I ragazzi del Fronte della Gioventù rifiutavano il doppiopetto. E stavano dalla parte di Rauti
di Michele Brambilla
La sede del Movimento Sociale Italiano di Monza era in pieno centro e dalle sue finestre ci si affacciava sull’Arengario. Quella era zona off limits per i compagni, così come a Milano lo era piazza San Babila. I fasci, invece, a Milano era meglio che non si facessero vedere dalle parti della Statale, via Festa del Perdono e dintorni; e a Monza – così come in tutta Italia – nelle scuole, dov’erano in nettissima minoranza.
Ma più che essere una sede del Msi, quella di Monza era una sede del Fdg, il Fronte della Gioventù. I ragazzi della destra. Erano infatti tutti ragazzi quelli che accolsero Ignazio Mormino, l’inviato del Giornale spedito a Monza dal capocronista Egidio Sterpa per cercare di capire come mai lì – a differenza di quanto accadeva nelle grandi città – ci si menasse ancora. C’era stata una zuffa all’uscita del liceo scientifico Frisi, era arrivata la polizia – «agli ordini», scrissero le cronache, «del vicequestore Piero Falbo» – e sei ragazzi di destra erano stati arrestati.
Quando l’inviato del Giornale entrò nella sede del Msi-Fdg (ansimando, perché la sede era all’ultimo piano e di ascensore neanche a parlarne) i sei arrestati non c’erano. Stavano ancora in galera, nel brutto e sporco e vecchio e decrepito carcere di via Mentana. C’erano, ad accogliere Mormino e me, i loro camerati. Si misero in cinque o sei dietro una scrivania, alle spalle della quale era appesa una foto di Almirante.
E qui bisognerebbe spiegare, a chi fosse troppo giovane, di chi stiamo parlando. Giorgio Almirante, nato per caso a Salsomaggiore Terme il 27 giugno 1914 mentre i suoi genitori – attori teatrali – erano in tournée, veniva da un’aristocratica famiglia molisana, tanto che gli antenati vantavano il titolo di Duchi di Cerza Piccola. Del Msi, Almirante era molto più che il segretario. Ne era il leader carismatico: e di un carisma tale da sedurre anche chi non era di destra. «Sembra sempre che abbia ragione lui», mi diceva il padre di un mio compagno di classe, uomo di sinistra. Da giovane Almirante era stato fascista fascistissimo: segretario di redazione della rivista La difesa della razza dal 1938 al 1942, poi capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare, retto da Fernando Mezzasoma, durante la Repubblica Sociale Italiana. Finita la guerra, con gli ex camerati aveva fondato il Msi, nella convinzione che il passato non poteva essere riproposto ma neppure gettato via. «Non rinnegare, non restaurare», fu il motto che volle dare al partito. Quando nel Sessantotto scoppiò la rivolta che sappiamo, Almirante schierò la sua fiamma tricolore contro l’onda rossa che saliva, raccogliendo più voti di quanti fossero i nostalgici dei tempi in cui c’era Lui. Molti italiani vedevano ormai nel Msi un baluardo contro il pericolo comunista e le violenze di piazza; così, alle elezioni politiche del 1972 Almirante portò il partito quasi al 10 per cento, un record.
E tuttavia, quando Mormino del Giornale chiese – indicando la foto di Almirante – se quell’uomo fosse il punto di riferimento, i ragazzi del Fronte della Gioventù scossero il capo. «Teniamo quella foto», dissero, «per disciplina di partito. Ma Almirante per noi è il vecchio. È la difesa del blocco occidentale che ha vinto la guerra, quindi degli Stati Uniti. Di una visione economicista e capitalista della vita. Almirante stesso ha detto di aver scelto la politica del doppiopetto. E noi nel doppiopetto stiamo a disagio».
Cominciarono dunque a spiegarci che c’era stata, nella giovane destra, una svolta. Il nume tutelare era diventato Pino Rauti, ex Ordine Nuovo, parlamentare missino ma della corrente cosiddetta di sinistra del partito, che poi corrispondeva all’estrema destra.
Rauti l’avrei conosciuto molti anni più tardi, nel 1993, quando andai a casa sua, a Roma, per intervistarlo. Abitava in via Stresa e, appena arrivato con il taxi, scoprii con stupore che era esattamente all’angolo con via Fani, quella del rapimento di Aldo Moro. «Guardi, le faccio vedere il punto esatto in cui hanno sparato all’auto di Moro e a quella della scorta», mi disse poco dopo Rauti aprendo la finestra: «È qui sotto». Pensai a quali congetture avrebbero potuto costruire i giornalisti cosiddetti pistaroli, quelli che vedono sempre, «dietro», un complotto. «Visto? Ci sono i fascisti dietro il sequestro Moro», avrebbero detto.
E comunque. Uomo colto e gentilissimo, Rauti mi raccontò di essersi arruolato a diciassette anni nella Guardia Nazionale Repubblicana e di aver traslocato, alla fine della guerra, a Rebibbia o a Regina Coeli, non ricordo bene. Fu in quel periodo di prigionia che, insieme con altri camerati, si accorse di aver combattuto per un’idea della quale conosceva poco o nulla. Risoluto a saperne di più, cominciò così a leggere gli autori della destra rivoluzionaria.
Uno in particolare: Julius Evola. Fascista eterodosso, anche critico nei confronti del regime durante il ventennio, Evola era razzista, antisemita, portatore di una visione a suo dire spirituale e aristocratica. Molto più vicino a Hitler che a Mussolini, esoterista e cultore dei Templari, era circondato da un’aura di mistero. Quando Rauti e gli altri, usciti dal carcere, erano andati a cercarlo, l’avevano trovato su una sedia a rotelle. Evola aveva dunque spiegato loro che il 21 gennaio del 1945, mentre si trovava a Vienna, i sovietici avevano bombardato e lui, anziché correre al rifugio, aveva deciso di avventurarsi in una passeggiata per le vie della città per «non schivare anzi cercare i pericoli, nel senso di un tacito interrogare la sorte». Una specie di sfida agli dèi, insomma, che era finita malissimo perché Evola, sbalzato contro una cancellata dallo spostamento d’aria provocato da una bomba, era rimasto paralizzato agli arti inferiori. Circolava tuttavia la leggenda, negli ambienti dell’estrema destra, che la paralisi di Evola – pur incontestabilmente reale – non risultasse da alcun esame clinico: come si trattasse di un malefizio occulto mandato dall’Alto, o dal Basso.
E insomma. Quel giorno a Monza scoprii che c’era stata una svolta in tutto il neofascismo italiano. I ragazzi avevano cambiato punti di riferimento. Non era più l’estrema destra che alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta si trovava spesso, negli scontri di piazza, a fianco della polizia. Non era più la destra missina schierata a difesa dell’ancien régime. Era una destra che si diceva rivoluzionaria, più Rauti che Almirante, più Salò che ventennio. Una destra che aveva cominciato anche a leggere. Guénon, Jünger, Pound, Ortega y Gasset, Spengler, Céline, Brasillach, Drieu La Rochelle. C’era, in questa svolta, anche un po’ di complesso di inferiorità culturale nei confronti della sinistra, la quale vantava mille intellettuali a sostegno; e leggeva e scriveva e dibatteva fin dai tempi in cui a destra si diceva «ma quale cultura, noi siamo un partito d’azione». Il neofascismo cominciò a interrogarsi, si appropriò anche di Tolkien, inventò i Campi Hobbit. Si convinse che il nemico non era più soltanto il bolscevismo, era ancor di più la democrazia, la Nato, l’America, tutto quello che il Msi aveva in fondo difeso negli anni passati, quelli che vanno dal 1968, la rivolta nelle università, al 1978, il delitto Moro.
Anni dominati, nelle fabbriche e nelle scuole, nelle piazze e nei giornali, nei cinema e nei teatri, nelle case editrici e in tutto il mondo della cultura, dalla sinistra: o meglio da una galassia di tante sinistre diverse fra loro.
[Fonte: www.ilgiornale.it]