Una marea di gente “se ne va” sottoterra


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Per i motivi più svariati, anche in Italia c’è una marea di persone che ama “andarsene” sottoterra; persone – e non solo giovani – cui piace “viaggiare” in catacombe, condotti sotterranei, antiche cisterne romane abbandonate e via dicendo. Non è possibile nessun calcolo preciso ma, a seguire le attività e le iniziative dei tanti gruppi e delle numerose Associazioni che stanno all’opera, si pensa che si tratti di almeno due milioni di persone. Un turismo culturale, naturalmente – così, almeno, lo definiamo noi – perché a parte la dose inevitabile di curiosità e di spirito di avventura non v’è dubbio che si mira soprattutto a trovare tracce e “testimonianze” dirette di un passato più o meno prossimo – e spesso addirittura remoto – con lo stesso spirito, con lo stesso impulso con i quali altri “fanno” archeologia e, in particolare, quella che viene definita archeologia industriale. Paolo Sacconi ha scritto in merito, di recente, sul “Corriere della Sera” – in <<Corriere Economia>> – che “il sogno di ogni adolescente è scoprire un passaggio segreto da casa propria alla cripta della chiesa all’angolo”; ed è proprio così – almeno fra gli adolescenti ancora oggi in questa società materialistica, in grado di “sognare”; ed è anche importante far notare che comunque, dalle realizzazioni sempre avventurose di quei sogni, spesso si torna con “fotografie digitali, mappe e leggende urbane”.

Torneremo spesso, con tante notizie dettagliate, su questo “mondo sotterraneo” e intanto cominciamo con quanto – tramite Internet – abbiamo trovato sulle fontane di Roma.

La grandezza della civiltà Romana si basò sull’attenzione posta nella costruzione di infrastrutture e opere pubbliche alle quali, fino ad allora non si era data molta importanza. Ci riferiamo in particolare alle strade, agli acquedotti ed alle fognature.

Queste ultime due tipologie di costruzioni sono fondamentali per capire su quali solide fondamenta si basò l’impero romano.

Ancora oggi la città moderna si basa sulle opere costruite dai nostri avi: l’antico impianto fognario del centro storico, la famosa fontana di Trevi, aumentata da un acquedotto, il Vergine, di oltre 2000 anni, sono solo alcuni esempi dell’efficienza di queste opere, troppo spesso dimenticate.

Il patrimonio delle fontane di Roma è immenso: spesso nascoste tra antichi o più moderni edifici, esse ci guidano lungo un suggestivo itinerario, alla riscoperta di un’antica simbiosi tra tessuto urbano e popolazione che purtroppo con la modernità si sta lentamente perdendo.

Elementi che costituivano l’articolato e complesso sistema di alimentazione e fruizione idrica della città, sono di frequente rinvenuti all’interno degli ambienti ipogei dell’Urne.

I Romani raggiunsero livelli veramente eccelsi nelle opere idrauliche grazie alla consapevolezza dell’importanza politica della cultura dell’acqua. L’acqua non era solo un elemento necessario alla sussistenza ma, attraverso l’immissione in città di circa un milione di metri cubi al giorno, divenne un elemento di celebrazione del potere. Gran parte delle acque infatti venivano utilizzate per alimentare le numerose terme e bagni pubblici, le naumachie o per le spettacolari fontane e ninfei.

Nell’epoca imperiale si raggiunse la massima diffusione della fruizione delle utenze idriche: la distribuzione di grandi quantitativi d’acqua alla popolazione, il numero delle fontane, l’altezza e la ricchezza dei getti d’acqua, le dimensioni dei bacini delle piscine, la dotazione di ampi e lussuosi servizi igienici.

I Romani si giovarono delle conoscenze nel campo di tecnica idraulica già raggiunte dagli Egiziani e dai Greci e a loro volta fatte proprie dai popoli del vicino Oriente, abili costruttori di opere quali i famosi Qanat.

Gli stessi vicini Etruschi si dimostrarono eccellenti maestri nella realizzazione di opere idrauliche ipogee, tanto che le prime realizzazioni romane, per fattura e tecniche costruttive, ricalcarono fedelmente quelle etrusche. Le fonti testuali da cui si possono trarre informazioni sulle capacità tecniche romane nel campo dell’idraulica sono essenzialmente due: il De architectura di Vitruvio (I sec. a.c.), dove vengono illustrati i criteri costruttivi degli acquedotti e i sistemi di immagazzinamento delle acque e il De aquaeductis urbis Romae di Sesto Giutio Frontino (fine I sec. d.C.), nel quale vengono descritti in maniera dettagliata gli acquedotti che rifornivano la capitale. Restano, al di la dei testi, le maestose vestigia delle opere idrauliche che, a Roma come nel resto dell’impero, testimoniano il ruolo chiave esercitato dall’acqua nella civiltà antico romana.

Le tipologie più frequenti di opere idrauliche che si possono incontrare nel mondo sotterraneo sono i condotti idraulici, che servivano per trasferire l’acqua da un luogo all’altro, per conservarla (le cisterne cunicolari), o addirittura come sistema di raccolta di acqua percolante alla stregua degli antichi Qanat del Nord Africa, capaci di ricavare acqua perfino in un ambiente desertico. Appartengono a questa categoria anche gli speche degli acquedotti che, tranne che per brevi tratti, si sviluppavano prevalentemente interrati in canali che potevano essere sia semplicemente scavati nel tufo, sia impermeabilizzati con la malta idraulica, o addirittura rinforzati con murature di varie tipologie. Su una lunghezza totale di circa 500 km, pari a quella cumulativa di tutti gli acquedotti che alimentavano Roma, l’acqua correva in sotterraneo, entro gallerie e cunicoli, per oltre 420 km. Per facilitare la costruzione dell’acquedotto e le successive ispezioni e manutenzioni, nelle gallerie venivano scavati dei pozzi provvisti di pedarole per la discesa.

Gli acquedotti che in epoca Imperiale garantivano l’approvvigionamento idrico della città erano undici, costruiti a partire dal IV sec. a.c. in un arco di seicento anni. Prima della realizzazione degli acquedotti, come riporta Frontino i Romani si servivano dell’acqua del Tevere, dei pozzi e delle sergenti presenti alla base dei colli intraurbani. Le sorgenti davano spesso vita a veri e propri torrenti in cui confluivano anche le acque piovane. Questi torrenti, in molti casi, continuano ancora oggi a scorrere nel sottosuolo. Spesso però la loro osservazione è impedita dal fatto che il loro flusso scorre attraverso lo strato di ruderi e detriti che si interpone tra il moderno piano di calpestio e quello della città romana.

Le cisterne e i serbatoi che avevano la funzione di conservare l’acqua e di permetterne un uso procrastinato nel tempo. I Romani avevano elaborato in questo settore un’avanzata tecnica costruttiva che prevedeva l’impermeabilizzazione interna tramite una speciale malta denominata cocciopesto, composta da una miscela di calce, sabbia o pozzolana, frammenti di terracotta e, forse, di un collante vegetale (latte di fico?). Le cisterne generalmente hanno uno o più ingressi per l’acqua e uno scarico di fondo non sempre presente e servivano per accumulare l’acqua piovana. I serbatoi invece appartengono a una categoria costruttiva differente e più avanzata in quanto erano utilizzati per accumuli temporanei d’acqua proveniente da un acquedotto. Immagazzinando l’acqua in questo modo si poteva gestire il flusso da ridistribuire alle utenze in previsione delle ore di punta dei consumi. I serbatoi erano molto spesso collocati in zone sopraelevate per garantire l’approvvigionamento in pressione delle utenze situate a valle mediante tubazioni in pressione.

Generalmente l’acqua, prima di arrivare a destinazione, raggiungeva prima una seria di piccoli serbatoi denominati castella che avevano funzione di ripartitori. Frontino cita l’esistenza, solo nella città di Roma di 247 castella.

L’ultimo aspetto connesso all’antico sistema delle acque riguarda lo smaltimento delle acque “nere” e piovane.

La prima opera ad essere realizzata a tale scopo fu la Cloaca Massima, un gronde canale che originariamente fu scavato per bonificare la valle tra Campidoglio e Palatino. La necessità di bonificare le numerose paludi interne alla città e di eliminare le acque reflue derivate da!!’apporto degli acquedotti, rese indispensabile !a costruzione di numerosi tracciati fognari. La fitta maglia di piccole e grandi cloache rese la città più sana e vivibile, mantenendola in discrete condizioni igienico – sanitarie.

La maggior parte di queste opere, continuano a essere nascoste ai più, in quanto nessun altro aspetto, come quello dell’Ingegneria idraulica romana, è stato così trascurato dall’archeologia ufficiale. L’attività di speleologia urbana che “Roma sotterranea” promuove e orientata al recupero e alla valorizzazione di queste opere,promuovendo campagne di rilievo, di esplorazione e di studio.