Tanto parlato di rientro ma poi, cosa è accaduto?


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Una delle parole-chiavi dello sviluppo nazionale è stato per mesi, anzi per anni, quella di “rientro”; il ritorno degli studiosi e dei ricercatori che se ne sono andati all’estero, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Ma poi cosa è accaduto? Cosa è avvenuto in concreto?

E’ scaduto il 31 gennaio la norma che permetteva le domande “per la chiamata diretta delle Università” che avrebbero potuto “assumere a tempo indeterminato” i 466 «cervelli» rientrati dall’estero, sottraendoli alla tentazione di riandarsene.

Leggiamo Anna Maria Sersale sul “Messaggero” che dei 466 invece solo pochi avranno un contratto stabile e che gli altri, nell’incertezza stanno appunto considerando la possibilità di rifare le valige.

Il belpaese ogni anno esporta trentamila ricercatori e ne importa soltanto tremila. Significa che vengono investite molte risorse nel formare studiosi che il nostro sistema non è poi in grado di trattenere. Questa fuga costa 8 miliardi di euro l’anno. Cifra stimata al ribasso, dicono gli esperti. Per tamponare una perdita così grave gli ultimi governi hanno tentato di riportare in patria i cervelli migliori, che erano emigrati nelle università e negli istituti di ricerca stranieri. «Un tentativo sostanzialmente fallito», sostengono i diretti interessati. La statistica più aggiornata, che comprende il 2006, dice che sono rientrati 466 studiosi di vari settori (prevalentemente scientifici, ma anche esperti di filosofia, giurisprudenza e architettura). Peccato che questo esercito di promettenti e superqualificati ricercatori sia di fatto spinto a riprendere il largo.Possibile che l’Italia, dopo avere sfornato un capitale umano tanto prezioso, gli chiuda le porte in taccia, regalandolo a Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Spagna e ora anche ai paesi emergenti, Cina e India?

Che cosa ci spinge a parlare tanto di sviluppo e innovazione per poi penalizzare chi potrebbe produrii? Secondo gli analisti i problemi sono almeno cinque: meccanismi anti-meritocratici; lavoro precario; arbitrio dei concorsi; taglio progressivo dei fondi destinati all’università e alla ricerca: lobby di potere che frenano i cambiamenti, prendendo il sopravvento sulle iniziative lodevoli, ma troppo fragili, del ministero e del governo. «Incredibile, ma spesso i cervelli rientrati sono stati utilizzati come “tappabuchi” – sostiene Augusto Palombini, dell’Associazione dottorandi e dottori d’Italia-Ci sonoftiiversità che li hanno di fatto utilizzati solo per la didattica». «Troppe rivalità interne, troppi “baroni” che non vedono di buon occhio l’ingresso dei giovani – osserva Guido Fiegna, del Comitato nazionale di valutazione degli atenei -. E poi, c’è il problema del Cun, il Consiglio universitario nazionale, che ha dato interpretazioni restrittive della legge sul rientro dei cervelli, aggrappandosi a una serie di cavilli burocratici». «Il Cun, che da un parere vincolante,-continua Palombini-ha sostenuto che per richiamare dall’estero i ricercatori non basta che abbiano lavorato tre o quattro anni fuori, documentando la loro attività, devono avere anche il titolo di ordinari o di associati, altrimenti finiremmo per creare un canale di reclutamento parallelo, senza concorsi, senza i controlli ai quali sono sottoposti i nostri, rimasti in Italia».

Tra gli scienziati cresce lo scetticismo. «Ci si domanda, se siamo stati attori inconsapevoli di una farsa, che senso ha far tornare i ricercatori, per poi farli ripartire?», chiede il Coordinamento dei Cervelli rientrati”, «L’Italia è uno dei paesi che investe meno in sviluppo e ricerca, costringendo così molti fra i migliori ricercatori a rifare le valigie», afferma ancora il Coordinamento, dei “cervelli rientrati” che dopo essere tornati in Italia o avere rinunciato a posizioni di prestigio, qui non trovano prospettive di lavoro. Se dei 466 rientrati solo una decina avraranno un contratto di lavoro a tempo indeterminato, c’è la palese contraddizione con il “Programma di rientro dei cervelli , inaugurato dal D.M. del 26 gennaio 2001 (Incentivi a favore della mobilità di studiosi italiani e stranieri impegnati all’estero), confermato dal D.M. del 20 marzo 2003 e dal D.M. del primo febbraio 2005. L’obiettivo è il recupero di studiosi di chiara fama o di studiosi che abbiano lavorato per almeno tré anni all’estero presso istituzioni prestigiose. «Il primo a porsi il problema fu Ruberti – afferma Gaetano Dammacco, segretario nazionale aggiunto della Cisi università – poi gli altri, soprattutto Berlinguer e Zecchino si dettero da fare. La Moratti irrobustì il piano, poi per problemi di cassa tagliò le risorse. E’ proprio la scarsità dei fondi una delle cause del fallimento di questo programma».

Pino Rauti