ilprimatonazionale.it - Pino Rauti, un ricordo personale a 12 anni dalla morte


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Roma, 2 nov – Il 2 Novembre del 2012 scompare una delle figure più carismatiche della Destra Europea del ‘900, Pino Rauti.

La filosofia politica
La sua filosofia politica ha riferimenti ben precisi: la tradizione e la socializzazione. Uno dei pochi capaci a far coesistere armonicamente il corporativismo e l’ esaltazione della civiltà occidentale. Lo studio di Evola e Guenon con le teoria dell’alternativa corporativa di Sermonti e di Romualdi. L’amore per le analogie tra Magna Grecia e civiltà celtica.

Uno dei pochi ad avere il coraggio delle proprie idee, tradizionali, ma, calate nella modernità. L’unico, tra i leader conclamati, capace di sospettare del liberalcapitalismo quando la parabola berlusconiana imperversava in ogni dove nel nostro Bel Paese. Fra i pochissimi a definire il concetto di Europa, sia nei suoi libri e sia nella sua creatura splendida, il giornale Linea che dirigeva con fierezza anche nei momenti più difficili.

Pino Rauti, giornalista e politico
Chissà cosa penserebbe oggi Pino Rauti nel vedere sua figlia Isabella sottosegretario. Chissà che gioia e che soddisfazione avrebbe espresso: proprio Isabella che raccoglie l’eredità culturale e ideale di un padre così geniale e così amorevole. Chi scrive ha avuto il privilegio di conoscerlo e di ammirare la sua visone degli scenari futuri: le battaglie contro il dissesto idro-geologico, sui salari di inserimento sociale, sugli aiuti umanitari per evitare le “deportazioni” delle immigrazioni, la bioetica, la tutela del patrimonio culturale e via discorrendo.

Da grande giornalista quale era, aveva il dono della comunicazione e di un approccio aulico a temi complessi quali quello della globalizzazione e dello strapotere delle banche. Temi, tesi congressuali, analisi e comizi che proiettavano chi lo conosceva in una dimensione altra, non solo politica ma anche esistenziale.

La destra moderna
Ha fatto il deputato, il segretario del MSI, del MSI-Fiamma Tricolore, ha pagato per delitti mai commessi nel corso del periodo della strategia della tensione. Ha scelto la via dell’atlantismo quando il pericolo comunista bussava alla porta e da qui la sua intuizione negli anni ottanta della imminente caduta del muro. Spiegando a tutti coloro che hanno delle idee di Destra che il fascismo è solo un giacimento della memoria. Fu accusato da Fini di essere un nostalgico, in realtà aveva delle idee che non si omologavano alla destra liberale e liberista che oggi, fortunatamente, deve fare i conti con una destra europea, moderna, capace di guardare alle sfide delle crisi inenarrabili se si considera il conflitto russo-ucraino e la complessità che ne consegue.

Una sicura interprete della Destra moderna è sicuramente Isabella Rauti che ha respirato la grande politica sin dalla sua nascita. Ricordo che, personalmente, leggevo una rivista da lei diretta, dal titolo “Niente Mimose” dedicata alla figura della donna nella nostra società e nella storia. Dunque, non un vacuo femminismo. Mi piace ricordare Pino Rauti per la sua grandezza culturale, per la sua capacità di comprendere che se un gruppo politico va al governo per quei contenuti che incarna, quei contenuti stessi non dovrà tradire. Mi piace ricordare Pino Rauti per essere stato anti-retorico, pragmatico e visionario, uno studioso, un uomo capace di idea e di azione. Le sue teorie e la sua lezione sono imprescindibili per i giovani di Destra e per chi si trova a governare questo nostro Paese nella tempesta della storia e del presente.

Flavio De Marco

[Fonte: www.ilprimatonazionale.it]




In memoria di Pino Rauti a 12 anni dalla morte





memoria.san.beniculturali.it - Giuseppe (detto Pino) Rauti


1926 – 2012

Giornalista e politico italiano. A 17 anni si arruola come volontario nella Guardia nazionale repubblicana della Repubblica sociale italiana (RSI). Dopo la guerra, aderisce al neonato MSI e contemporaneamente al gruppo clandestino dei Fasci di azione Rivoluzionaria (FAR), il cui ideologo è il filosofo Julius Evola, un’organizzazione di fascisti irriducibili che sfida la neonata Repubblica con attentati dimostrativi (sarà arrestato, processato e assolto, nel 1951, per alcuni attentati dinamitardi compiuti dal gruppo).

Nel 1953 entra come giornalista nella redazione del quotidiano «Il tempo» di Roma. Discepolo di Evola, animatore, con Romualdi, della corrente spiritualista-evoliana nel MSI, nel 1954 dà vita al centro studi Ordine nuovo che si scinde dal partito nel 1956. Alla struttura coperta di questo gruppo sono state ascritte alcune delle principali stragi italiane; Rauti sarà a lungo indagato, poi assolto, sia per la Strage di piazza Fontana, sia per quella di piazza della Loggia.

Rientrato nel MSI nel 1969, Rauti fu eletto per la prima volta deputato nel 1972. Dal 1977, con la corrente Linea Futura, con la svolta movimentista ed ecologista e l’invenzione dei “campi Hobbit”, diventa una figura carismatica di riferimento per i giovani missini. Vicesegretario del partito dalla metà degli anni Ottanta, segretario tra il 1990 e il 1991, nel 1995 lo abbandona per dissensi con la “svolta di Fiuggi” di Gianfranco Fini (con cui il MSI si trasforma in Alleanza nazionale), fondando il Movimento sociale-Fiamma tricolore.

Nel 2005 ha confermato di aver intrattenuto rapporti con i servizi segreti italiani (definendoli «un errore commesso in nome dell’anticomunismo»).

Rauti ammise i suoi rapporti con i servizi nel corso di un dibattito con il giudice Guido Salvini trasmesso su Radio 3, dopo l’assoluzione definitiva al processo di Milano per la Strage di piazza Fontana nel 2005. Lo racconta Luca Telese nell’articolo Addio a Rauti, da piazza Fontana alla Fiamma, sul quotidiano «Pubblico» del 3 novembre 2012.


Informazioni

  • Data di nascita
    19 novembre 1926
  • Luogo di nascita
    Catanzaro
  • Data di morte
    2 novembre 2012
  • Luogo di morte
    Roma

[Fonte: www.memoria.san.beniculturali.it]




liberoquotidiano.it - Monumento ai Martiri delle Foibe a Parabiago: all'inaugurazione Paola Frassinetti, Riccardo De Corato e Chiara Valcepina


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Sabato 21 settembre, l’Amministrazione Comunale del Comune di Parabiago, alla presenza del Sottosegretario all’Istruzione On. Paola Frassinetti, dell’On. Riccardo De Corato, del Consigliere Regionale Chiara Valcepina e di alcuni componenti della Giunta Comunale e del Consiglio Comunale, ha inaugurato il nuovo Monumento ai Martiri delle Foibe e le nuove Panchine Tricolori in Piazzale Martiri delle Foibe, il Monumento è stato installato dall’Amministrazione Comunale e le Panchine sono state generosamente finanziate e realizzate dal gruppo CALL S.R.L su proposta del Consigliere Comunale di Fratelli d’Italia Giuliano Polito e di 12 Associazioni (A.C. “AsseFocale”, A.C. “El Bigatt”, A.C. “Noi sintem Moldova”, A.C. “Parabiago Medievale”, Associazione Nazionale Bersaglieri, Associazione Nazionale Carabinieri, ANVGD, ASI, Centro Studi “Pino Rauti”, Coldiretti, Comitato 10 Febbraio e Fare Verde).

Il Sottosegretario all’Istruzione On. Paola Frassinetti ha dichiarato: “Significativo il Monumento che ricorda i martiri delle foibe a Parabiago: sono segnali, che riaccendono il ricordo di tragedie per troppo tempo dimenticate.”.

L’On. Riccardo De Corato ha aggiunto: “Nella mattinata di sabato 21 settembre, con molta emozione, ho partecipato alla cerimonia di inaugurazione del nuovo Monumento ai Martiri delle Foibe tenutasi nella Città di Parabiago. Sono molto orgoglioso che, nei mesi scorsi, alla Camera dei Deputati, in Commissione Affari Costituzionali di cui sono Vicepresidente, abbiamo votato a larghissima maggioranza il testo base della Proposta di Legge che permetterà di revocare l’onorificenza assegnata dall’Italia al Maresciallo Tito. Mi auguro che la PdL venga approvata rapidamente dall’Aula: sarebbe la prima volta che viene tolta dal Parlamento un’onorificenza a un Capo di Stato, che si è macchiato di sanguinari ed ignobili crimini. Tito è l’artefice, infatti, della morte di migliaia e migliaia di Italiani, morti infoibati, e dell’esodo giuliano–dalmata. Il massacro delle foibe, le cui vittime abbiamo ricordato anche ieri a Parabiago, rappresenta un dramma profondo per la storia recente del nostro Paese.”. Il Consigliere Regionale Chiara Valcepina: “Ringrazio il Comune di Parabiago per aver avuto la sensibilità di ricordare con segni tangibili una tragedia immane come quella delle foibe, per troppo tempo ignorata.”.

Il Consigliere Comunale al Consiglio Comunale del Comune di Parabiago e Dirigente Provinciale di Fratelli d’Italia Giuliano Polito ha concluso: “Siamo felici di avere raggiunto questo risultato tanto importante per onorare al meglio il ricordo dei 350.000 esuli giuliano– dalmati e dei 30.000 martiri delle foibe, costretti all’esilio e alla morte dalla pulizia etnica sistematica della dittatura comunista jugoslava del Maresciallo Josip “Tito” Broz. Desideriamo ringraziare il Sindaco Raffaele Cucchi per avere disposto l’installazione del nuovo Monumento e per avere fatto propria la nostra proposta di ritinteggiare le panchine con i tre colori della bandiera nazionale, le Associazioni e i relativi Presidenti per avere dimostrato tutta la loro sensibilità nei confronti di un tema tanto importante per tutti noi e per avere sottoscritto fin da subito la nostra proposta e, infine, il gruppo CALL S.R.L. e il Presidente Federico Zerbetto per essere stato al nostro fianco anche questa volta.”.

[Fonte: www.liberoquotidiano.it]




ilprimatonazionale.it - "Fascisti contro la democrazia": l'ultima opera dello storico dell’'Anpi e la sua banalità


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Roma, 1 set- Si chiama Fascisti contro la democrazia, l’ultimo libro di Davide Conti presenta al lettore gli esiti scaturiti dall’utilizzazione spregiudicata e pre-orientata delle fonti documentarie. Quale parola imperversa nel nostro tempo, senza flessioni, sulla stampa d’informazione in lingua italiana? Fruite di televisione, radio, internet, socialmedia, siete favorevoli o contrari alla virtualità due punto-questo o all’avatar punto-quello? Non avrete scampo: la parola fascismo vi seppellirà! Non alludiamo a risate anarchiche, di ispirazione bakuniniana. Dal 1995 la minaccia paranoide di un fascismo eterno, Umberto Eco dixit, si traduce in un profluvio di pubblicazioni, al cui confronto neanche la Bibbia può dormire sugli allori dell’inscalfibile primato della notorietà.

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Fascisti contro la democrazia: un parto di uno storico dell’Anpi (e si vede)

In linea di continuità con la poetica di Aristotele del IV secolo a. C., che postula la congruità formale e contenutistica tra la materia trattata e l’espressione scritta, oggi tutt’altro che scontata, evidenziamo l’uscita di un saggio che dispensa al lettore spunti di riflessione. ‹‹Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana (1946-1976)››, uscito per i tipi di Einaudi nella frizzante collana ‟Passaggi” (pp. 329, Euro 19). Lo storico e sodale dell’Anpi Davide Conti, è studioso di parte. In un intervento sull’uso pubblico della storia, ha raddolcito la tragica storia delle Foibe ad una ‹‹jacquerie contadina, una rivolta spontanea›› e ha rievocato gli eventi del luglio 2001, corrispondenti al G8 di Genova, perché segnati da atti di tortura compiuti dalle forze dell’ordine, ‹‹abusi che […] andranno in prescrizione nel corso del tempo››. Nell’arco di oltre trecento pagine, sapientemente ripartite in sette capitoli dipanantesi in rigoroso ordine cronologico, Conti ricostruisce tanto meticolosamente quanto faziosamente la storia della destra italiana dal 1946 al 1976, glossata dall’autore come ricca di ombre e di nessuna luce, avente come unici capofila Giorgio Almirante e Pino Rauti, che hanno ricoperto la carica di segretario del Movimento Sociale Italiano lungo la seconda metà del Novecento.

L’orientamento dato da Conti alla narrazione susciterebbe l’emulazione solerte di qualsivoglia discepolo dello storicismo. Con buona pace dei tentennamenti della storiografia odierna, che annaspa in sentieri interrotti, il libro si apre e si chiude con la stessa, granitica dicitura: ‹‹fascisti contro la democrazia››. Mancano nomi allusivi a quell’Italia ‹‹onesta e per bene›› che i corsivi di Missiroli, Prezzolini e Montanelli lamentavano essere senza cospicua rappresentanza politica. Sono assenti i rimandi alle forze monarchiche e liberali, dal Secondo Dopoguerra agli Anni Settanta del Novecento interlocutrici tra la maggioranza silenziosa e i palazzi del potere. Dimmi come interpreti le fonti e ti dirò quale storico sei: occorre fare il verso a Manzoni per individuare e neutralizzare l’impalcatura ideologica a fondamento del libro.

Dietro un ecumenismo di facciata, consistente nella presentazione di un apparato di note nel quale coesistono rimandi all’archivio dell’Istituto Gramsci e riferimenti alla pubblicistica di destra, dal ‹‹Borghese›› al ‹‹Secolo d’Italia››, la mano dell’autore segmenta dichiarazioni e le ricuce, a suo piacimento, nell’ordito d’insieme. Emblematico, a riguardo, è il profilo di Pino Rauti (1926-2012), noto per le sue aperture a temi ritenuti feudo della sinistra, dal terzomondismo alla cura dell’immaginario giovanile. Dalla penna dell’autore emerge solo l’animus antidemocratico del fu ordinovista. Dell’approvazione rautiana per fenomeni partecipativi che rivalutarono il ruolo della donna, quali i ‹‹Campi Hobbit›› di ispirazione tolkeniana, non v’è traccia. L’autore concentra i suoi strali unicamente sul ‹‹Movimento Sociale Italiano››, declassato ad un partito-lavatrice in grado di fagocitare e ripulire le sporcizie chiamate subordinazione alla CIA e soggezione al Vaticano. Il perdurante atto d’accusa, presentato con l’eleganza della citazione documentaria, tocca il vertice nella ricostruzione del periodo stragista, dal 12 dicembre 1969 con Piazza Fontana al sabotaggio del treno Italicus, datato 4 agosto 1974. Del tutto assente è la rivalutazione del laborioso lavoro parlamentare, svolto ininterrottamente dal MSI-DN (la dicitura che dal 1972 accompagnerà il partito, in seguito all’ingresso dei monarchici) nell’arco cronologico prescelto. Come definire il governo Tambroni, il primo tentativo della storia repubblicana di dare al Belpaese una guida conservatrice e moderata, naufragato nel luglio del 1960 a seguito di violente dimostrazioni di piazza, orchestrate anche dal Partito Comunista? ‹‹La base e la cultura politica missina erano assolutamente estranee alla misura della democrazia costituzionale››, sentenzia Conti.

Egli rincara la dose nel prosieguo. L’azione politico-legislativa partorita dalla ‹‹sputacchiera amica›› della Democrazia Cristiana, non era da attribuire a null’altro se non ad evitare il rischio di scomparire dal Parlamento, con il taglio dei finanziamenti che avrebbe decretato la morte del ‟carrozzone” tricolore. Per la serie: non se ne salva nemmeno uno! Partiamo dal filosofo Julius Evola, mai iscritto al partito e canzonato da Almirante come il ‹‹Marcuse di destra››, ridotto dallo storico di sinistra a un filonazista da operetta, espressione del ‹‹retroterra culturale che affondava le radici nel pensiero reazionario e antimoderno››, per arrivare alla mitigazione di quella condanna unanime e trasversale, espressa con limpida chiarezza da esponenti della sinistra come Bianca Berlinguer e Walter Veltroni, nei confronti di quegli assassini che hanno ucciso barbaramente uomini e donne lontani dalle leve del potere, ma considerati rei di morte in quanto vicini alla ‹‹Destra Nazionale››. Come interpretare il ‹‹Rogo di Primavalle›› dell’aprile 1973, quando Virgilio, di anni 22 e Stefano di 8, i figli del netturbino Mario Mattei, vennero arsi vivi nella loro abitazione, data alle fiamme con taniche di benzina perché il padre era il segretario della sezione rionale del Movimento Sociale? La risposta lascia attoniti: la tragedia di Primavalle fu ‹‹una vicenda che confermava il carattere violento del Msi››.

Un problema interpretativo

A restare inevasa, è la domanda di fondo che dovrebbe essere sottesa allo studio della destra post-bellica. Com’è stato possibile ad un partito, apostrofato come l’ultima ridotta della Repubblica di Salò e tenuto ai margini dell’arco costituzionale per oltre mezzo secolo, arrivare a rappresentare quasi tre milioni di italiani? Cosa spinse migliaia di giovani a rifiutare il miraggio di opportunismi per scommettere il proprio futuro su un partito che non offriva ancoraggi sicuri nei gangli della società civile? Non è antistorico continuare a ricostruire il profilo della destra italiana adoperando le categorie interpretative della sinistra extraparlamentare, risalenti ai defunti anni Settanta del ventesimo secolo? Il furore ragionato all’indirizzo di quanti si radunarono sotto il simbolo della fiamma, rende questo libro l’ennesima occasione mancata per ricostruire, sine ira ac studio, il primo trentennio di storia della destra nella Prima Repubblica.

Marco Leonardi

[Fonte: www.ilprimatonazionale.it]




Il Tempo - Nel nome del Padre


Il Tempo

Il quotidiano indipendente “IL TEMPO” ha festeggiato i suoi ottant’anni di vita (1944 – 2024) con un inserto speciale dedicato.
Ringrazio il Direttore per avermi ospitata in questa occasione, con un ricordo a mia firma, su mio padre Pino Rauti, giornalista del quotidiano fino al 1972.
Un ricordo personale che ne sottende tanti altri di carattere familiare ma anche politico e direi di costume del tempo. Storie belle.
Buona lettura

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Il Tempo – Nel nome del Padre
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ilgiornale.it - Gli "studentelli" fascisti contro Giorgio Almirante


I ragazzi del Fronte della Gioventù rifiutavano il doppiopetto. E stavano dalla parte di Rauti

di Michele Brambilla

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La sede del Movimento Sociale Italiano di Monza era in pieno centro e dalle sue finestre ci si affacciava sull’Arengario. Quella era zona off limits per i compagni, così come a Milano lo era piazza San Babila. I fasci, invece, a Milano era meglio che non si facessero vedere dalle parti della Statale, via Festa del Perdono e dintorni; e a Monza – così come in tutta Italia – nelle scuole, dov’erano in nettissima minoranza.

Ma più che essere una sede del Msi, quella di Monza era una sede del Fdg, il Fronte della Gioventù. I ragazzi della destra. Erano infatti tutti ragazzi quelli che accolsero Ignazio Mormino, l’inviato del Giornale spedito a Monza dal capocronista Egidio Sterpa per cercare di capire come mai lì – a differenza di quanto accadeva nelle grandi città – ci si menasse ancora. C’era stata una zuffa all’uscita del liceo scientifico Frisi, era arrivata la polizia – «agli ordini», scrissero le cronache, «del vicequestore Piero Falbo» – e sei ragazzi di destra erano stati arrestati.

Quando l’inviato del Giornale entrò nella sede del Msi-Fdg (ansimando, perché la sede era all’ultimo piano e di ascensore neanche a parlarne) i sei arrestati non c’erano. Stavano ancora in galera, nel brutto e sporco e vecchio e decrepito carcere di via Mentana. C’erano, ad accogliere Mormino e me, i loro camerati. Si misero in cinque o sei dietro una scrivania, alle spalle della quale era appesa una foto di Almirante.

E qui bisognerebbe spiegare, a chi fosse troppo giovane, di chi stiamo parlando. Giorgio Almirante, nato per caso a Salsomaggiore Terme il 27 giugno 1914 mentre i suoi genitori – attori teatrali – erano in tournée, veniva da un’aristocratica famiglia molisana, tanto che gli antenati vantavano il titolo di Duchi di Cerza Piccola. Del Msi, Almirante era molto più che il segretario. Ne era il leader carismatico: e di un carisma tale da sedurre anche chi non era di destra. «Sembra sempre che abbia ragione lui», mi diceva il padre di un mio compagno di classe, uomo di sinistra. Da giovane Almirante era stato fascista fascistissimo: segretario di redazione della rivista La difesa della razza dal 1938 al 1942, poi capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare, retto da Fernando Mezzasoma, durante la Repubblica Sociale Italiana. Finita la guerra, con gli ex camerati aveva fondato il Msi, nella convinzione che il passato non poteva essere riproposto ma neppure gettato via. «Non rinnegare, non restaurare», fu il motto che volle dare al partito. Quando nel Sessantotto scoppiò la rivolta che sappiamo, Almirante schierò la sua fiamma tricolore contro l’onda rossa che saliva, raccogliendo più voti di quanti fossero i nostalgici dei tempi in cui c’era Lui. Molti italiani vedevano ormai nel Msi un baluardo contro il pericolo comunista e le violenze di piazza; così, alle elezioni politiche del 1972 Almirante portò il partito quasi al 10 per cento, un record.

E tuttavia, quando Mormino del Giornale chiese – indicando la foto di Almirante – se quell’uomo fosse il punto di riferimento, i ragazzi del Fronte della Gioventù scossero il capo. «Teniamo quella foto», dissero, «per disciplina di partito. Ma Almirante per noi è il vecchio. È la difesa del blocco occidentale che ha vinto la guerra, quindi degli Stati Uniti. Di una visione economicista e capitalista della vita. Almirante stesso ha detto di aver scelto la politica del doppiopetto. E noi nel doppiopetto stiamo a disagio».

Cominciarono dunque a spiegarci che c’era stata, nella giovane destra, una svolta. Il nume tutelare era diventato Pino Rauti, ex Ordine Nuovo, parlamentare missino ma della corrente cosiddetta di sinistra del partito, che poi corrispondeva all’estrema destra.

Rauti l’avrei conosciuto molti anni più tardi, nel 1993, quando andai a casa sua, a Roma, per intervistarlo. Abitava in via Stresa e, appena arrivato con il taxi, scoprii con stupore che era esattamente all’angolo con via Fani, quella del rapimento di Aldo Moro. «Guardi, le faccio vedere il punto esatto in cui hanno sparato all’auto di Moro e a quella della scorta», mi disse poco dopo Rauti aprendo la finestra: «È qui sotto». Pensai a quali congetture avrebbero potuto costruire i giornalisti cosiddetti pistaroli, quelli che vedono sempre, «dietro», un complotto. «Visto? Ci sono i fascisti dietro il sequestro Moro», avrebbero detto.

E comunque. Uomo colto e gentilissimo, Rauti mi raccontò di essersi arruolato a diciassette anni nella Guardia Nazionale Repubblicana e di aver traslocato, alla fine della guerra, a Rebibbia o a Regina Coeli, non ricordo bene. Fu in quel periodo di prigionia che, insieme con altri camerati, si accorse di aver combattuto per un’idea della quale conosceva poco o nulla. Risoluto a saperne di più, cominciò così a leggere gli autori della destra rivoluzionaria.

Uno in particolare: Julius Evola. Fascista eterodosso, anche critico nei confronti del regime durante il ventennio, Evola era razzista, antisemita, portatore di una visione a suo dire spirituale e aristocratica. Molto più vicino a Hitler che a Mussolini, esoterista e cultore dei Templari, era circondato da un’aura di mistero. Quando Rauti e gli altri, usciti dal carcere, erano andati a cercarlo, l’avevano trovato su una sedia a rotelle. Evola aveva dunque spiegato loro che il 21 gennaio del 1945, mentre si trovava a Vienna, i sovietici avevano bombardato e lui, anziché correre al rifugio, aveva deciso di avventurarsi in una passeggiata per le vie della città per «non schivare anzi cercare i pericoli, nel senso di un tacito interrogare la sorte». Una specie di sfida agli dèi, insomma, che era finita malissimo perché Evola, sbalzato contro una cancellata dallo spostamento d’aria provocato da una bomba, era rimasto paralizzato agli arti inferiori. Circolava tuttavia la leggenda, negli ambienti dell’estrema destra, che la paralisi di Evola – pur incontestabilmente reale – non risultasse da alcun esame clinico: come si trattasse di un malefizio occulto mandato dall’Alto, o dal Basso.

E insomma. Quel giorno a Monza scoprii che c’era stata una svolta in tutto il neofascismo italiano. I ragazzi avevano cambiato punti di riferimento. Non era più l’estrema destra che alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta si trovava spesso, negli scontri di piazza, a fianco della polizia. Non era più la destra missina schierata a difesa dell’ancien régime. Era una destra che si diceva rivoluzionaria, più Rauti che Almirante, più Salò che ventennio. Una destra che aveva cominciato anche a leggere. Guénon, Jünger, Pound, Ortega y Gasset, Spengler, Céline, Brasillach, Drieu La Rochelle. C’era, in questa svolta, anche un po’ di complesso di inferiorità culturale nei confronti della sinistra, la quale vantava mille intellettuali a sostegno; e leggeva e scriveva e dibatteva fin dai tempi in cui a destra si diceva «ma quale cultura, noi siamo un partito d’azione». Il neofascismo cominciò a interrogarsi, si appropriò anche di Tolkien, inventò i Campi Hobbit. Si convinse che il nemico non era più soltanto il bolscevismo, era ancor di più la democrazia, la Nato, l’America, tutto quello che il Msi aveva in fondo difeso negli anni passati, quelli che vanno dal 1968, la rivolta nelle università, al 1978, il delitto Moro.

Anni dominati, nelle fabbriche e nelle scuole, nelle piazze e nei giornali, nei cinema e nei teatri, nelle case editrici e in tutto il mondo della cultura, dalla sinistra: o meglio da una galassia di tante sinistre diverse fra loro.

[Fonte: www.ilgiornale.it]




ilfoglio.it - L'era fiammeggiante. Dal reducismo al governo, le tre età della destra italiana secondo Tarchi e Carioti


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Un tempo “esuli in patria”, da ormai trent’anni la destra in Italia è al centro della scena, politica e di governo, istituzionale e culturale. Un libro-intervista funambolicamente ritto sulla corda che separa rigoroso metodo scientifico-accademico ed emotiva partecipazione storico-biografica

In un’intervista con Fernando Savater, Emil Cioran confessa “per la verità, ho vissuto intensamente, ma senza mai potermi integrare all’esistenza. La mia marginalità non è fortuita, ma essenziale”. Storia di una marginalità ormai ascesa alla luce del sole è il bel volume “Le tre età della fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni” di Marco Tarchi e Antonio Carioti, edito da Solferino. Un libro-intervista che per densità deve essere riguardato a tutti gli effetti come prosecuzione, per espressa ammissione di Marco Tarchi, di “Cinquant’anni di nostalgia”, volume-intervista di trent’anni precedente nel quale sempre Tarchi e Carioti si interrogavano su quei marginali che con la discesa in campo di Berlusconi iniziavano a sgusciare fuori dalle solide pareti del ghetto dentro cui erano stati reclusi da una pluridecennale conventio ad excludendum.
Marginali o, riprendendo la definizione di Piero Ignazi, “polo escluso” o, con immagine più efficace affidata a un famoso libro di Tarchi del 1995, “esuli in patria”. Da ormai trent’anni la destra in Italia è al centro della scena, politica e di governo, istituzionale e culturale. C’è una notevole produzione accademica che ha interrotto un lungo, gelido silenzio, e che però come non mancano di rimarcare gli autori del volume non sempre ha colmato tutte le lacune. Come, ad esempio, una a oggi mancante investigazione sul ruolo gestionale-amministrativo della destra di governo.
“Le tre età della fiamma” è un viaggio al termine della notte, in cui al disperante Céline si sostituisce una comunità umana che ha perso la guerra o che, per citare alcuni esponenti degli anni di piombo, non ha fatto in tempo a perderla. “Gli anni difficili”, in cui reduci, giovanissimi o anziani, si trovano in una terra per loro ostile, che non li accetta e che sembra strumentalmente tollerarli per motivazioni contingenti, come la minaccia comunista in piena guerra fredda. Le figure principali, da Almirante a Michelini, su fino a Rauti e Fini, per poi approdare alla Meloni, vengono scandagliate nella loro opera di democratizzazione di una formazione politica derivante sì dall’esperienza fascista ma che non ha mai aggregato solo fascisti e che non è stata votata solo da nostalgici, costituendo a tutti gli effetti l’unico polo di massa della destra italiana.
Il volume ha il grande pregio, tra i molti, di rimanere sempre funambolicamente ritto sulla corda che separa rigoroso metodo scientifico-accademico ed emotiva partecipazione storico-biografica. Una dettagliata analisi del neofascismo, del Msi e dei rapporti, sovente conflittuali, di questo con la destra radicale, degli infuocati anni Settanta e dei fermenti della Nuova Destra e dei relativi tentativi metapolitici, spesso fraintesi, altrettanto spesso strumentalizzati, del travagliato approdo al governo in epoca berlusconiana, del lavacro di Fiuggi e del trascolorare da Alleanza Nazionale a Fratelli d’Italia. Molto significative le pagine sulla cultura, e di grande attualità in questa epoca di fervore sulla “egemonia culturale”.
Il libro esce nel cinquantennale della morte di Julius Evola, per il quale già si addensano nuove pubblicazioni, tra cui “Fuoco segreto” (Mediterranee), contenente corposi carteggi con altri autori che, citando la meravigliosa Cristina Campo, potremmo definire “imperdonabili”, come Gottfried Benn, Ernst Jünger, Armin Mohler e che pure hanno punteggiato il pantheon culturale della destra italiana, soprattutto giovanile.
Luciferino per vasta parte della sinistra e oggi infrequentabile per la destra istituzionale, anche Evola viene nel libro debitamente contestualizzato. Come Brasillach, Drieu La Rochelle, Schmitt, Plebe, Fisichella, Scruton, Hazony. Riferimenti eterogenei e che testimoniano l’evoluzione, non sempre pienamente metabolizzata, della destra italiana.
“Le tre età della fiamma” segue e analizza questa parabola intessuta di cambiamenti radicali e snuda i temi che impegneranno negli anni a venire Giorgia Meloni, al vertice di Palazzo Chigi e di via della Scrofa.

[Fonte: www.ilfoglio.it]




Buona Pasqua 2024


Tanti auguri di Buona Pasqua, nella speranza che porti con sé pace e rinascita per tutti.

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secoloditalia.it - Quell’attrazione fatale della destra per Berlinguer, l’avversario che di nascosto dialogava con Almirante


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La destra per Enrico Berlinguer nutre una fatale attrazione. Colpa dei racconti postumi di Massimo Magliaro e della vedova di Almirante, donna Assunta. Sì, perché il capo del Pci si incontrava di nascosto con il capo dei neofascisti e i due parlavano di come mettere fine alla stagione dell’odio che procurava ferite sanguinanti in entrambi gli schieramenti.

Il libro di Padellaro su Almirante e Berlinguer

Frammenti di memoria degli anni Settanta, gesti di leader politici mai abbastanza rimpianti, leader nemici ma che sapevano rispettare l’avversario e che avevano dichiarato guerra ai terroristi rossi e neri. Ne ha scritto di recente Antonio Padellaro nel libro Il gesto di Almirante e Berlinguer“(PaperFirst).

La visita di Meloni alla mostra su Berlinguer

E così la premier Giorgia Meloni si è recata a visitare la mostra sul “nemico” Berlinguer a Testaccio.  Accompagnata da Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds e a lungo parlamentare di sinistra, ha visitato le cinque sezioni tematiche della mostra, fermandosi ad osservare manifesti, fotografie, pubblicazioni e video che ripercorrono la storia del segretario, militante e dirigente del Partito Comunista Italiano. Ha poi lasciato la sua personale dedica sul libro dei visitatori: “Il racconto di una storia, politica. E la politica è l’unica possibile soluzione ai problemi”. Firmato, Giorgia Meloni. In qualche modo, ha replicato lo storico omaggio di Almirante che si recò alla camera ardente di Berlinguer in via delle Botteghe Oscure lasciando tutti di stucco.

Romualdi e l’amnistia di Togliatti

Sugli incontri segreti alla Camera tra Berlinguer e Almirante va ricordato che non era certo prima volta che un fascista e un comunista in segreto si davano la mano e stringevano un patto: era accaduto già con Palmiro Togliatti e Pino Romualdi quando, nel lontano 1946, trattarono l’amnistia per i condannati della Rsi. Il libro di Padellaro non è il solo titolo che rievoca quegli incontri tra Almirante e Berlinguer, i quali si vedevano il venerdì alla Camera, negli anni 1978-79, lontano da occhi indiscreti. Ne scrive anche Adalberto Baldoni nel suo libro “Destra senza veli”.  Almirante e Berlinguer avevano un comune cruccio: che il terrorismo brigatista e quello neofascista potessero imbrattare irrimediabilmente l’immagine dei due partiti, Pci e Msi, e decidono di stringere un patto in difesa delle istituzioni minacciate dalle opposte spinte sovversive.

Berlinguer e il suo invito al dialogo tra i giovani

Enrico Berlinguer -come ha scritto Il Secolo in un ricordo del leader comunista del 2012 -fin dal 1951 incarnava un “comunismo dialogante” come dimostra l’invito rivolto ai giovani del Msi a scrivere sulle colonne del giornale della Fgci Pattuglia. Lo racconta Paolo Buchignani nel suo libro Fascisti rossi dove riporta l’appello ai giovani dello stesso Berlinguer «per la salvezza della Patria»: «Noi esortiamo apertamente i nostri 470.000 giovani ad abbandonare ogni orientamento settario ed esclusivista, ad avvicinarsi, in centinaia di migliaia di dibattiti, a tutti i giovani italiani… Noi non escludiamo nessuno, non c’è ambiente, non c’è scuola, fabbrica o villaggio, non c’è giovane con il quale noi non vogliamo discutere. Sappiamo che anche in quei movimenti che si considerano generalmente nostri avversari vi sono giovani in buona fede, giovani che riflettono con la loro testa, forze sane da risvegliare per l’interesse del Paese».

E Pino Rauti incontrò i giovani del Pci

Ancora, nell’autunno del 1950 Berlinguer impone ai militanti della sezione romana di Monte Sacro di organizzare nella loro sede un incontro con Pino Rauti, che fu anche il primo a rispondere all’invito berlingueriano a scrivere sulla rivista dei giovani comunisti. Un intervento nel quale Rauti si dimostra d’accordo sul giudizio negativo espresso da Botteghe Oscure relativamente alla classe dirigente italiana e alla sua crisi.

Gesti lontani nel tempo e che difficilmente potranno ripetersi oggi in tempi in cui – annotò Pietrangelo Buttafuoco recensendo il succitato libro di Antonio Padellaro – “svaniti i combattenti della guerra civile sono rimasti di sentinella gli spettri dell’odio”.

[Fonte: www.secoloditalia.it]