Italia: crescono le “salme innominate”

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Riprendiamo da “La Stampa” di Torino, a firma di Pierangelo Sapegno, e per motivi di spazio ci limitiamo a riportare:

All’ingresso del cimitero c’è una scritta in latino, «Beati i morti che sono morti nel Signore». Forse, moriamo tutti nel nome del Signore. Ma a Lauriano, sulle rive del Po, fra le croci e il silenzio venuto dal cielo, ci sono due lapidi senza nome, una di fronte all’altra. Quella più vecchia ha inciso solo una data: 15 aprile 1974, il giorno che la seppellirono. L’avevano trovata l’11 aprile e il brigadiere Raffaele Posca della stazione dei carabinieri di Casalborgone aveva scritto nel rapporto che era una «salma di sesso femminile dell’apparente età di quaranta-cinquant’anni. Giaceva in un groviglio di arbusti ammucchiati dalle acque del fiume, supina, completamente nuda, con all’altezza della vita un elastico, presumibilmente da reggicalze».

La morte, in fondo, appartiene alla vita. E l’identità è una delle cose più importanti della vita. Solo un anno fa i cadaveri senza nome erano 337. In dodici mesi sono più che raddoppiati: 114 di loro sono immigrati annegati in un barcone affondato nel mare. La maggior parte si trovano nel Lazio, 188. Poi seguono la Lombardia, 130, la Sicilia, 110, la Puglia, 52, il Veneto, 45, e la Campania 42. A Milano quest’anno sono 88 i corpi senza nome. Tecnicamente, il concetto di identità si può definire come quei «caratteri individuali che differenziano inconfondibilmente un determinato individuo da un altro». Ma l’identità di una persona non è solo questo: dentro c’è la vita, ci sono gli affetti, i sentimenti, le emozioni, anche le ingiustizie, tutto quello che troviamo sulla nostra stessa strada. Privare questo viaggio della parola fine è un po’ come negare che la persona sia mai esistita. Per questo la maggior parte dei cadaveri senza nome erano persone vissuta ai margini della società, clochard e immigrati, molte prostitute e diseredati di tutti i tipi. Degli 88 casi di Milano, la metà è oggetto di indagini come morti sospette, il venti per cento come omicidi certi. E in ogni caso l’identificazione dei resti non è come nelle fiction televisive: è molto più difficile, e a volte si hanno così pochi frammenti di un corpo che è quasi impossibile risalire al Dna. Così, per il suo lavoro, Cristina Cattaneo, dirigente del Labanof – il Laboratorio di Antropologia e Odontologia dell’Università Statale di Milano – ha messo su un team di esperti in odontologia, ma anche in archeologia, per studiare la conformazione di un terreno e capire dove fare gli scavi, o in botanica, con l’utilizzo persino di una muta di cani addestrati.

Il problema è che «manca un giusto coordinamento», come sostiene Elisa Pozza Tasca, presidente di Penelope, l’associazione che raccoglie centinaia di uomini e donne in ansia per i loro cari svaniti nel nulla e che lavora su questa tragedia con il nuovo commissario straordinario per le persone scomparse, il prefetto Michele Penta.

Secondo la banca dati del Ministero dell’Interno, gli scomparsi in Italia sono 24mila e 800: fra loro è ovvio che ci sono anche alcuni di quei cadaveri senza nome. «Da una parte la gente non sa come fare e dall’altra non c’è collegamento fra chi riceve la domanda, il ministero dell’Interno, il commissario straordinario che deve essere coinvolto in queste vicende e la famiglia». L’esempio lo racconta lei: è quello di Bachisio Inzaina, un anziano residente a Vinci, morto il 19 gennaio 2001: è caduto nell’Arno e la corrente ha trascinato il suo corpo a Pisa. Ma nessuno lo sa. Sta chiuso in una cella frigorifera per 8 anni. Le figlie Angela e Rita lo cercano disperatamente. Nel 2007 dalla Puglia arriva una segnalazione: c’è un morto con una cicatrice nella testa, come quella che aveva Bachisio. Le figlie danno il dna: non è lui. Però, ci sono 8 scomparsi in Toscana e finalmente confrontano i dna, e lo trovano. Ancora due anni dopo, perché tanto ci vuole per mettere la parola fine a una vita che non c’è più.

Invece, quella di Lauriano quella parola non l’ha mai avuta. Dovrebbe essere il cadavere ignoto più vecchio. Avevano detto di lei che era una prostituta. Non era vero. E’ che si può dire di tutto di un morto senza nome. Il cantoniere che portò il suo corpo alla camera mortuaria ricorda solo che faceva un caldo bestiale quel giorno. Il 15 aprile del 1974…”.

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