Anche il Medio Evo va del tutto “rivisto”


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Perfino il Medio Evo, quello dei “secoli bui” va interamente rivisto e comunque acriticamente rivisitato. Per chi conosce bene – e da decenni! – le pagine lucide di Iulius Evola, questa non è certo una sorpresa; e d’altronde c’è ormai tutta una storiografia qualificata da tirarsi a supporto. E tuttavia fa piacere; e tuttavia è assai importante che questa revisione si faccia strada anche su fogli di larga diffusione. Come ci è accaduto di leggere su “Il Domenicale” del 3 ottobre scorso in due articoli (Ivo Germano e Carlo Stagnaro) connessi sotto il titolo: “Il futuro è il Medioevo” e dedicati ambedue alla recensione di un libro che sta per uscire; libro di Guglielmo Piombini: “Prima dello Stato. Il Medioevo della libertà” (Leonardo Facco editore – Treviglio – Bergamo – pp. 169 – euro 13,00 – tel. 335-8082280). Con il titolo: “Alle radici del vero «miracolo europeo», ecco l’articolo di Ivo Germano:

“Non c’è aria disagra paesana, neppure quel folclore amatoriale da gioco di simulazione medioevale tutto fate, draghi, orchi, maghi e cavalieri. Le categorie, i concetti e le prospettive sul Medioevo come “secoli bui” e “notte dei millenni” sono palesate nella loro infondatezza e curvatura ideologica, per essere puntualizzate sotto forma di pratiche, di attività e di questioni.

Ora, queste dimensioni vengono esplorate nel coraggioso volume di Guglielmo Piombini, Prima dello stato. Il medioevo della libertà (Leonardo Facco Editore, Treviglio [Bg], pp.169, €13,00; tel. 335/8082280). L’analisi di Piombini, giovane studioso di orientamento libertarian, informa come ci sia voluto del tempo per accorgersi che il Medioevo avesse saputo elaborare una idea di libertà non graziosamente ammannita dallo Stato, ma impronta aurorale che anticipa qualsivoglia consesso sociale. Un diritto naturale, cioè, che appartiene all’uomo in quanto tale e che, senza se e senza ma, dovrebbe fondare lo Stato. Da questa intuizione e dallo scenario di pluralismo sociale offerto dalla ricostruzione storica dei termini reali di cui è consistita la cosiddetta “anarchia feudale” è infatti scaturito quel preciso filone che si coniuga oggi per esempio ai principi propri alla cultura federalista e ai criteri di sussidiarietà.

Proprio nel Medioevo viene del resto affermata la radice autonoma della società e della persona, da rivalutare rispetto ad uno scheletro centralista e statolatrico, in un fiorire d’invenzione e d’ingegnosità testimoniate dalla comunione di lavoro artigianale e dalla socialità orizzontale e trasversale, dalla ruota idraulica al libro, dalla notazione musicale alle cattedrali e alle università dei clericos vagantes. Il Medioevo si trasforma così nella “chiave” del “miracolo europeo”, giacché costituisce «l’elemento decisivo che mancò alle civiltà extraeuropee, la molla dello sviluppo che ha permesso agli europei occidentali di surclassare i cinesi, gli indiani, i russi, i persiani, gli arabi, gli incas, i maya o gli aztechi sul piano del progresso culturale e tecnologico».

Argomentazioni forse eccessivamente entusiastiche, ma tutt’ altro che ideologiche che permettono di battere, ribattere controbattere accesamente alla macchina celibe e autoritaria, burocratica e impersonale dello Stato moderno. Al punto da domandarsi chi, veramente, abbia vergato il contratto sociale e perché.

La scaturigine creativa del Medioevo, con le sue strutture spontanee e immediate – i corpi sociali intermedi – sono poi state irrimediabilmente risucchiate dall’ artificialità legislativa e regolamentatrice della Modernità, che rappresenta davvero una desertificazione graduale degli spazi di senso comune e di vita quotidiana: «Se l’organizzazione sociale medioevale ha portato l’Europa dalla barbarie al primato mondiale in poco più di un millennio – osserva Piombini -, sotto l’egida del moderno Stato socialdemocratico, il tramonto della civiltà europea si compirà in tempi molto più brevi».

E, siccome la parola è potere, le cose evidenti vengono omesse e quelle irrilevanti conquistano la fatua vetrina della società liquida, attorcigliandosi in rivo li confusi ben stigmatizzati prima da Piombini e, poi dai commenti aggiunti al suo testo centrale da Pietro Adamo, Raimondo Cubeddu, Carlo Lottieri e Marco Respinti.

Oltre il “mito di Westfalia”

Il multiculturalismo auspicato, 1’omologazione culturale propinata e l’incessante smorzarsi della diversità divengono dunque le fasi evidenti di un percorso inefficiente ed elefantiaco, spacciato per magnifica sorte e progressiva. Non a caso, uno degli autori di riferimento di Piombini è Iosè Ortega y Gasset, che ben traguardò le piste ell’ avvenire europeo sottolineando limiti e incongruenze.

Perché, davvero, non faccia più scandalo ripensare a quando lo Stato non esisteva, occorre meditare poi sul valore delle cariche decentralizzate, chiamate alle armi più per necessità che per circoscrizioni, e sulle metodologie elettive dei migliori e non di chi cerca cul de sac impiegatizi.

Un sentiero della nostra memoria comune che può essere riscoperto, magari attraverso l’arte e la storia; una storia collettiva e un’appartenenza comune che nessun leguleio e costituente europeo può arzigogolare; un destino comune e una comune partecipazione alla libertà: questo è stato insomma il Medioevo prima che le scosse dello sradicamento generale ne contestassero il profilo sobrio.

A ben pensarci, le radici di una comune appartenenza stanno tutte lì: identità culturale ben più che politica, linguistica e simbolica. Dal Medioevo a oggi, si rinnova cioè quel confederarsi cosmopolita, fondamentalmente universale, fondato sul primato della libertà e della conoscenza.

A suo tempo, Gianfranco Miglio ragionò su una simile prospettiva ipotizzabile anche nella globalizzazione. Come a dire che il realismo politico post-westfaliano ricalcherebbe quello che già fu delle libere città commerciali prima che s’imponesse la struttura statuale moderna. Allora, in pieno Medioevo, l’incremento dei commerci e la diminuzione del potere politico centrale garantirono l’indipendenza cittadina e comunale, assieme a sviluppo, libertà, creatività, comprensione, tolleranza e rispetto delle diversità.

Una prospettiva non solo economica, ma, anche e soprattutto politica e culturale che Piombini rilancia e corrobora, rivendicando il sacrosanto diritto/dovere di aprirsi al mondo”.

Ed ecco l’articolo di Carlo Stagnaro, che ha per titolo “L’anarchia feudale come programma politico”:

Vi sono due modi di guardare alla storia. Uno è ritenere che l’umanità sia un gigantesco coro, che anno dopo anno, canta sempre più intonato, quasi che il solo lento procedere del tempo consenta agli uomini di affinare le proprie capacità e garantendo l’automatismo del “dopo” come sinonimo di “meglio”. È una chiave di lettura alla moda, anche se sovente trascura di fare i dovuti conti con clamorose stecche quali i totalitarismi del secolo XX, “peccatucci” che si ritengono, forse, emendati dalla gloriosa sinfonia del Welfare State.

Un altro approccio fa invece perno sulla consapevolezza che la storia non è altro che un lungo e contraddittorio libro colmo del racconto delle azioni di miliardi d’individui. Un condensato misterioso, cioè, di bene e di male, di avanzate e di retromarce. Di alti e di bassi. “Prima”, insomma, può addirittura essere meglio. Ma, se questo è vero, allora occorre soprattutto fissare una stella polare, un criterio rispetto a cui declinare le idee di “meglio” e di “peggio”.

È queE’ questa la strada scelta da Guglielmo Piombini per ritrarre «il Medioevo delle libertà»: l’analisi condotta in Prima dello stato assume infatti come unità di misura la libertà individuale. L’occhio dello studioso passa al setaccio le istituzioni medioevali, domandandosi se esse non siano state in grado, nonostante tutto, di tutelare i diritti umani in maniera più efficace del Leviatano post-rivoluzionario.

Antichità del “Rule of Law”

La risposta, sorprendente per certi versi, è che nei cosiddetti “secoli bui” brillava la fiaccola della libertà, offuscata oggi da un interventismo pubblico intrusivo e impiccione. Di conseguenza, chi ha oggi a cuore quel valore imprescindibile deve guardare al passato per immaginare un futuro più radioso e migliore. Piombini si fa forte della rivalutazione di quella ch’è sovente oggetto di critiche: l”’anarchia feudale”. Essa «significò assenza di Stato e potere pubblico centralizzato, ma non di ordine giuridico, di società organizzata, di comunità: da questo punto di vista non vi fu niente di meno anarchico della società feudale, la quale fu, al contrario, fortemente gerarchizzata».

Il potere medioevale, infatti, non presentava le tre stigmate della statualità moderna: la sovranità, il monopolio legittimo della forza e la territorialità. I monarchi non potevano creare il diritto, facendo il bello e il cattivo tempo. Essi erano al contrario visti come interpreti di un diritto oggettivo che esisteva prima e al di sopra di loro. Non erano legislatori, ma esecutori . per conto di un’Autorità superiore. Dio. Questo richiamo al divino, che oggi potrebbe apparire retrò, è invece uno dei puntelli della libertà medioevale: il popolo, in democrazia, lo si può prendere in giro; Dio, no.

Forse questo significa che il mondo moderno dovrebbe voltare i tacchi? No, almeno nel senso che sarebbe impossibile al lato pratico. Però gli individui di buona volontà potrebbero trarre utili insegnamenti dal passato e vedervi nuove strategie per migliorare, nel futuro, lo stato di salute della libertà. Del resto, nota Piombini, «se l’organizzazione sociale medievale ha portato l’Europa dalla barbarie al primato mondiale in poco più di un millennio, sotto l’egida del moderno Stato socialdemocratico il tramonto della civiltà europea si compirà molto presto». Il fallimento del Welfare State, la pressione immigratoria, il declino demografico dell’Occidente sono tutte spie di un trend che, fortunatamente, è ancora possibile invertire.

“Una polifonia, con pro e contro «L’ideale libertario – nota l’autore – sarebbe un continente europeo in cui gli stati nazionali si disgregano in un mosaico di giurisdizioni concorrenti». E ancora: «Per avvicinarci a una società libertaria fondata sui diritti di proprietà non occorre inventare nulla di utopistico e rivoluzionario. È sufficiente ricuperare gran parte di quelle istituzioni premoderne eclissate nei secoli dall’ininterrotta avanzata dello Stato. […] Al posto di re e principi oggi troveremo più facilmente grandi compagnie assicurative in concorrenza tra di loro, e al posto dei comuni una miriade di privatopie e città private».

Nella miglior tradizione medioevale, Prima dello stato ha la struttura di un coro polifonico. Alla voce di Piombini se ne uniscono altre, che dibattono le sue tesi. Pietro Adamo sostiene che illibertarismo è figlio della Modernità e ravvisa quindi una contraddizione nella rivalutazione delle istituzioni premoderne. Raimondo Cubeddu sottolinea come non si possano trascurare le ombre del Medioevo: in particolare, l’assenza di libertà all’interno delle comunità e il collant e sociale costituito da un diffuso senso religioso, oggi inesistente. È invece di altro avviso Carlo Lottieri, che rileva il ruolo cruciale esercitato dalla morale cristiana nella genesi del pensiero liberale. Marco Respinti, infine, evidenzia come solidi sprazzi di Medioevo riaffiorino nell’Unione nordamericana delle origini e come essi ancora oggi permangano Oltreoceano.

Prima dello stato s’inserisce dunque a pieno titolo nel filone del revisionismo intelligente, attento alle idee che palpitano sotto il tessuto della storia. Le tesi dell’autore – anche tenendo conto delle critiche mossegli da due dei suoi autorevoli commentatori – possono stupire, ma fanno riflettere. Ch’ è il massimo risultato cui un libro può aspirare”.