Il Parlamento all’epoca delle “impronte digitali”

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Non c’è bisogno di commento e neanche di alcuna “sottolineatura”; leggiamo insieme quello che scrive – crediamo, con amarezza profonda, con sincero disgusto – Francesco Merlo su “La Repubblica”; dice, dei parlamentari, che si tratta di “bestiame politico”. Perché nessuno di loro, infatti, “viene eletto e dunque nessuno ha una propria forza elettorale né un territorio che li esprime, li protegge e al quale devono, già a fine settimana, rendere conto. Gli onorevoli deputati della Repubblica italiana sono nominati dal leader del partito e non scelti dal popolo, sono dunque espressione del capobranco che, ovviamente, non tollera più una mandria euforica, disinibita e incontrollabile; non sopporta più i famosi “pianisti” disobbedienti che una volta erano trasgressori eversivie sorprendenti, con personalità troppo autonome e forti per potere essere ripresi, puniti, o, in via preventiva, appunto marchiati. Certo è difficile immaginare – prosegue Merlo – De Gasperi e Togliatti trasformati in un’ impronta digitale, o in una chip nell’ orecchio come avviene con i buoi che passano il controllo del veterinario comunale. E neppure sarebbe stato possibile quando, in tempi più recenti, i partiti, magari già degenerati, comunque esibivano in Parlamento una miscela vincente di acrobati del pensiero o di nani e ballerine, o di signori delle tessere, o di asceti bolscevichi. Insomma, oggi votare al posto di un altro non è più uno di quei momenti di dialettica politica disordinata ed anarchica che avevano reso la Camera simpatica alla vecchia generazione dei cronisti, trasformando, per esempio, l’ andreottismo in letteratura. Non è certo un bello esempio per il Paese che la democrazia debba essere coercitiva, anche se rimane come consolazione l’ idea che a tutti piacerebbe vivere in un modo senza chiavi dove le porte si aprono non appena riconoscono il padrone. Nell’ epoca in cui tutto è riproducibile, e anche i capolavori possono essere pataccati, l’ impronta digitale è l’ ultimo baluardo dell’ identità e dell’ unicità. Dunque una garanzia. Se non ci fosse questo odore di polizia e questa puzza di delinquente. E se i modelli di riferimento non fossero i parlamenti di Messico, Brasile e Albania, che sono Paesi rispettabilissimi ma di non grande tradizione democratica, abituati alle dittature militarie ai soprusi. Essere costretti ad imitarli è una forma di autodegradazione. Una volta avevamo come modelli gli Stati Generali francesi, la Camera dei Comuni di Churchill, i grandi oratori, le passioni, i primati, le sfide tra leader, la qualità del contributo intellettuale. Oggi il leader è Di Pietro, che si intende di punizioni penali, e vorrebbe rendere il voto all’ impronta obbligatorio per tutti e vincere così la resistenza di un gruppetto di ribelli che per adesso è composto solo da diciannove parlamentari, ma potrebbe crescere perché ce ne sono ancora 111 nel girone degli ignavi, che non hanno cioè risposto alla chiamata. È una contabilità penosa – conclude Francesco Merlo – per un Parlamento che ha già tentato di non pagare il conto al ristorante e che dovrebbe essere abituato a ben altre conte e a ben altri conti. Non sappiano quanti deputati alla fine rifiuteranno di farsi prendere queste malfamate impronte digitali. Pare che la polizia sia già sul chi vive. Pronta a confrontarle con quelle lasciate sui luoghi di tanti delitti impuniti.”.

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