Emergenza agroalimentare secondo “Civiltà Cattolica”

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Scrive il gesuita Luciano Lacrivera su “Civiltà Cattolica”:

Secondo la Fao (Food and Agriculture Organization) nei primi quattro mesi del 2008 l’indice dei prezzi di 53 tipologie di derrate agroalimentari è aumentato del 54% rispetto allo stesso periodo del 2007. Qui presentiamo questa emergenza e le sue cause. In un successivo intervento illustreremo le risposte suggerite dagli esperti per un new deal agro-alimentare, e le nuove prospettive politiche scaturite in occasione della recente Conferenza di Alto Livello sulla Sicurezza Alimentare promossa dalla Fao (Roma, 3-5 giugno).

Le dimensioni della crisi
Dal marzo 2007 al marzo 2008 la crescita dei prezzi è stata esponenziale: grano +130%; soia +87%; mais +31%; riso +74% (con punte però del 141% per i Paesi importatori). Si tratta di una media dei prezzi sulle principali borse mondiali che trattano derrate alimentari per acquirenti nazionali o internazionali. Ma soltanto il 17% del grano prodotto è esportato, il 12,5% del mais, il 7% del riso. E non tutto viene venduto in borsa. L’aumento di questi prezzi si è in parte trasmesso sui mercati nazionali e locali, con una intensità diversa a seconda degli accorgimenti adottati dalle singole amministrazioni pubbliche. Ma quando il riso, cioè l’alimento base per tre miliardi di persone, aumenta «soltanto» del 10-20% annuo sul mercato interno di un Paese in via di sviluppo, una famiglia molto povera soffre di conseguenze dirompenti.

Sui mercati locali sono inoltre aumentati molti altri alimenti di base, come i legumi, ad esempio le lenticchie in India e i pomo-dori, anche in Italia. Non così è stato per lo zucchero. Ma l’aumento dei prezzi è atteso per il cotone e, quindi, per l’abbigliamento; a quel punto crescerà la domanda di prodotti tessili sintetici meno costosi, ma ciò produrrà un’ulteriore tensione sui prezzi del petrolio, che sta puntando a 140 dollari al barile. Anche i prezzi di latte, latticini, uova e carne sono saliti, soprattutto perché è cresciuto il costo dei mangimi: un terzo dei cereali prodotti è destinato agli allevamenti. Nei mesi di aprile e maggio i prezzi dei cereali erano in discesa per l’attesa di buoni raccolti, però quello del riso ha avuto un’impennata a causa del ciclone Nargis del 2 e 3 maggio, che ha sconvolto il Myanmar. Ora questo Paese, da esportatore è diventato, per la devastazione delle sue terre, un importatore netto di riso. Soltanto gli aiuti alimentari internazionali potranno alleviare la fame di circa due milioni di birmani colpiti dal ciclone. Si prevede che i prezzi agricoli si assestino, nei prossimi mesi, su livelli più alti del 2006, ma più bassi dei picchi raggiunti dal settembre scorso al marzo di quest’anno. Tale situazione riguarderà soprattutto il grano, perché quest’anno è aumentata la capacità produttiva in Europa, Russia e Ucraina. In ogni caso, secondo uno studio congiunto di Fao e Ocse, fino almeno al 2017 i prezzi alimentari saranno decisamente più alti del decennio precedente, se non ci saranno cambiamenti significativi nelle politiche nazionali e internazionali.

La crisi ha coinvolto in modo molto serio una sessantina di Stati, molti dei quali non erano, in genere, colpiti da carestie. Tutto ciò ha provocato rivolte popolari in 33 Paesi, anche molto sanguinose, con il rischio di ulteriori crisi a cascata. Ad Haiti, ad esempio, si è dovuto dimettere il primo ministro. Dopo i sostegni internazionali, ora 22 Paesi (18 in Africa) hanno urgente bisogno di aiuti alimentari supplementari per l’impennata dei prezzi dei cereali e degli idrocarburi, di cui sono importatori netti. Nei Paesi poveri, il 50-80% del reddito è destinato alla nutrizione, in Europa il 15-18% e negli Stati Uniti il 10-14%. Per due miliardi di persone che vivono con meno di due dollari al giorno la «dieta forzata» è sempre più povera: il numero e la quantità dei pasti hanno iniziato a ridursi, la carne e i legumi vengono consumati sempre di meno, inoltre sono intaccate le spese scolastiche, abitative e sanitarie per i bambini. Anche in Europa, secondo la Coldiretti, per 74 milioni di cittadini che già vivono sotto la soglia di povertà la spesa alimentare sarà insostenibile: lo stesso avviene anche in Giappone e negli Stati Uniti. Inoltre si stanno esaurendo le scorte dei «banchi alimentari» europei, organizzazioni senza scopo di lucro che raccolgono in donazione surplus di produzione alimentare e l’invenduto in scadenza della grande distribuzione per donarli ad altri enti di volontariato assistenziale. Negli ultimi 30 anni di prezzi agricoli erano sempre scesi e, in termini reali, sono ancora inferiori a quelli del 1965. Ma adesso sembra finita l’era del cibo a buon mercato. La Fao da anni lanciava l’allarme sui cambiamenti strutturali nel sistema agro-alimentare, però non sono stati adottati provvedimenti adeguati in anticipo. Tuttavia dal 1990 alla metà di questo decennio il numero delle persone malnutrite è diminuito di 278 milioni. Attualmente sarebbero ancora 862 milioni, ma questo numero difficilmente sarà ridotto a 400 entro il 2015, come prevede il primo degli Obiettivi del Millennio fissati dall’Onu. Ancora oggi la fame è causa di morte per 3,5 milioni di bambini l’anno (dei quali due milioni in India). Inoltre, secondo la Banca Mondiale, che a fine maggio ha stanziato 1,2 miliardi di dollari per l’assistenza alimentare, 100 milioni di persone in più quest’anno rispetto al precedente hanno gravi carenze nell’alimentazione a causa dell’impennata dei prezzi agricoli. Al riguardo, l’ex-rela-tore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, Jean Ziegler, ha parlato di «un silenzioso omicidio di massa». Il Programma Alimentare Mondiale, l’ente dell’Onu che gestisce gli interventi di urgenza contro la fame, ha parlato di «tsunami silenzioso» e ha ottenuto 755 milioni di dollari (500 dall’Arabia Saudita) in ulteriori donazioni ner fare fronte all’emergenza immediata.

Per comprendere le cause di questa emergenze, in primo luogo occorre riconoscere i fattori strutturali di medio-lungo periodo, sia sul lato della domanda sia su quello dell’offerta, che fanno prevedere prezzi molto elevati per altri due anni. Non ci potranno essere radicali aumenti della produzione agroalimentare e, quindi, un calo significativo dei prezzi entro il 2015, perché, se verranno adottate nuove politiche strutturali, esse richiederanno tempo per produrre effetti. Benché, secondo la Fao, la produzione di grano e riso aumenterà nel 2009-10, essa non potrà fronteggiare la crescente domanda poiché una parte della maggiore produzione andrà a ricostituire le scorte. A ciò si aggiungono, in secondo luogo, fattori contingenti di breve periodo, come la svalutazione del dollaro o gli eventi climatici, che potrebbero durare o ripresentarsi ancora. Queste cause di breve termine hanno prodotto non soltanto l’inflazione alimentare, ma anche la volatilità dei prezzi delle derrate nelle borse che trattano tali beni.Sul lato dell’aumento della domanda, il fenomeno strutturale più rilevante, mai visto nella storia del pianeta, è la crescita demografica. La popolazione mondiale aumenterà di un miliardo entro il 2030 rispetto gli attuali 6,6. Nel 2050, secondo l’Onu, ci saranno 9,1 miliardi di individui, ed entro quella data dovrà raddoppiare la produzione agricola attuale perché nessuno soffra la fame. Il secondo fattore strutturale è la crescita economica dei Paesi prima in via di sviluppo, soprattutto Cina e India, ma anche Brasile, Vietnam e Turchia, con l’accresciuto potere di acquisto di un nuovo ceto medio (ad esempio, in India oggi 200 milioni di persone sono classificate come classe media o alta; saranno 500 milioni entro il 2020). Quelle popolazioni mangiano di più, molti hanno raggiunto i tre pasti al giorno e consumano più carne, latte e prodotti caseari. E ciò ha imDal 2005 è iniziato lentamente ma costantemente il trend ascendente dei prezzi del petrolio, dei minerali e delle derrate alimentari in correlazione inversa alla svalutazione del dollaro, accentuatasi nel 2007-08, nei confronti delle valute dei grandi Paesi esportatori. Inoltre l’impennata dei prezzi agricoli e dei prodotti energetici, questi triplicati dal 2003, acuisce la crisi ambientale perché incentiva la deforestazione per aumentare la produzione di cibo e di biocombustibili. Negli ultimi sei anni la produzione degli alimenti di base è cresciuta meno della domanda. Per far fronte ai maggiori consumi interni e per l’export è stata utilizzata una buona parte delle scorte, che ora sono al minimo. Inoltre diversi Paesi avevano ridotto le loro riserve strategiche di cereali, perché, in caso di crisi produttiva nazionale, potevano contare sull’importazione di derrate alimentari. Questo è avvenuto soprattutto per i Paesi che hanno scelto di specializzarsi in alcune colture da esportazione (ad esempio, il Senegal con le arachidi, il Kenya con i fiori, altri con il cotone) senza prima vincolare la produzione di una parte dei terreni agricoli al fabbisogno alimentare interno: in questo consiste la «sicurezza alimentare nazionale». Così facendo, si sostiene la bilancia commerciale con l’estero, ripagando una parte del debito estero, si accresce il Prodotto interno lordo e si migliorano i conti pubblici, sperando che avanzino risorse per investimenti interni allo sviluppo.

I problemi dell’offerta
Sul lato dell’offerta si è verificata una riduzione della produttività per molti fattori: scarsi raccolti negli ultimi anni in alcune regioni chiave, come l’Australia — dopo tre anni di siccità l’esportazione australiana di grano è scesa del 60% —, il Canada, l’Ucraina e l’Europa; pochi investimenti in attrezzature moderne, in nuovi semi, in infrastrutture, in ricerca e sviluppo nei Paesi poveri ed emergenti; il calo della produzione per fenomeni climatici in diversi Paesi (siccità, alluvioni, nuovo andamento delle piogge mon-soniche); i conflitti armati, che, ad esempio, favoriscono la coltivazione di droga oppure impediscono lo sviluppo agrario (in Somalia, dopo la siccità, la guerra civile e l’aumento dei prezzi alimentari, la fame colpisce 2,6 milioni di abitanti); la riduzione dei terreni a uso agricolo, perché sono stati erosi dalla desertificazione, dall’inquinamento e dall’allargamento degli insediamenti urbani (la Cina, ad esempio, ogni anno perde il 2% dei suoi terreni agricoli; e nel 2030, con una popolazione di 1,5 miliardi di persone, ci sarà il 25% in meno di aree coltivabili); la crescente urbanizzazione ha ridotto la popolazione rurale dedita all’agricoltura; alcune nuove malattie hanno colpito allevamenti di suini, bovini, pollame e pesci in itticulture, e anche alcune coltivazioni: la globalizzazione rende più facile la trasmissione di queste malattie, la modifica genetica dei loro ceppi e la loro maggiore resistenza alle medicine.Si aggiungono anche cause finanziarie legate alla globalizzazione. Prevedendo, in base a questi fattori sul lato della domanda e dell’offerta, che i prezzi delle derrate alimentari sarebbe cresciuti stabilmente, nelle borse è aumentata la domanda di prodotti finanziari «derivati» chiamati futures. Ma, alla scadenza, il diritto di acquisto dei beni alimentari rappresentati è stato esercitato soltanto per una minima parte dei futures in circolazione. Questo indica che nelle borse agricole prevale la speculazione e non l’acquisto da parte di imprese di commercializzazione o trasformazione delle derrate alimentari, le quali inventarono [futures per garantirsi un quantitativo di beni a una data e a un prezzo certi predefiniti contrattualmente, senza esporsi a impennate delle quotazioni. I grandi capitali finanziari hanno rivolto la propria attenzione alle borse agricole per tre motivi: garantirsi dal rischio di inflazione (ad esempio, gli investimenti in titoli di Stato non copriranno l’attuale crescita dell’inflazione mondiale); mancanza di investimenti alternativi, vista la forte incertezza per l’esplosione della bolla dei mutui subprime statunitensi; pura speculazione di azzardo di brevissimo periodo, sfruttando la volatilità dei prezzi a ogni minima notizia positiva o negativa sull’andamento della produzione o della domanda o delle scorte alimentari. Purtroppo, la stessa speculazione ha stimolato ulteriore speculazione sui mercati borsistici e un impatto (ma pure il panico) a livello locale. Nei piccoli mercati interni ci sono stati anche accaparramenti da parte dei privati consumatori per avere scorte per la famiglia. Così l’offerta per consumi immediati, su questi mercati locali, è cresciuta meno del potenziale, e i prezzi sono saliti. L’aumento delle quotazioni dei futures è stato incluso nei prezzi spot, cioè nei prezzi per l’acquisto immediato; infatti chi decide di cedere ora un bene il cui prezzo può salire lo vende a un prezzo maggiorato per coprire il mancato guadagno potenziale per non averne rimandato la vendita. Come conseguenza opposta, alcuni operatori hanno rinviato la vendita delle loro derrate agricole sperando di ottenere prezzi migliori per vendite posticipate.

Un altro fattore contingente è l’alto prezzo del petrolio. Ma, a meno che il dollaro non interrompa la sua svalutazione, i prezzi probabilmente arriveranno anche oltre 200 dollari al barile, perché l’economia mondiale nel 2030 potrebbe richiedere 125 milioni di barili al giorno, mentre la produzione corrente è di circa 80 milioni. Molti fertilizzanti, pesticidi, materiali per imballaggio, che sono derivati dal petrolio, ne hanno incorporato gli aumenti. Anche l’impiego dei macchinari agricoli, la conservazione e i trasporti delle derrate sono diventati più costosi perché dipendono dall’oro nero. A causa degli effetti a catena dell’aumento del prezzo del petrolio sulle spese agrarie, c’è stato, talvolta, un contenimento dell’offerta di alimentari per i produttori che non sono riusciti a scaricare i maggiori costi sugli aumenti dei prezzi di vendita, come invece è stato possibile soprattutto per le multinazionali dei cereali e dei trasporti marittimi. Assieme a loro si sono avvantaggiati i grandi produttori oligopolistici di fertilizzanti (negli Usa ad aprile costavano il 65% in più dell’anno precedente), di sementi e di manufatti alimentari su scala mondiale. Ora si attende anche un aumento dei prezzi dei terreni e delle macchine agricole e delle infrastrutture per gli stoccaggi alimentari, perché oggi investire nell’agroindustria è più remunerativo. Molto rilevante, sul raffreddamento dell’offerta internazionale e sull’accelerazione dei prezzi, è stato il fatto che circa 30 Stati (come Russia, Egitto, India, Indonesia, Kazakistan, Vietnam, Argentina) hanno messo vincoli alle esportazioni di derrate agroalimentari. Questi Paesi hanno agito così per evitare che la produzione nazionale fuggisse sui mercati esteri dove è pagata meglio, provocando però, all’interno del Paese, la scarsità di quei beni, l’aumento dei loro prezzi e quindi gravi tensioni sociali e politiche. Ma questo provvedimento ha senso soltanto per tempi brevi, perché riduce gli avanzi della bilancia commerciale, quindi genera meno entrate fiscali e, di conseguenza, problemi al bilancio pubblico e crisi delle imprese esportatrici. Sull’altro fronte, i Paesi che dipendono dalle importazioni alimentari non hanno trovato sufficienti rifornimenti salvo pagarli a caro prezzo o chiedere aiuti internazionali. In numerosi Paesi sono stati imposti prezzi controllati o sovvenzionati dallo Stato, appesantendo i bilanci pubblici. Ma ciò, nei Paesi meno sviluppati, ha favorito scaffali più vuoti e una maggiore offerta, a prezzi più alti, sul mercato nero.

Politiche miopi
L’elenco delle cause politiche che hanno contenuto l’offerta agricola prosegue: una parte dei terreni e della produzione agricola è stata destinata a biocombustibili con vari incentivi pubblici negli Stati Uniti, Unione Europea e Brasile; la Politica Agricola Comune (Pac) dell’Ue ha puntato a eliminare le sovrapproduzioni degli anni Novanta; la deregolamentazione dei mercati voluta dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, per favorire le importazioni e le esportazioni di alimenti verso e dai Paesi poveri, è degenerata in un oligopolio: poche imprese transnazionali controllano la grande produzione, la trasformazione e la distribuzione di cereali a livello internazionale, con un conseguente aumento dei costi d’importazione del 5%. La produzione di cereali è cresciuta meno del potenziale, secondo alcune accuse, per i limiti dell’Ue alla produzione e all’importazione di cereali e di altri prodotti agricoli geneticamente modificati. Ma soprattutto le politiche, di fatto protezionistiche, dei sussidi agricoli e dei vincoli sanitari alle importazione alimentari di Usa, Ue, Giappone ecc. non hanno reso conveniente ai Paesi poveri investire nelle produzioni alimentari per l’esportazione,contenendo così l’offerta globale e mantenendo sottodimensionato il proprio settore agricolo. Anche la politica degli aiuti alimentari dei principali Paesi,ricchi, soprattutto degli Usa, non ha favorito l’aumento della produzione agricola nei Paesi poveri. Questi aiuti infatti consistono nell’acquisto di derrate dai propri produttori nazionali per poi rivenderle a basso prezzo o regalarle agli Stati bisognosi, anche tramite enti internazionali e organizzazioni non governative. In questo modo non si è incentivata la crescita del settore primario dei Paesi colpiti da insicurezza alimentare. Anzi, molti piccoli produttori locali non offrivano più un prodotto concorrenziale rispetto alle derrate straniere e si sono ritirati dal mercato, limitandosi a una produzione di autosostentamento familiare. Così, ancora una volta, non è stata favorita la crescita dei piccoli produttori locali, e sono aumentati coloro che non sono usciti dalla trappola della povertà o che sono andati ad affollare le periferie urbane o hanno tentato la fortuna emigrando. Per tutto questo, il presidente senegalese A. Wade il 4 maggio ha dichiarato pubblicamente che gran parte del sistema di aiuto delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative è inefficiente; in più ha chiesto di abolire la Fao perché gran parte delle sue spese è concentrata in costi burocratici e, quindi, di dirottarne i fondi nel Programma Alimentare Mondiale, che acquista circa il 70% delle derrate alimentari nei Paesi poveri. Ma la Fao è l’unica agenzia al mondo ad avere le conoscenze sul problema della fame e dell’alimentazione e a raccogliere e aggiornare i dati sulla materia. In attesa che l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il G8 e anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intervengano, è ancora la Fao il più significativo forum mondiale per proporre e assumere solennemente una politica mondiale comune della sicurezza alimentare, che non merita meno attenzione delle crisi energetica, militare, commerciale e ambientale.

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