Quel “Colosso” che fu il Colosseo


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Non c’è bisogno di “prove” per attestare come i Romani siano stati grandi costruttori; in un’area sterminata, ne esistono ancora oggi attestazioni evidenti. Ma è proprio sul Colosseo che siamo adesso chiamati a riflettere in occasione di una Mostra sul “ Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi”, che ripercorre anche le gesta dei figli, Tito e Domiziano.

Apprendiamo – ne scrive Francesca Bonazzoli sul “Corriere della Sera” – che la sua inaugurazione, nell’estate dell’80 d.C. fu una carneficina: 5.000 fiere vennero uccise in un bagno di sangue che durò cento giorni, sotto gli occhi di una folla sempre più esaltata. La mattanza che “battezzo” il nuovo Colosso fu aperta solennemente dall’imperatore Tito, il quale ricavò un grande consenso (il popolo lo soprannominò <delizia del genere umano>) da quell’ enorme anfiteatro voluto dal padre Tito Flavio Vespasiano. All’epoca, però, non era ancora del tutto terminato e quindi anche il fratello minore di Tito, Flavio Domiziano, che prese il potere nell’81, se ne occupò perfezionando i sotterranei per consentire messe in scena ancora più spettacolari. Ecco perché, dal nome dal nome della famiglia che lo costruì, l’Anfiteatro fu chiamato Flavio, mentre sull’origine del nome Colosseo si sono fatte solo ipotesi. La prima è che sia dovuto alle proporzioni <colossali>; la seconda alla statua bronzea del Colosso di Nerone collocata a pochi passi e quest’ultima circostanza, secondo alcuni, potrebbe avere indotto il popolo ad acquisire l’abitudine di dire <ad  colossum eo> (vado al colosseo).

L’ellisse misura all’esterno 188 x 156 metri (per un totale di 24 mila metri quadri mentre la Basilica di San Pietro ne occupa <solo> 22.067); per erigere i pilastri della struttura portante furono necessari oltre 100 mila metri cubi di travertino. Secondo alcune ricostruzioni, negli archi del secondo e terzo anello, potevano esserci statue di marmo anche se non sono stati trovati né resti, né impronte delle basi; mentre è certo che nell’ultimo ordine, tra una finestra e l’altra, fossero collocati quaranta scudi in bronzo dorato, di cui restano i fori che li sostenevano e in cui erano forse raffigurate teste di divinità.

La capienza di oltre 50 mila spettatori a sedere, era unica al mondo a fronte dei 20/30 mila posti disponibili nei maggiori stadi. Ma straordinario era anche il velario, l’enorme teloni di lino che proteggeva dal sole e le cui funi venivano fissate dai marinai della flotte di Capo Misero su piastrini che circondavano esternamente l’anfiteatro, cinque dei quali sono ancora visibili davanti alle arcate XXIII, XXIV, XXV.

All’interno, il piano di calpestio in legno dell’arena era cosparso di sabbia gialla (rena) proveniente dalle cave di Monte Mario e l’intero perimetro era disseminato di nicchie per gli arcieri con il compito di uccidere le belve che avessero tentato di superare la rete metallica fra gli spalti e l’arena…”.