Sviluppo “insostenibile” ecco le conseguenze


[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Siamo alle conseguenze di un tipo di sviluppo che, per effetto del liberalcapitalismo, è diventato “insostenibile”. E le conseguenze sono tanto più gravi se si verificano nei Paesi dove il liberalcapitalismo è più “egemone” o nei livelli e nelle aree sociali dove esso è – o è stato – addirittura “selvaggio”.

Sullo sviluppo sostenibile, ormai da molti anni, esiste una sorta di cultura consolidata; centinaia di volumi ; diecine di convegni internazionali anche del massimo livello.
Si tratta di rispondere ad una delle domande di fondo dell’epoca nella quale viviamo: se era, cioè, possibile soddisfare i nostri bisogni senza compromettere la vita delle generazioni future. Una domanda che, nell’idea stessa, dello sviluppo sostenibile, “nasce e si sviluppa nell’ambito delle scienze sociali e per questo riflette dimensioni sociali e politiche, importanti; oltrechè contraddizioni spesso irriducibili nei rapporti fra Paesi”.
Ci sono – scrive Alessandro Lanza Nel libro”Lo sviluppo sostenibile” quattro aree di rilievo dalle quali ripartire.
La prima è quella demografica. Essa include non solo il problema del numero degli abitanti che il pianeta può sostenere, ma anche la loro distribuzione, le diverse dinamiche fra Paesi ricchi e Paesi poveri, e molte altre dimensioni certamente non secondarie.
Sebbene troppo spesso ricondotto a un dibattito sul numero degli abitanti del pianeta, l’intero argomento, come vedremo più avanti, è certamente più complesso.
Una seconda area è legata al tema della gestione delle risorse naturali. Il problema dell’inquinamento in senso lato ricade certamente in quest’ambito, anche se spesso si tende a limitare il tema dello sviluppo sostenibile al solo controllo dell’inquinamento.
La terza area rilevante nel dibattito sullo sviluppo sostenibile è quella economia; questo significa analizzare i problemi relativi alla crescita del reddito e alla sua distribuzione fra i cittadini di uno stesso Paese e fra i cittadini del mondo. L’idea di fondo è che un Paese in cui il reddito sia distribuito in modo fortemente diseguale discrimina, di fatto, i propri cittadini in termini di opportunità. Quando poi il confronto diventa internazionale, le differenze distributive, relative all’accesso alla ricchezza e ai consumi, diventano semplicemente imbarazzanti per un cittadino del nord del mondo.
Va infine considerata una quarta area, relativa alle istituzioni e agli strumenti nazionali e internazionali necessari ad affrontare il tema.
Nonostante la sua problematicità, il concetto di sviluppo sostenibile è sempre più presente nel campo dell’informazione e quindi nella vita di noi tutti. La stampa quotidiana ha però smesso da tempo di spiegare cosa significhi davvero sviluppo sostenibile e si ha l’impressione che coloro che scrivono sul tema, talvolta non abbiano in comune nemmeno i termini per definirlo.
Ma come nasce l’idea dello sviluppo sostenibile?
Il concetto di sostenibilità “proviene” – secondo Alessandro Lanza – dalla letteratura scientifica e naturalistica, nella quale si definisce sostenibile la gestione di una risorsa se, nota la sua capacità di riproduzione, non si eccede nel suo sfruttamento oltre un determinata (e, diciamo noi, determinabile) soglia.
Questo, per esempio, significa utilizzare il mare per pescare rispettando il ciclo naturale di riproduzione dei pesci.
Leggiamo ancora che il tema della sostenibilità è riferito in generale alle “risorse naturali rinnovabili” mentre le risorse che non hanno questa caratteristica, come le risorse minerarie, sono dei finte “esauribili”.
Conta poco il riferimento – fatto spesso negli anni ’90 – il rapporto tra consumo e riserve. nel ’72 per esempio, si stimavano a 300 milioni di tonnellate le riserve di rame. Mentre, nel 1980, esse sono state “riviste” a quota 500 milioni di tonnellate.
Tornando al tema, troviamo che l’espressione sviluppo sostenibile è diventata molto popolare sul finire degli anni ’80. Nel 1987 è stato pubblicato il suo testo-base, il Rapporto Brutland, elaborato nell’ambito delle Nazioni Unite.
Nel documento, noto come “Our Common Future”, viene data una definizione: “Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” ( ). Partendo da un dato di fatto: il 20% della popolazione mondiale, che vive nei Paesi industrializzati, consuma il 45% della carne, il 58% dell’energia, l’84% della carta. possiede il 74% di tutte le linee telefoniche e quasi il 90% di tutte le automobili.
E, si badi, nel corso degli ultimi tre secoli, la popolazione mondiale è cresciuta in modo enorme: “da circa 300 milioni nell’anno zero, l’umanità ha impiegato ben 1.700 anni per aumentare di 400 milioni, raggiungendo 730 milioni di abitanti nel 1750…”. Da allora, crescita rapida: dal miliardo (circa) del 1800, ai 6 miliardi alla fine del secolo scorso.
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( ) Cfr. anche: “Economia ambientale”, di Turner. Pearce e Bateman – “Il Mulino” – Bologna – 1996 pgg. 44-45
A partire dal 1804, anno in cui si è raggiunto il primo miliardo, sono stati necessari 123 anni perché si arrivasse (nel 1927) ai 2 miliardi; 33, perché si arrivasse a 3 miliardi (nel 1960); 14, per raggiungere i 4 (nel 1974); 13 per arrivare a 5 miliardi (nel 1987) e 12 per arrivare a 6 miliardi (nel 1999). in quell’anno (12 ottobre) le Nazioni Unite hanno celebrato “il giorno dei 6 miliardi”. Da allora la popolazione continua a crescere al ritmo di quasi 200 individui al minuto ed ha <<aggiunto>> oltre 600 milioni di abitanti “nel momento in cui scriviamo: luglio 2006”.
Si è verificato, anche, un “altro, importante cambiamento nella distribuzione della popolazione tra le varie aree geografiche del pianeta; dando luogo all’espressione “transizione demografica” ormai usata da tutti.
L’America Latina, l’Africa e l’Asia orientale hanno visto più che raddoppiare il loro peso negli ultimi 30 anni, mentre l’Europa, caratterizzata da una struttura per età sempre più vecchia, sta crescendo a un tasso sempre più piccolo (circa 10 volte meno dell’Africa). Un numero sempre maggiore di Paesi, che appartengono alle aree citate, cresce a tassi medi del 3% (il che implica un raddoppio della popolazione in poco più di 20 anni). L’equilibrio Nord/Sud è quindi destinato a modificarsi ancora in modo consistente: a ogni abitante del Nord del mondo corrispondevano 2 abitanti del Sud nel 1950, 3 nel 1960, 4 nel 2000, e si prevede ce ne saranno 5 nel 2025.

Pino Rauti