L’immigrazione e la denatalità

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

La denatalità italiana è “contagiosa” ma neanche i nuovi arrivi – 10/12 milioni di stranieri previsti entro il 2050 basteranno a contrastare il nostro declino demografico. E’ il tema su cui si trattiene di recente su “Repubblica”, Massimo Livio Bacci. Che comincia col porsi la domanda più diffusa in merito: “Può l’immigrazione raddrizzare il bilancio riproduttivo del nostro paese, che da un quarto di secolo è inchiodato su esangui livelli?”. E così risponde: “Le statistiche ci dicono che il figlio di genitori “stranieri” era davvero una rarità fino all’inizio degli anni ‘90 (uno ogni cento nati); la frequenza è poi rapidamente aumentata e nel 2008 un nato ogni otto era figlio di stranieri. Tra meno di dieci anni la proporzione sarà di uno su cinque.

Ma anche col contributo degli stranieri la natalità italiana rimane insufficiente a evitare un forte declino e un costoso stravolgimento della struttura per età. È facile comprenderlo confrontando i 577.00 nati in Italia nel 2008 con i 750.000 della Gran Bretagna e gli 800.000 della Francia, Paesi che hanno una popolazione di dimensioni all’incirca uguale alla nostra, ma che vantano conti demografici “in ordine”. Da un punto di vista strettamente contabile – perciò – il contributo degli stranieri, alla natalità italiana è cospicuo in sé, ma modesto in termini relativi, e difficilmente potrà rimettere in sesto il bilancio riproduttivo. L’eventuale ripresa, dipenderà soprattutto da nuovi comportamenti dell’intera comunità nazionale.
È possibile che le comunità straniere crescano a dismisura non solo perché alimentate da nuovi arrivi, ma soprattutto perché fanno tanti figli? E che sommergano “noi”, autoctoni, per la loro alta natalità? Prima di rispondere, una considerazione è d’obbligo. Nei Paesi a forte immigrazione molti nati sono figli di genitori non più “stranieri” perché hanno acquisito la nazionalità del paese di arrivo, o sono figli di terza o quarta generazione di immigrati naturalizzati. Questi Paesi convertono un’alta proporzione di immigrati in cittadini. La loro progenie si diluisce in quella autoctona, diventa essa stessa autoctona e le comunità immigrate, alla lunga, tendono a dissolversi. Non così in Italia: nonostante un recente aumento, la proporzione degli stranieri che acquisisce la cittadinanza è molto bassa, una piccola frazione di quanto avviene altrove. I nati degli immigrati rimangono stranieri, e così rischiano di rimanerlo i loro figli, perpetuando la barriera giuridica che li separa dagli italiani.
Per quanto riguarda i comportamenti riproduttivi, è vero che le donne straniere hanno mediamente più figli delle italiane: ma non di molto. Metà delle straniere proviene da Paesi europei che hanno una natalità uguale o minore di quella italiana; l’altra metà, è originaria di Paesi nei quali la natalità è in rapido declino. Inoltre nelle seconde generazioni il divario con gli autoctoni tende ad annullarsi. Il modello della famiglia numerosa è – del resto – svantaggiosissimo nelle società urbane e postindustriali d’immigrazione, e l’alta abortività delle straniere testimonia della dolorosa volontà di adattamento ai nuovi contesti di vita. Per questa ragione (al netto dei nuovi arrivi) le comunità di origine straniera tenderanno a stabilizzarsi su ritmi di crescita non troppo diversi da quelli della popolazione di origine italiana”.
(P.R.)
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