Cambiano – e in peggio – le cose in medio oriente

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Israeliani a Gaza…I titoli dei giornali e i servizi sulle TV danno tutti l’impressione che si tratti dell’ennesimo atto del solito conflitto; in corso da decenni. E invece ci sono novità radicali, sulla situazione; che è ormai cambiata; sta cambiando; in peggio. Fa riflettere, in merito, un lungo e lucido editoriale di Angelo Panebianco, sul “Corriere della Sera”, che vorremmo riprodurre per intero se lo spazio ce lo consentisse; e che in sintesi è un argomentato “appello” a non leggere il conflitto di oggi “alla luce degli schemi mentali di ieri”, che furono posti per decenni “con gli schemi della guerra fredda”: un conflitto che faceva parte “pur con le sue peculiarità, del confronto politico e militare fra mondo occidentale e mondo sovietico…”, dove Israele “era un avanposto dell’imperialismo americano…”. Alla “leggera” “l’attuale scontro a Gaza – prosegue Angelo Panebianco – con le categorie del passato” avviene “al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un “cambiamento qualitativo del conflitto israeliano palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere”. C’è in primo luogo l’irruzione della religione, e più precisamente dell’islam politico, nel conflitto. Certo, il conflitto israeliano-palestinese continua ad essere anche ciò che è sempre stato: uno scontro tra due popoli per il dominio territoriale. Ma da tempo non è più soltanto questo. Il rafforzamento di movimenti come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano ha cambiato radicalmente il quadro. Come il fatto che quei movimenti siano interni a una galassia islamista che, in ogni angolo del mondo, si riconosce nelle stesse parole d’ordine e afferma la propria identità contro gli stessi nemici (i musulmani moderati, l’Occidente corrotto e materialista, l’entità sionista, gli infedeli, a qualunque credo appartengano).«Non si può dunque pensare a soluzioni del conflitto nei vecchi modi».«Pace contro territori» è un compromesso realistico (anche se, ovviamente, difficile da imporre agli estremisti delle due parti) se i principali attori in gioco hanno scopi esclusivamente politici. Ma diventa assai più arduo se per una delle parti in gioco (nel caso specifico, Hamas e, dietro Hamas, l’intera galassia dell’estremismo islamico mondiale) rinunciare alla distruzione di Israele significherebbe violare un tabù religioso, peccare di blasfemia. Il secondo fatto nuovo, che cambia la natura del conflitto, è dato dallo scontro per l’egemonia fra l’Islam sciita guidato dall’Iran e quello sunnita. Non è un caso che, nella vicenda di Gaza, i governi arabi sunniti si siano fin qui mossi con prudenza. Nella speranza, non dichiarata, che Israele riesca a ridimensionare Hamas (gruppo sunnita ma legato all’Iran). E non è un caso, come mostra l’assenza di sommovimenti anti-israeliani in Cisgiordania, che anche Fatah, il movimento oggi guidato da Abu Mazen, speri nel ridimensionamento degli odiati «nemici-fratelli» di Hamas. Nulla di tutto ciò si spiegherebbe se i due fatti citati (l’irruzione dell’islam politico e il ruolo dell’Iran) non avessero cambiato i termini del conflitto…Ma la rimozione incombe. «Sorprende ad esempio, scorrere un recente intervento sul conflitto a Gaza, apparso su Repubblica, dell’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema, uomo informato dei fatti, e constatare che né la parola Iran né la parola jihad vi trovino posto. E’ come se per D’Alema nulla di sostanziale fosse cambiato nel corso degli anni: quello israeliano-palestinese viene ancora interpretato come uno scontro fra uno Stato e un movimento irredentista, un conflitto, vecchio di mezzo secolo, per il dominio territoriale in Palestina. Se non che, il conflitto israeliano-palestinese è questo ma non è più soltanto questo…».

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