“Sicilia ’43, sette soldati USA indagati per i massacri”

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

“L’istruttoria della Repubblica militare di Padova dopo l’inchiesta del “Corriere della Sera” e un’altra fonte italiana ricorda: anche a Butera ci arrendemmo e loro spararono”.

I nomi: i militari USA indagati per l’uccisione nel ’43 di 73 prigionieri e 8 civili: capitano John Compton, tenente Richard Blanks, sergenti Jim Hair e Jank Wilson, soldati John Gazzetti, Raymond Marlow e John Carrol.

Tutto quanto sopra si legge a pag 13 del “Corriere della Sera” del 31 ottobre scorso in un articolo a firma di Gianluca di Feo. C’è anche un secondo piccolo “incorniciato” in cui e detto: “Nuovo caso superstite. Bruno Vagnetti ha descritto la vicenda della sua squadra catturata dagli americani a Butera nel luglio del ’43. <<Dopo 700 metri ci spararono alle spalle, Un commilitone morì subito, in tre restammo a terra feriti”

Ed ecco, per intero, il testo dell’articolo di Gianluca Di Feo:

«Gli americani ci sorpresero alle pendici di Butera mentre stavamo caricando il nostro cannone su un camion. Erano le tre di notte del 13 luglio 1943: un bengala illuminò tutto a giorno e loro ci puntarono contro i mitra. Uno ci urlò in dialetto siciliano: “Alzate le mani. Venite accà”. Noi obbedimmo. Ci fecero camminare per settecento metri. Poi cominciarono a spararci addosso con i mitra. Io fui centrato nello stomaco, ma sono sopravvissuto».

Bruno Vagnetti oggi ha 82 anni: vive a Perugia e non riesce a dimenticare quella notte. E la sua testimonianza va ad allungare l’elenco degli eccidi contro prigionieri e civili compiuti dai militari statunitensi nei primi giorni dello sbarco in Sicilia. Lo scorso giugno, il Corriere ne rivelò cinque. Adesso la lista nera si è allungata e comprende almeno nove differenti episodi. Portano quasi tutti la firma della 45esima Divisione, mentre la vicenda descritta da Vignoni probabilmente è stata opera dei Ranger che espugnarono Butera.

Su questi fatti vuole fare luce la Procura militare di Padova, che sta cercando di ricostruire la mappa dell’orrore. Il procuratore Sergio Dini ha identificato e iscritto nel registro degli indagati sette americani che presero parte alle esecuzioni. Ora l’Interpol dovrà accertare se sono ancora in vita: in tal caso, risponderanno della morte di 36 artiglieri, 37 ‘avieri e otto contadini. Ma la lista rischia di essere molto più lunga e raccogliere più di 220 vittime.

I magistrati hanno scoperto i nomi dei sette americani grazie agli atti dei due processi celebrati dagli americani nell’agosto del ’43 mentre in Sicilia si stava ancora combattendo proprio di fronte al dilagare aI segnalazioni sull’uccisione di prigionieri, vennero subito istruite due corti marziali per giudicare i casi più eclatanti. Una decisione senza precedenti, che forse testimonia la volontà di frenare il ricorso indiscriminato alla vendetta su chi alzava le mani. E’ come se l’inattesa resistenza italo-tedesca nella zona di Gela avesse fatto perdere la testa alle divisioni di punta del generale Patton. Alcuni soldati non dormivano da giorni, molti recitano gli atti della corte – erano sotto l’effetto di psicofarmaci.

Nel primo processo il sergente Horacio West fu riconosciuto colpevole dell’omicidio di 37 italiani e tedeschi, che lui stava trasportando verso le retrovie. Fu condannato all’ergastolo, ma dopo pochi mesi venne liberato nel timore che la famiglia facesse arrivare ai giornali la notizia del massacro: sarebbe morto combattendo in Bretagna. La seconda corte marziale esaminò il caso del capitano John Compton, che fece fucilare 36 italiani catturati in un bunker dell’aeroporto di San Pietro. Compton fu assolto proprio perché dimostrò che esisteva un ordine di Patton: «Il generale ci ha detto: “Anche se cercano di arrendersi, non lasciateli vivere”».

E’ quello che accadde alla squadra di Vagnetti. I cinque fanti del 34 o Reggimento con il loro piccolo cannone da 47/32 avevano partecipato al contrattacco di Gela, che stava per far fallire lo sbarco Usa. «Da Butera dovevamo ritirarci su Piazza Armerina. Quando ci hanno sorpreso avevamo posato le armi per spingere il cannone sul camion. Poi quelle raffiche alle spalle, nel buio. Il sergente Baraldo, che veniva dal Veneto, morì subito. Io, un fante calabrese e il sergente Bertamè di Milano venimmo abbandonati feriti. Un quinto uomo, il sergente Tamborino di Milano, invece era praticamente illeso: fu lui a trascinarci lontano dalla strada. Rimanemmo nascosti per ore. Poi chiedemmo aiuto perché perdevamo troppo sangue: una colonna americana ci raccolse. Ma, quando gli raccontavo cosa ci fosse successo, loro ridevano e mi prendevano in giro: “Sei un pazzo, noi non spariamo ai prigionieri”».

Gianluca Di Feo

(a cura di Pino Rauti)

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