Solo poche aziende prevedono assunzioni


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C’è un’indagine di Unioncamere alla quale ci si può rifare – come sottolinea, in un articolo ottimamente documentato, su “Repubblica”, Luisa Grion:
“Per quest’anno, fiammella in fondo al tunnel o meno, solo il 20 per cento delle aziende prevede di fare qualche assunzione. L’altro 80 starà alla finestra per vedere se la ripresa davvero arriverà o – peggio ancora – aspetterà soffrendo, non rinnoverà i contratti in scadenza e ridurrà la forza lavoro. Alla fine dell’anno, quindi, secondo quanto dichiarano le stesse aziende, si saranno persi altri 220 mila posti di lavoro (circa il 2 per cento sul totale).
Un colpo più duro per il settore manifatturiero (meno 2,5 per cento) che per i servizi (meno 1,4), che colpisce più le regioni del Sud rispetto a quelle del Nord e che vede come “vittime predestinate” le piccole imprese, quelle dove gli ammortizzatori sociali sono minimi e dove, dunque, il lavoro negato ha un impatto immediatamente devastante sulle condizioni di vita della famiglia.
Quando l’azienda è di ridotte dimensioni, spiega infatti lo studio Unioncamere, “è più difficile e oneroso mantenere inalterata, e quindi in parte sotto-utilizzata, la capacità produttiva in attesa che cresca di nuovo la domanda”. Di fatto, rispetto alle previsioni occupazionali, il pessimismo riguarda soprattutto le aziende artigiane e quelle con meno di dieci dipendenti.
Insomma, se l’area metropolitana più legata alle grandi aziende e ai servizi può in qualche modo pensare di difendersi aspettando tempi migliori e conservando le forze necessarie a ripartire, per la “ditta” (indotto o distretto industriale in primis) cavarsela sarà più difficile. La cartina geografica è in questo senso spietata: le cose vanno decisamente meno peggio nelle province del Nord rispetto a quelle del Centro. E il Mezzogiorno sta peggio di tutti. Le grandi aree dell’industria nazionale assorbono meglio il colpo e, come sempre avviene in stato di crisi, i più fragili pagano lo scotto maggiore. A perdere il lavoro saranno per primi i precari, cui basta non rinnovare i contratti ( le previsioni sul 2009 fissano un dimezzamento delle assunzioni a tempo determinato) e le donne. Risulta più a rischio il personale non qualificato che i quadri o i dirigenti…”. – conclude Luisa Grion – “Detto questo, la durezza della partita non si misura solo sui licenziamenti, ma anche sulla cassa integrazione che – pur garantendo un reddito al dipendente – ne dimezza di fatto il potere d’acquisto. Anche qui i dati confermano le preoccupazione della Cei: nei primi quattro mesi dell’anno, ha sottolineato nei giorni scorsi Confindustria, il ricorso a questa forma di sostegno è balzato ai livelli del 1993. E ad aprile, conferma l’Inps, c’è stato un boom: rispetto allo stesso mese del 2008 le ore la cassa integrazione ordinaria, ha registrato un balzo dell’864,2 per cento.”.

(U.G.)