Mentre aumentano le difficoltà in Irak e su questo scoppiano dovunque – ma soprattutto negli Stati Uniti ed in Inghilterra – le più violente polemiche, si torna all'indietro e cioè a come venne creato l'Irak, dopo la prima Guerra Mondiale


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Mentre aumentano le difficoltà in Irak e su questo scoppiano dovunque – ma soprattutto negli Stati Uniti ed in Inghilterra – le più violente polemiche, si torna all’indietro e cioè a come venne creato l’Irak, dopo la prima Guerra Mondiale. E non ci sono dubbi: l’Irak fu una “invenzione” di Churchill; fu una creazione fatta a tavolino anche per effetto delle elucubrazioni di Thomas Edward Lawrence, detto “Lawrence d’Arabia”.

E’ interessante ricostruire la vicenda, e lo ha fatto di recente – con abituale e ben documentata capacità espositiva –  Sergio Romano sul “Corriere della Sera”. Ricordando – in risposta ad un lettore – che le cose non andarono proprio come volle la “leggenda” che è stata poi accettata da tutti, con la “travolgente sequenza della conquista di Aqaba, in Lawrence trascina i beduini alla vittoria”.

Le cose – scrive Romano – andarono assai diversamente. Leader della spedizione fu Auda Abu Tayi, che era il vero capo delle tribù beduine fra le quali Lawrence aveva vissuto per mesi.

Secondo David Fromkin, autore di un bel libro sulla spartizione dell’impero ottomano, pubblicato da Rizzoli (“una Pace senza Pace”), “ fu Auda a comandare la spedizione, anche se Lawrence rimase sempre al suo fianco”. Ma il giovane inglese corse immediatamente al Cairo per dare notizia della conquista e attribuirsene il merito. Fromkin aggiunge che “ possedeva molte virtù, ma la sincerità non era fra queste”. Un altro storico, Christopher Catherwood, autore di un libro sulla “invenzione dell’Irak” edito da Corbaccio (“La follia di Churchill”), ricorda che “allorchè il Governo britannico decise di rendere pubblici tutti i documenti relativi alla Prima Guerra Mondiale, i biografi di Lawrence scoprirono che molti passi del libro erano completamente inventati.

Nonostante ciò, Lawrence influì molto sugli Inglesi e la loro politica in quella zona e così “alla conferenza del Cairo del 1922….. Winston Churchill allora Ministro delle Colonie, inventò lo Stato Irakeno” per mantenere l’influenza britannica sulla Mesopotamia.

Ma oggi conclude Romano, si può dire che si dette origine a un “mostro politico in cui tutti i progetti delle potenze imperiali sembrano destinati a naufragare”.

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Il “tramonto dell’Occidente”, in atto, secondo che scrive, soprattutto in Europa ha sempre più precisi punti di riferimento, dove lo si può cogliere meglio che altrove. Secondo le statistiche più recenti da esempio, la Bretagna è sull’orlo di un degrado avanzato, nonostante conservi ancora una possente “stratificazione” culturale e beni storici di enorme rilievo. Sono i giovani quelli che stanno “venendo meno” soprattutto nei centri maggiori; a cominciare dalla “Capitale”, la bellissima Rennes; là vi è una quantità imponente di ragazzi grossi consumatori di droghe, di alcool e di psicotropi. E ancora: il tasso dei suicidi fra i ragazzi è il più alto di tutta la Francia.

Ci sono 60.000 studenti su 206.000 abitanti; ma di recente le autorità comunali hanno lanciato un “appello” preoccupato contro le conseguenze del modo di vivere “zingaresco” di tanti minorenni, che vagano per la città in compagnia dei loro cani.

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Ancora c’è qualche ostacolo per l’arrivo delle merci turche in Europa ma, se si andrà avanti sulla strada dell’ingresso della Turchia nella UE, ovviamente le difficoltà diminuiranno. Con il risultato che ci troveremo “invasi” da prodotti sotto-costo che metteranno in crisi altre nostre strutture economiche.

La Turchia è già adesso assai presente, con i suoi jeans ma anche con i suoi televisori e con l’agroalimentare. Tanto che le esportazioni turche sono aumentate del 100 per mille in tre anni e che il 55% di queste esportazioni viene assorbito dalla UE.

Ci sono, in Turchia, autentici “imperi” industriali, come quello delle “quattro sorelle” Dogan, il cui padre è “il primo contribuente dello Stato” e che possiedono 8 quotidiani, tra i quali i due giornali turchi più diffusi: Posta e Hurriyet, 26 settimanali, 4 catene di televisioni, 3 radio, etc.

Il gruppo, attraverso “Petrol Olisi” controlla la distribuzione di benzina e petrolio in tutto il Paese. E tutto si basa sui salari bassissimi che vengono pagati in Turchia: sui 200/300 euro al mese, specie nei settori del tessile, dell’abbigliamento e della lavorazione del cuoio, che rappresentano insieme oltre il 21% di tutte le produzioni turche.

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Cifre, ancora cifre. Senza farsene ipnotizzare e renderle “esclusive” delle scelte e delle decisioni socio-economiche, esse vanno comunque guardate con attenzione. Specie quelle relative ai settori principali dell’economia. Scriviamo mentre escono le ultime rilevazioni europee sulle spese dette “sociali” che sono ancora – nonostante quello che comunemente si crede – estremamente variegate perché ad esempio si passa dalla Danimarca, che vi impegna il 30% del suo PIL, agli Stati Uniti, dove si scende al di sotto del 15%.

L’ OCDE – l’Organizzazione Mondiale di Cooperazione e Sviluppo Economico – nel suo rapporto ultimo, intitolato “Panorama della Società”, sottolinea che le spese sociali sono raddoppiate fra il 1960 ed il 1980; poi si sono quasi stabilizzate per quasi 13 anni ma che sono in costante diminuzione dal 1993.

E la spinta al ribasso adesso ha raggiunto anche Paesi fra i più avanzati, come la Svezia e la Finlandia.

Ci sono scarti impressionanti che danno la misura di quanto sia stato forte – e di come ancora resista- quello che viene definito “Stato Sociale”; si pensi ad esempio che in Francia l’indennità per i disoccupati fa spendere il 6% del PIL contro appena l’ 1,8% degli Stati Uniti.

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Dal settimanale “Business Week” (Stati Uniti – 3 Ottobre 2005) un articolo sul super-lavoro negli USA. “L’internazionale” lo intitola: “i forzati del 2000”: “negli Stati Uniti il 31% dei laureati lavora più di 50 ore alla settimana, contro il 22% del 1980. Se prima erano gli operai con salari bassi ad avere gli orari più lunghi, oggi sono i professionisti ben pagati. Circa il 40% degli adulti dorme meno di 7 ore a notte , contro il 31% del 2001. “Questa epidemia di superlavoro sfida l’evoluzione storica ed il buon senso”, scrive Business Week. “negli ultimi 25 anni, le nuove tecnologie dell’informazione hanno aumentato la produttività del 70%.  Le conquiste avrebbero dovuto tradursi in una riduzione dell’orario di lavoro, ma non è stato così. La globalizzazione e Internet hanno infatti stimolato la competizione e creato infinite possibilità”. Nell’ottocento gli statunitensi dedicavano in media meno di due ore al giorno agli svaghi e lavoravano 6 giorni alla settimana. Negli anni 70 del ‘900, l’aumento della produttività aveva permesso di ridurre i giorni lavorativi a 5 e la settimana a 40 ore. Da allora però gli Stati Uniti sono andati in contro-tendenza rispetto ai Paesi europei, che hanno cercato di difendere il tempo libero. Invece di risparmiare energie, le nuove tecnologie hanno colpito la qualità della vita dei cittadini statunitensi.

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Crisi alla COIN di Milano, in tutta la “catena” e nei negozi di Corso Vercelli e Piazza Cinque Giornate. A chi si ferma davanti al “gazebo di solidarietà” in Piazza Cinque Giornate, capita di sentire come parlano le donne coinvolte nella vicenda dei licenziamenti; e anche “sindacaliste” e di capire quale mondo umano se ne sta andando a rotoli. Perché saranno pure di sinistra, ma a sentirle – e a leggerle, come mi è avvenuto di fare – resistono ancora anche lì tanti “riferimenti” tradizionali e di buon senso. “L’Unità” ha scritto – con una certa sorpresa – che “quelle signore….sentono per l’Azienda e per il proprio servizio un attaccamento perfino viscerale ……; e dicono “il nostro o il mio negozio” come se fosse loro davvero….” E racconta, la Signora Raffaella: “….malei losa che quando ci siamo messi a smantellare il mio reparto in vista della chiusura di Loreto, per mandare le merci alle altre filiali, io piangevo?…..”

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Giovinezza…..Giovinezza……

Nel mondo 208 milioni di giovani fra i 15 e i 24 anni vivono con 1 dollaro al giorno, e ben 515 milioni con meno di 2 dollari. 130 milioni sono disoccupati, e più di 10 milioni sono sieropositivi. La maggior parte di loro vive in Asia e Africa, e ben più della metà sono donne. Nelle campagne la povertà e molto più marcata che nelle aree urbane.

Sono dati negativi e pessimistici quelli raccolti nel “World Youth Report 2005: Young People today and in 2015”, il rapporto presentato all’ONU con lo scopo di riesaminare il cosiddetto “World Programme of Action”. Questo piano fu varato dall’ONU 10 anni fa con l’obbiettivo di affrontare e risolvere i problemi. Venivano anche fornite ipotesi di misure concrete per ottenere decisi miglioramenti in 15 aree importanti quali la povertà, l’istruzione scolastica e l’AIDS.

Ma per il rapporto ONU sono “tutti propositi rimasti sulla carta”, e dopo 10 anni, poco o nulla è cambiato.

Ciononostante la Commissione presenta delle proposte, ritenendo che sia sempre possibile recuperare. Tra i temi considerati centrali, la lotta contro la discriminazione ancora perpetrata nei confronti delle ragazze e l’impegno a colmare il gap di istruzione soprattutto nel campo digitale.