Calabria "di fuoco"


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In una intera pagina de “Il Sole- 24 Ore” dedicata alla Biennale Cinema di Venezia, Camilla Baresani “denuncia” quello che per lei – a tanti altri è apparso come il “pesce elastico” della laguna sulla pur rinomata (e costosa) Taverna dell’Excelsior al Lido dove – se non ci fossero altri motivi per andarci- per quello che riguarda il cibo “ci sarebbe da disperarsi; per il “buffet abbastanza respingente” Ce giù un elenco che fa rabbrividire. Va meglio con la cucina di “Mare” a Pellestrina, dove si salvano almeno gli antipasti ma il resto del menù “ha una cottura eccessiva” e l’insieme è comunque “deludente”. E allora ci appare un po come un approdo felice il piccolo panorama calabrese che ci spalanca il nostro sempre bravo Davide Paolini nell’articolo intitolato “I tesori di Calabria sono piccanti” che quì ci permettiamo di riprendere per la nostra rubrica. Anche perchè sfata un luogo comune che riguarda cucina e alimentazioni calabresi; che non sono soltanto “nduja” ma anche altri prodotti baciati dal peperoncino: caviale Crucoli, soppressata e salciccia.

Scrive dunque Paolini: I tesori di Calabria non sono i bronzi di Riace, parola di gastronauta. Se infatti t valida la tesi che un territorio si conosce non attraverso i musei, ma per mezzo de mercati, ecco quindi balzare evidente una realtà fatta di formaggi, salumi, pesce, ortaggi frutta, vino, olio. Non solo di peperoncino sebbene la sua importanza, soprattuttc nell’invadere, quale conservante, larga parte della gastronomia, calabra sia evidente. «Quando un calabrese chiede il peperoncino e lo versa religiosamente e in maniera sacrale su tutte le pietanze—scrive l’antropologo Vito Teti—non compie solo un atto alimentare: egli sta parlando della storia e della cultura della sua regione; narra di antiche privazioni e di recenti conquiste, di una fame antica e di tradizionali utopie alimentari, di desideri di abbondanza». Ebbene, il peperoncino (che contiene un vasodilatatore chiamato capsicina) è protagonista di un salume davvero originale, duttile come pochi: ‘nduja, termine che potrebbe discendere dalla salsiccia francese “an-douille”, preparata con le interiora del maiale, fegato, polmone, trippe bollite insieme a erbe e a piante aromatiche. Questa versione è suffragata dal fatto che Gioacchino Murat, vie ore di Napoli, nonché cognato di Napoleone, ordinasse la distribuzione gratuita di un salame di questo tipo per ingraziarsi i poveri. Altra interpretazione fa discendere la ‘nduja dagli spagnoli nel ‘500. La ‘nduja (da non confondete con la cugina ‘nduglia: salsiccia di fegato e di polmone e di parti grasse prodotta in alcuni territori della Calabria e della Basilicata) è un salume che si produce con parti magre e grasse del maiale, un tempo avanzate dalla lavorazione del maiale, fegato e polmoni. Dopo averla macinata, vengono aggiunti sale, semi di finocchio, pepe nero, ma soprattutto il pipereju, un peperoncino tipico di Spilinga, la capitale di questo salume, ricca solo di micro artigiani, quali Vittoria Lazzaro, Luigi Caccamo. L’aspetto bizzarro è che un tempo l’amalgama degli ingredienti veniva esperito solo da uomini (l’usanza ancestrale vietava addirittura alle donne mestruate di partecipare alla lavorazione). Quindi l’impasto viene insaccato in un budello cieco (detto orba). Dopo qualche giorno, il salume viene esposto al calore e al fumo di essenze legnose aromatiche per circa due settimane. Poi si passa alla stagionatura che dura intorno ai cinque mesi. Il risultato finale è un prodotto morbido, spalmabile sui crostini, nonché tremendamente duttile in cucina. Può venir usato per condire la pasta, abbinato con il tonno, altro giacimento del territorio di Pizzo Calabro (dove un tempo erano in funzione ben quattro tonnare, oggi sede di importanti aziende quali Callipo e Sarda-nelli), oppure con carni, quali l’agnello. Locali come l’Approdo di Vibo Marina e la Locanda di Alia di Castrovillari sono maestri nella creazione di pietanze con il ricorso al giacimento di Spilinga. La sorpresa forse più macroscopica è comunque un accostamento realizzato da un giovane pasticciere Giuseppe Mandaradoni: cioccolato e ‘nduja che danno vita agli ‘ndujotti. Non solo ‘nduja, nonostante sia il prodotto più intrigante, ma sempre baciati dal peperoncino: il caviale di Crucoli (ro-samarina), la soppressata e la salsiccia, quindi il capocollo, il caciocavallo silano, il canestraio crotonese, lo straordinario pomodoro di Belmonte, la cipolla di Tropea, i fichi secchi di Amantea e dintorni. Insomma uno scrigno di tesori, sì del gusto. Sine qua non. Davide Paolini

a cura di Pino Rauti