Nella Fiume di D'Annunzio c'era un po' di "sessantotto"


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Continuano ad uscire articoli e libri sui “precedenti” del Fascismo, sui tanti filoni che vi confluirono. A dimostrazione di quello che abbiamo sempre scritto e sostenuto non solo circa la grande “complessità” del movimento fascista – e dunque, ovviamente e inevitabilmente, del regime che da quel movimento scaturì – ma anche della “ricchezza” dei suoi magmatici fermenti.

Dei libri, andiamo scrivendo a parte nell’apposita Sezione di questo Sito, ma, fra i tanti, un articolo ha attratto la nostra attenzione e intendiamo qui riprendere perché ci sembra particolarmente ben “concentrato” rispetto alla tesi cui ci riferivamo all’inizio di questa nota. E’ l’articolo – comparso su “Il Giornale” del 31/3/’05” – intitolato: “Quel Fiume porta a Roma”, con un sottotitolo importante: “L’impresa dannunziana del 1913 non fu il semplice prologo alla marcia mussoliniana del ’22. In quel crogiuolo di uomini e donne animati da spirito rivoluzionario c’è anche un po di Sessantotto…”.

Domizia Carafoli comincia, giustamente, … dall’inizio, scrivendo che: “E’ stata a lungo opinione diffusa e comune che l’impresa fiumana sia stata un prologo, una specie di prova generale della Marcia su Roma. Gli studi storici più seri e approfonditi hanno invece dimostrato che Fiume fu un fenomeno certamente parallelo al fascismo nascente e con il quale ebbe molti punti di contatto, ma in sostanza autonomo e con caratteri profondamente originali rispetto al movimento guidato da Mussolini. Certo l’humus in cui maturò l’impresa di Fiume è lo stesso in cui nacque e si formò il fascismo: la vittoria italiana tradita dal Patto di Londra che assegnava Fiume alla Croazia, la ribellione all’ordine costituito, la rivolta contro la politica del governo italiano considerata vile e rinunciataria, la ricerca di un “patto sociale” che consentisse di superare le violente contrapposizioni di classe che segnavano quel tormentato dopoguerra.

Anche le date confermano la “contemporaneità” di fascismo e fiumanesimo. – prosegue la Carafoli – Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fonda a Milano i fasci di combattimento con un programma “di sinistra” a netta connotazione laica e repubblicana. Il 12 settembre Gabriele D’Annunzio occupa militarmente Fiume accolto dalla popolazione in delirio e, un anno dopo, promulga la Carta del Carnaro (concepita dal sindacalista Alceste De Ambris e “rivisitata” nello stile dal poeta) con la quale proclama un nuovo ordine dal quale deve nascere lo stato rivoluzionario e corporativo.

Ma Fiume è anche qualcosa di più e di diverso da una passione nazionale e da un sogno di rinnovamento sociale. In quei quindici mesi che trascorrono fra l’occupazione e il tragico “Natale di sangue” del 1921 si vive a Fiume un’esperienza unica e irripetibile di libertà dalle convenzioni “borghesi”, una sorta di esaltazione collettiva, per cui nulla è impossibile e nulla è proibito. A Fiume, trascinati dal carisma del poeta-soldato, erano arrivati militari e studenti liceali, alcuni addirittura appena adolescenti, fuggiti da casa per raggiungere il Comandante; come il sedicenne Ettore Muti, battezzato da D’Annunzio «Gim dagli occhi verdi» e che parteciperà agli atti di pirateria degli «uscocchi» per approvvigionare la città affamata.

A Fiume arrivò tutta l’aristocrazia della guerra appena vinta, dall’eroe del Montello, Sante Ceccherini al giovane aviatore medaglia d’oro, Antonio Locatelli. A Fiume arrivarono Guglielmo Marconi e Arturo Toscanini. Ma vi arrivarono anche, come scrisse Giovanni Comisso in “Le mie stagioni «scrittori, anarchici, fascisti, socialisti, repubblicani, avventurieri, invertiti, delinquenti, uomini di buona fede, pescatori nel torbido, spie, prostitute…»”. Un crogiuolo di uomini e donne molti dei quali si credevano “legibus solut” e diedero vita a una sorta di trance collettiva nella quale non mancavano nell’alcol né la droga, tanto che alcuni sostengono essere stato Fiume il nostro primo Sessantotto. Il paragone è ardito ma sicuramente molte delle illusioni che daranno poi vita allo slogan «L’immaginazione al potere» furono prima sognate a Fiume come ben ha documentato la ricercatrice Claudia Salaris nel saggio, uscito nel 2002 per il Mulino, “Alla festa della rivoluzione”.

La sbornia finì nel sangue e con essa morì anche l’illusione di D’Annunzio di essere lui a guidare la riscossa della nuova Italia uscita dalla guerra, lui l’interprete e il realizzatore del grande sogno di una pacificazione nazionale sulla base di un corporativismo a forte connotazione sindacalista e rivoluzionaria. Fu il più realista, abile e spregiudicato Mussolini, dopo avere purgato il suo Movimento dalle correnti “di sinistra” vicine a De Ambris e alle esperienze fiumane, a presentarsi al re per consegnargli «l’Italia di Vittorio Veneto» e prendere il potere.

Alla Marcia su Roma parteciparono certamente numerosi ex legionari fiumani dei quali molti erano o sarebbero divenuti fascisti. Molti anche non avevano dimenticato l’appoggio dato dallo stesso Mussolini alla Reggenza del Carnaro e la sottoscrizione aperta sul Popolo d’Italia per aiutare i legionari. Ma da quel momento le strade di D’Annunzio e di Mussolini avrebbero preso direzioni diverse. Anzi il poeta, nonostante le esteriori manifestazioni di stima, si chiuse da allora in poi nel volontario esilio del Vittoriale. E quando Mussolini minacciò di crollare nel ’24, sotto lo scandalo del delitto Matteotti, se ne uscì con una durissima presa di posizione, definendo il fascismo «una fetida ruina».”

(a cura di Pino Rauti)