il sistema gestito dai 7.500 apicoltori professionisti e da un buon numero di hobbisti, ma l’agricoltura nel suo complesso che dipende per un terzo da coltivazioni impollinate grazie al lavoro gratuito delle api. Secondo la Coldiretti, in Italia sono a rischio circa 50 miliardi di api in oltre un milione di alveari. Una strage che mette in pericolo il processo di impollinazione minacciando un budget da due miliardi e mezzo di euro l’ anno. Tra i prodotti a rischio: mele, pere, mandorle, agrumi, pesche, kiwi, ciliegie, albicocche, meloni, zucchine, girasole, colza.




Denuncia: haitiaini lavorano da schiavi


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Da non farsi sfuggire quelle poche notizie che arrivano dalla Repubblica Dominicana, dove a quanto sembra, gli haitiani lavorano in condizioni pesantissime. E non è stato un caso se l’attivista dominicana per i diritti civili Sonia Pierre ha vinto il Premio Roberto Kennedy 2006. Fondatrice del Movimento delle Donne Dominico-Haitiane (MUDHA), Sonia Pierre è cresciuta in un campo per immigranti haitiani, raccoglitori della canna da zucchero, e ha iniziato a lottare per i diritti umani a 13 anni, nel 1976: “Nella Repubblica Dominicana la mia comunità è vittima di violenze e repressione” ha detto ritirando il premio e denunciando che “l’anno scorso sono state espulse arbitrariamente e illegalmente 250mila persone, molte delle quali avevano il diritto di rimanere”.




I "controcorrente" dell'effetto-serra


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Per quanto siano poco numerosi, ci sono anche quelli convinti che il disgelo e l’effetto serra non siano opera dell’uomo, e che il suo “male” in arrivo non sia davvero tale.

Ne scrive ampiamente – convinto della sua tesi – Antonio Gaspari su “Il Domenicale”.

Scrive, fra l’altro: “C’è un’unica industria che gli ecologisti, iettatori e catastrofisti, non vogliono chiudere: quella della paura. È bastato un inverno con temperature superiori alla media per scatenare scenari apocalittici. Le cassandre Verdi urlano: la Terra è rovente, stiamo per entrare nell’anno più caldo del millennio, i ghiacci si scioglieranno, i mari si solleveranno, rischiamo l’invasione di insetti, i campi agricoli diventeranno deserti, fame, carestie e malattie colpiranno l’umanità. E molti sono quelli che si esercitano a prevedere quale sarà l’anno in cui la vita scomparirà definitivamente dalla Terra.

Eppure, se si ha il coraggio e la serenità di guardare la realtà senza subire la propaganda ecologista, è facile constatare che l’inverno mite apporta notevoli benefici alla qualità della vita e al benessere ambientale. Un inverno meno freddo, per esempio, riduce le spese e i consumi di combustibili utilizzati per il riscaldamento delle abitazioni e degli edifici pubblici e privati. In termini economici la riduzione dei consumi sta favorendo il calo del prezzo del greggio sui mercati internazionali. Dal punto di vista ambientale, invece, il minor consumo di combustibili, riduce le emissioni gassose e la produzione di polveri. Sul versante della sanità, i medici sostengono che a causa della clima mite, l’influenza di stagione per questo inverno, è stata messa fuori gioco.

Allo stesso modo non è vero che flora e fauna soffriranno per l’inverno più mite, al contrario ne beneficeranno. Luce e calore favoriscono la vita, freddo e buio la limitano. Con inverni più miti, i volatili appartenenti a specie rare si fermano a svernare in Italia. Anche i trasporti beneficiano dell’inverno mite. Meno neve, ghiaccio e nebbie rendono più sicura la guida degli automezzi e riducono i rischi e il numero di incidenti.

In termini globali, poi, se il riscaldamento proseguirà, si può pensare di aprire la rotta che collega l’Atlantico al Pacifico passando attraverso l’arcipelago artico, il mitico passaggio a Nord Est. In questo caso, i commerci tra New York e Tokio si avvantaggeranno di 7000 chilometri in meno di viaggio, con una enorme riduzione dei consumi di combustibile e nuove opportunità economiche per le coste e i territori attualmente impraticabili a causa delle bassissime temperature: le coste di Alaska, Canada, Russia, Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Islanda e Groenlandia, potrebbero liberarsi in parte dai ghiacci, favorendo la vita e lo sviluppo non solo di attività lavorative, ma anche di una rinnovata e arricchita biodiversità….”




Stipendi astronomici per gli euroburocrati


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In Germania tiene banco sulla stampa un problema che la Merkel si trova di fronte durante il semestre della presidenza Tedesca dell’Unione Europea, presidenza di quella Germania che paga un terzo dei costi dell’UE.

Si tratta dei compensi “astronomici dell’euroburocrazia. Differenza tra i due numero uno: la Merkel ha uno stipendio mensile di 19.000 euro mentre Barroso riceve oltre 28.000 euro. Accade lo stesso agli alti livelli: il vice-Cancelliere Münterfering 16.000 euro mentre i 4 vice di Barroso ne prendono quasi 25.000

Ogni Commissario europeo ha uno stipendio di 22.452 euro, quasi il doppio di F.W. Steinmeier che guida la politica estera tedesca. Il Capo dello Stato tedesco, Koehber ha 18.000 euro, meno del trattamento complessivo di un generale a Bruxelles

I più avvantaggiati dalla generosità di Bruxelles sono i nuovi arrivati. Dal primo gennaio, con l’allargamento a 27, ci sono due nuovi commissari, il romeno Leonard Orban e la bulgara Meglena Kuneva. Il primo si occuperà delle questioni legate alla molteplicità delle lingue dell’Unione, la seconda sorveglierà sulla genuinità dei prodotti alimentari. Per loro l’assegno di 22.452 euro previsto per i commissari è una vera vincita al lotto se si pensa che in Bulgaria lo stipendio medio è di 164 euro e in Romania di 433. L’ingresso in Europa per i due nuovi commissari è come aver messo piede nella terra di Bengodi. Visto il buon trattamento che la Commissione riserva a se stessa, difficile non essere altrettanto magnanimi con i 35mila dipendenti che formano la burocrazia comunitaria. E infatti con gli aumenti strappati prima della presidenza tedesca la remunerazione complessiva di un direttore generale (ce ne sono sessanta) può arrivare a 21.500 euro. Particolarmente generosi gli assegni per i figli, oltre 300 euro, il doppio che in Germania. Per non parlare delle tante agevolazioni tra cui l’esenzione fiscale su alcune voci concessa ai funzionari stranieri, la stragrande maggioranza.




Per 3 italiani su 4; gli OGM "fanno male"


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Nonostante gli sforzi propagandistici delle Multinazionali, cresce il numero degli italiani che considera pericolosi per la salute gli alimenti prodotti con organismi geneticamente modificati (Ogm). Dall’indagine 2006 condotta dall’associazione delle imprese agricole Coldiretti in collaborazione con l’Ispo, infatti, emerge che tre italiani su quattro (74%) sono convinti che i prodotti contenenti Ogm non fanno bene, con un aumento del 4% rispetto allo scorso anno, mentre sette su dieci (71 %) consumano cibi biologici, un dato in crescita del 3% rispetto al 2005. Proprio alla luce del successo dei cibi biologici, la Coldiretti lancia l’allarme: se l’agricoltura biologica fosse contaminata da organismi geneticamente modificati (Ogm) si verificilerebbe un crollo del 60% nei consumi per una crisi di fiducia nei confronti di alimenti scelti e pagati con un differenziale di prezzo proprio perché garantiscono sicurezza e naturalità nel metodo di produzione. Per questo la Coldiretti chiede tolleranza zero per il biotech, soprattutto dopo la proposta della Commissione Europea di introdurre nei prodotti bio una soglia dello 0,9 di contaminazione ammissibile da Ogm.




Lavoratori d'Europa: sempre più stressati


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Ritmi serrati e poche pause caratterizzano sempre di più l’orario di lavoro dei cittadini europei. In quindici anni la quota di dipendenti alle prese con tempi contingentati è cresciuta dell’11%. Uno su dieci dichiara addirittura di non avere tempo sufficiente per portare a termine i propri compiti. Una situazione che pare essere il rovescio della medaglia della diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro nel Vecchio Continente: nel 1995 il i6,5% degli europei lavorava oltre 48 ore a settimana, percentuale scesa oggi al 13%. I dati anticipati dal sito del quotidiano “La Repubblica”, arrivano dall’indagine intitolata “European Working Conditions” svolta da Eurofound (la Fondazione europea che si occupa del miglioramento delle condizioni di lavoro) in 31 Paesi. Scadenze improrogabili e fretta sono il pane quotidiano della giornata per il 46% dei lavoratori europei, una quota che era pari ad appena il 35% nel 1990. La maggior parte dei dipendenti lavora per 40 ore distribuite in cinque giorni a settimana. La flessibilità degli orari è più diffusa nel Nord Europa che al Sud.




Il Coke europeo "ucciso" dai Cinesi


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Il coke? «Se si chiede in giro cos’è, di solito credono che sia una bevanda». Ne sa qualcosa Antonio Barone, presidente e amministratore delegato di Italiana Coke di San Giuseppe di Cairo (Savona), la cokeria più grande d’Europa e una delle ultime quattro sopravvissute alla concorrenza cinese. «Invece è una componente fondamentale nella produzione della ghisa e dell’acciaio, un combustibile capace di cedere carbonio al minerale di ferro nel corso della fusione, per aumentare il suo grado di resistenza», spiega Barone. E visto che la ghisa è materia prima essenziale per tutta la nostra industria automobilistica e metalmeccanica, il coke ha un notevole valore strategico: «Con la ghisa derivata dal coke per fonderia, quello con il contenuto più alto di carbonio, si costruiscono i monoblocchi per i motori delle automobili, i freni della Brembo, tutte le strutture di base delle macchine utensili…». Ma il coke europeo sta morendo. Messo sotto assedio da anni dalle esportazioni cinesi, che ormai superano i 14 milioni di tonnellate l’anno, il mercato europeo soffre di una dipendenza sempre maggiore dal prodotto asiatico: il coke cinese, a fronte di un potere calorico lievemente ridotto, costa molto meno. Tanto che la Commissione Europea ha aperto subito prima di Natale la procedura per studiare l’applicazione di dazi antidumping, mentre gli Stati Uniti hanno già deciso, ai primi di gennaio, di rinnovare per altri cinque anni le misure antidumping contro il coke cinese. «Non dovendo rispettare le normative ambientali sempre più restrittive imposte in Europa, i cinesi riescono a offrire il loro prodotto a un prezzo del 20% inferiore al nostro». Così la produzione cinese copre ormai quasi un terzo del fabbisogno europeo. Ma questa dipendenza comporta un rischio altissimo: quello di rimanere a secco. Com’è successo nel 2004, quando la richiesta interna di coke ha raggiunto il suo picco e le autorità di Pechino hanno fortemente limitato le licenze all’esportazione, aumentandone il costo. L’intervento statale fece lievitare i prezzi dalla sera alla mattina, fino a 400 dollari la tonnellata e causò un taglio radicale all’export, che calò del 70%. «Molte fonderie europee, che si servivano dai cinesi, allora hanno rischiato la chiusura», racconta Barone. ( E. Co, “Affari e Finanza”)