Togliatti: ecco chi fu l’assassino di Gentile

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Su Togliatti quale “moderato”, un politico che era sì venuto dalla Russia ma che si era poi calato a tal punto nella realtà italiana tanto da diventare oggettivamente una sorta di <<scudo>> da Mosca, negli scorsi anni sono state scritte – a sinistra – intere biblioteche che oggi stanno andando piano piano e silenziosamente al macero, man mano che emerge – un po’ dai “pentimenti” e dalle abiure di taluni ex comunisti e molto dagli Archivi e dalle ricerche storiografiche – un Togliatti che invece “filosovietico” fu nei momenti essenziali e sui problemi più importanti; e basti pensare a Trieste e alle Foibe. Adesso, è venuta fuori la vicenda dei retro scena dell’assassinio di Gentile, atto “duro” e spietato come pochi altri nella tempesta della guerra civile che allora imperversava in Italia. E risulta, secondo le ultime acquisizioni storiografiche, quell’assassinio fu voluto soprattutto da Togliatti.

Abbiamo sott’occhio l’intera pagina che in proposito ha dedicato “Il Giornale” del 1 novembre scorso, con un inchiesta firmata da Eugenio Di Rienzo. Il titolo, a tutta pagina è: “Ucciso in nome del trasformismo” – e sopra leggiamo: “Gentile – Documenti storici dimostrano che la sua eliminazione porta la “firma” di Togliatti. L’esecuzione avvenne il 15 aprile del ‘44 ma da oltre un anno era in atto una campagna contro di lui”.

Ma ecco il testo completo dell’articolo di Eugenio di Rienzo, che si ri fa al libro recentissimo di Francesco Perfetti: “Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico”. Del libro di Perfetti, ovviamente, torneremo a scrivere per come l’autore e l’argomento meritano, ma intanto ecco l’articolo di Di Rienzo:

 

“Ricca e abbondante la messe del dibattito giornalistico di questa estate, che ha visto concentrare l’ attenzione delle maggiori testate nazionali su tre temi diversi ma in realtà strettamente correlati: la costruzione dell’ egemonia culturale comunista, le ipotesi relative all’esecuzione di Mussolini e quelle che riguardano l’assassinio di Giovanni Gentile.

Su quella morte, avvenuta il 15 aprile del 1944, nei sobborghi di Firenze, ad opera di un gruppo di fuoco del Pci, si è veramente detto di tutto e di più, contribuendo ad ingigantire la cortina fumogena, fatta di false ipotesi e deliberati depistaggi, che ha avvolto la fine violenta del più grande filosofo italiano del ‘900. Alla pista fascista, secondo la quale Gentile venne eliminato dagli ambienti dell’estremismo repubblichino, per il suo tentativo dì gettare un ponte ideale tra i contendenti della guerra civile, a quella dei servizi segreti inglesi, occulti mandanti dell’esecuzione, a quella ancora più fantasiosa della vendetta massonica, si sono aggiunte ancora altre supposizioni. E, mentre alcuni intellettuali non hanno perso l’occasione dì sporcare la loro canizie, rivendicando la giustizia dì quell’eccidio, è anche affiorata l’ipotesi dì un delitto motivato da ragioni erotiche, per le quali il partigiano-conserviere, Bruno Sanguinetti, avrebbe armato la mano della pattuglia gappista per vendicare l’uccisione del fratello della sua fidanzata, Teresa Mattei, trucidato a Roma dalle SS.

La storia di uno degli episodi più oscuri della guerra italo- italiana ha conosciuto cosi una contaminazione di generi letterari (fantapolitica, spy-story, melodramma), tale da costituire un intricato nodo gordiano, che ora Francesco Perfetti si è incaricato dì dirimere con la forza degli argomenti. Volutamente provocatorio e non «politicamente corretto» fin dal titolo (Assasinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Le Lettere), il volume di Perfetti fa giustizia dì molte divagazioni storiografiche sull’ argomento, grazie ad un imponente apparato documentario in molti casi inedito. Viene così confermata la tesi della diretta responsabilità dei vertici nazionali (lel Pci nell’uccisione del filosofo, contro le supposizioni tendenziose avanzate da Luciano Canfora, in un volume del 1985, più recentemente rilanciate da Emanuele Macaluso, in un articolo sul Corriere della Sera dello scorso agosto, secondo il quale l’assenza di Togliatti dall’Italia costituirebbe prova irrefutabile della sua estraneità con l’accaduto.

Come Perfetti documenta, la sentenza di morte contro Gentile portava invece la firma del massimo dirigente del Pci e veniva emanata da Mosca, già in una trasmissione radiofonica del giugno 1943, dove si sosteneva che «la santa rivolta della nazione contro i suoi tiranni ci libererà finalmente anche da questo filosofo venduto ai nemici della patria». Era l’avvio di una preordinata strategia pubblicistica, che avrebbe coinvolto i massimi responsabili della politica culturale del Pci. In appoggio al sanguinoso auspicio del «compagno Ercoli», interveniva Eugenio Curiel, il 5 gennaio 1944, affermando che la gioventù italiana avrebbe fatto presto sentire a tutti gli «intellettuali traditori», cosa significa «tradire la patria e la civiltà italiana».

Il 23 marzo 1944,Mario Alicata denunciava la . collaborazione degli intellettuali alla Rsi e annunciava che la giustizia popolare avrebbe senza indugio fatto pagare il «prezzo del loro tradimento». Minaccioso era anche l’avvertimento di Concetto Marchesi già nella sua prima versione, pubblicata in Svizzera nel febbraio del 1944. A questa poco avrebbe aggiunto la successiva interpolazione di Girolamo Li Causi, uno dei maggiori esponenti del partito comunista nell’Italia settentrionale, che recitava: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!».

Alle rivoltellate di Firenze, seguiva poi l’immediata rivendicazione del Pci e una nuova campagna di odio, che si sarebbe trasformata in vera e propria dissacrazione del cadavere. Al duro commento di Togliatti del 23 aprile, che annunciava una campagna di violenta epurazione contro gli intellettuali collusi con il regime fascista, faceva eco l’articolo di Antonio Banfi che si concludeva affermando che la stessa «crudeltà della morte di Gentile appariva sproporzionata alla persona, e sembrava gettare non una luce tragica, ma un senso di grottesco su una vita e su un’anima mediocre». Erano gli accenti violentissimi di una condanna che dopo l’eliminazione fisica esigeva anche l’omicidio morale.

Accenti che sarebbero stati ripresi da esponenti di altre formazioni politiche. Se i gruppi azionisti fiorentini avevano infatti dissociato la loro responsabilità dal crimine, diverso era l’atteggiamento del Pda settentrionale, che per bocca di Carlo Dionisotti, in un intervento che a lungo e forse non immotivatamente sarebbe stato attribuito a Franco Venturi, paragonava la fine di Gentile a quella del «giocatore abbandonato dalla sorte e ostinato al gioco nella speranza del successo». Né più pietosi erano i commenti di un altro azionista, Egidio Meneghetti, che di Gentile faceva soltanto il «filosofo del manganello», e, quindi, il responsabile, morale se non materiale, dell’eccidio di Matteotti.

Certi quindi i mandanti dell’omicidio del filosofo, ma è ancora non del tutto chiarito il movente. Ed è in questo punto che l’interpretazione di Perfetti mostra a pieno tutta la sua originalità, sostenendo che l’assassinio del filosofo costituì il primo indispensabile atto della costruzione dell’ egemonia culturale delle sinistre nel nostro Paese. Avvenimento che non trovava giustificazione di alcun genere – né militare né politica, essendo Gentile uomo che non ricopriva cariche pubbliche se non di natura culturale e a mero titolo temporaneo -, la sua morte era indispensabile a rendere realizzabile il vasto fenomeno del trasformismo, che avrebbe portato moltissimi intellettuali a transitare da una aperta adesione al fascismo alla collaborazione attiva, politica e culturale, con il Pci e con la sinistra azionista.

Vivo Gentile, e magari giustamente sottoposto ad un processo per le sue responsabilità, quell’esodo affollato e disordinato sarebbe stato impossibile o almeno molto più difficile. Dinanzi a quel testimone scomodo, come avrebbero potuto tessere l’alibi di un loro nicodemitico antifascismo uomini come Delio Cantimori, Ugo Spirito, Galvano Della Volpe? Come avrebbe potuto sottrarsi ai rigori del procedimento epurativo, sfruttando le compiacenti testimonianze a discolpa offertegli da Guido Calogero, Carlo Antoni, Natalino Sapegno, un intellettuale come Antonino Pagliaro, editore del Dizionario di Politica del Pnf, gremito di quelle rivoltanti voci antisemite che Gentile si era rifiutato di pubblicare nell’appendice dell’Enciclopedia Italiana?

In questo contesto, la morte di Gentile non fu necessaria,come pure si è detto. Fu utile. Utile come l’esecuzione del Duce del fascismo, su quel ramo del lago di Corno, che ancora oggi contiene tanti segreti destinati a intorbidare la moralità della prima Repubblica. Ma il passato nascosto o mistificato non fa la storia, né fa la coscienza civile. A metà Seicento, a Napoli, dopo una furiosa pestilenza migliaia di cadaveri vennero sepolti, coperti da calce viva, in una grande fossa. Su di essa una lapide: «Morti in tempo di peste. Non si scoperchi il sepolcro». Ingrato compito dello storico è invece quello di togliere la copertura alle tombe del nostro passato prossimo. Ringraziamo Francesco Perfetti di averlo fatto e ricordiamo a coloro che, come Sergio Luzzatto, in un recente opuscolo (La crisi dell’antifascismo, Einaudi), lamentano che fascismo e resistenza non sono più in grado di coinvolgere le giovani generazioni, che la responsabilità di tale oblio è soprattutto dovuta ai guardiani della memoria rimossa.”

(a cura di Pino Rauti)

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