I Prodi si ritrovano proprietari di un castello


Confessiamo di aver letto con sorpresa, quanto – con la sua penna abitualmente lucida e con la non meno abituale documentazione – ha scritto di recente sul “Giornale” Paolo Granzotto sul “castello dei Prodi”. E’ bene far circolare questa “storia”…

Aveva chiesto una lettrice (Giuseppina Consorti, di Torino):

“Caro dottor Granzotto, in questi giorni non si fa che parlare del castello dove il presidente Prodi trascorre parte delle sue vacanze ed ha festeggiato il suo sessantasettesimo compleanno. Purtroppo non ho mai visto immagini del castello e mi piacerebbe saperne di più. Altra questione è questa: perché si ironizza tanto su villa Certosa del presidente Berlusconi e non sul castello di Prodi? Come sfoggio e status symbol un castello vale almeno dieci ville.”

E risponde Paolo Granzotto:

“Il castello di Bebbio si erge, maestoso e possente, nel cuore dell’Appennino reggiano. Edificato nel Quattrocento, è difeso da mura merlate e da tre torrioni cilindrici detti «maschi». Dispone, oltre che dei consueti saloni, di sette stanze da letto più altre dieci ricavate nelle vecchie scuderie e gli ospiti possono godere in tutta privatezza di un esteso parco ricco di alberi secolari. Passato nel corso dei secoli di nobile mano in nobile mano, fu acquistato dai fratelli Prodi nel 1963 per la cifra, almeno così dicono gli interessati, di nove milioni di lire. Fino a quando Romano Prodi si limitò a fare (male) il boiardo di Stato, il castello di Bebbio era, per gli organi di informazione, un castello.

Ma allorché testa quedra scese in campo alla guida del reggimento rosso, per certa stampa e certa televisione il castello decadde a castelletto, castelluccio, quando non a modesta bicocca, a villone borghese con ambizioni, inappagate, da maniero. Non esattamente una schifezza, questo no, ma una cosuccia dimessa, coi muri malandati, festoni di ragnatele e infissi rappezzati alla meno peggio. Ovvero l’umile dimora che si confà ad un politico di sinistra, democratico, equo e solidale. Povera cosa, per di più divisa fra nove fratelli (nato nel 1939; battezzato con un nome caro al regime, Romano; otto fratelli, a testimonianza della ferma volontà dei genitori di contribuire all’incremento demografico onde opporre alla decadente democrazia otto o nove milioni di baionette. Difficile pensare che il babbo di testa quedra fosse un antifascista. Ma questa è una mia insinuazione. Magari babbo Prodi è medaglia d’oro della Resistenza. S’è visto ben altro), divisa fra nove fratelli, dicevo, che è come dire una cooperativa, una Coop. E si sa, Consorte insegna: le Coop è roba di popolo, non di miliardari ganassa.

Come sulle nonnette centenarie o sulla coppia di sposi che celebra le nozze di diamante ballando una polka, si fa molta retorica anche sulla famiglia Prodi. Dello stuolo dei fratelli s’è detto, ma quello è niente: tra figli e nipoti, generi e nuore la schiatta assomma a cento e un elemento. Il Castello non può ovviamente contenerli tutti, ma stando alle cronache vi si intruppano in un bel po’, specie se c’è da festeggiare Romano, componente di spicco della tribù. Ora deve sapere, gentile lettrice, che mi capitò di leggere di un rito praticato allorquando a Bebbio si registra il pienone. Senta qua: nel salone più grande, quello detto «della musica», ogni pomeriggio alle tre… Aspetti, meglio citare fra virgolette: «Ogni pomeriggio alle tre viene organizzato “Oggi si parla di…” dove a turno un familiare tiene una lezione della quale è esperto». Spero che questa storia sia una panzana, il frutto marcio della piaggeria di regime. Perché se fosse vero che, quando in vacanza, la famiglia Prodi, rinunciando alla pennichella, si riunisce nel salone della musica per sottoporsi a pratiche masochiste di tal fatta, il cielo abbia pietà di loro (e di noi, governati da un componente, forse addirittura il promotore, di quel supplizio).”