La “modernità” delle Case del Fascio

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

Giornale avversario, certamente, “Il Riformista” ma non è la prima volta che ci capita di definirlo anche come giornale intelligente e di alto livello. Dove abbiamo trovato, a firma di Paolo Portoghesi, un lungo e documentato articolo sotto il titolo “La modernità architettonica e sociale delle Case del Fascio” Eccone il testo:

l’Architettura costruita in Italia durante il regime fascista non è durata più di trenta anni. È vero che già negli anni Cinquanta, un grande storico come Bruno Zevi, nella sua Storia della architettura moderna ne aveva proposto una parziale rivalutazione. Ma la condizione di questa rivalutazione era la netta separazione tra gli architetti che avevano inteso il rinnovamento disciplinare come un’adesione al movimento moderno internazionale, da quelli che lo avevano inteso come sviluppo dell’eredità storica, anche se questi architetti si ricollegavano a loro volta a un filone di ricerca di dimensioni europee. Sebbene entrambi i fronti condividessero il distacco dallo storicismo ottocentesco e la ricerca di un nuovo linguaggio, ai primi fu riconosciuto il diritto di entrare nella storia della modernità, ai secondi venne riservato un netto giudizio di condanna. È molto interessante in questo senso analizzare il giudizio di Zevi su Giuseppe Terragni perché esprime molto bene il carattere ideologico delle riserve che impedirono per due decenni di ricostruire una storia attendibile dell’architettura italiana nel “ventennio nero”.(…) Nel nuovo testo (del 1975, ndr) sparisce la “ricerca … di un linguaggio figurativo pel suo paese”, sparisce la “visione civile… classicamente misurata” e si afferma che “la dittatura lo ha costretto al manierismo”. La complessità e contrarietà del giudizio complessivo dimostra come per la generazione che ha vissuto in prima persona l’agonia del fascismo, dare un giudizio sereno e non ideologico fosse praticamente impossibile, come dimostra efficacemente quanto lo stesso Zevi scriverà nel suo Omaggio a Terragni, dove si legge che la Casa del Fascio di Como «di fascista non ha neppure una remota impronta». (…) Chi percorre in lungo e largo l’Italia e osserva architettura e paesaggio con intenti analitici non può non rimanere colpito dal ruolo che tuttora svolgono le “opere del regime”.le Case del Fascio, ma più in generale le opere pubbliche legate ai programmi politici, come eloquente testimonianza visiva di un ventennio de] novecento durante il quale all’architettura fu riconosciuta una funzione centrale come strumento di potere ma anche di comunicazione e servizio sociale.(…) Un bilancio qualitativo, quello delle Case del Fascio, a favore quindi degli interventi più coraggiosi e innovativi in cui però va riconosciuta alla maggioranza professionale, prudente e poco sensibile ai grandi terni della modernità la rapacità “corale” di realizzare una tipologia coerente di indubbia efficacia simbolica. (…) Per concludere questo saggio a sembra giusto però approfondire il tema del significalo della Casa di Como, riconosciuto capolavoro che è ormai entrato a far parte de] piccolo gruppo di edifici-chiave che ben rappresentano il secolo in cui sono nati. In quanto opera d’arte questo edificio riassume non solo il lavoro di ricerca fatto intomo a un nuovo tipo edilizio ma ci consente anche di mettere a fuoco il dramma di un grande protagonista della cultura italiana e, nello stesso tempo, un singolare momento di convergenza e di sotterraneo conflitto tra arte e politica. Gli strumenti per un percorso critico che valuti serenamente i rapporti di Terragni con il Fascismo erano già contenuti nella biografia mussoliniana di De Felice, anche se in essa non si nomina ne l’architetto ne la polemica sulla architettura razionale. Si può tentare di dare una risposta a un interrogativo che viene spontaneo leggendo let estimonianze del lavoro e degli scritti di Terragni: poteva l’idea di cultura portata avanti da Mussolini giustificare la coraggiosa scelta di Terragni per l’innovazione, per la razionalità, la sua battaglia contro l’arte legata agli ideali della piccola borghesia tradizionalista? La risposta negativa di Zevi, di De Seta e degli altri critici influenzati dal conformismo antifascista si basa su una visione sincronica del fascismo che rinuncia a distinguere tra i diversi periodi della sua storia tutt’altro che monolitica e sottovaluta quindi le alterne vicende della cultura progressista nel ventennio. La verità è che la sconfitta finale dei razionalisti ha la sua ragione storica nella svolta invo-lutiva della politica culturale fascista determinata dalla alleanza con la Germania e una attenta rilettura degli avvenimenti del periodo 1934-38 testimonia che il Duce in più occasioni aveva preso partito a favore di quella avanguardia coerente di cui Terragni era l’esponente più coraggioso.(..) Nella sua visione, ingenua quanto si vuole, ma sincera e stabile, il fascismo era un movimento rivoluzionano che fin dai suoi inizi, nel 1919. si era legato all’avanguardia futurista e il suo capo. al quale veniva attribuito, non dimentichiamolo, un ruolo ben distinto da quello dei suoi gerarchl. costituiva per il suo passato e per le continue dichiarazioni, una garanzia che la volontà di rinnovamento avrebbe prevalso alla fine su qualunque remora e qualunque necessità di venire a patti con la difficile realtà di un paese come l’Italia. (…) In questo atteggiamento di fiducia verso il fascismo Terragni non era un isolato. L’architetto che più d’ogni altro apprezzava per il suo coraggio e la sua forza creativa, Le Coibusier, non aveva dimostrato interesse e fiducia per il fascismo? Non si era iscritto, intomo al 1925, al “Fàsceau” di Valois (Cfr R. Gambetti e C. Olmo, Le Coibusier, e L’Esprit Nouveau, Torino Einaudi 1975, p. -tó, n. 117) e non aveva, nel 1933,nel volume su La ville Radieuse(.’. pubblicato la fotografia di una radunata oceanica a piazza San Marco a Venezia, indicando nella manifestazione un sintomo del fattoche in Europa a Roma, a Mosca, a Ber -lino “folle immense si riunivano intorno a idee forti»? Non avrebbe poi visitato Roma nel giugno del 1933, mostrandosi disponibile a collaborare con il Regime? E lo stesso non fece, poco dopo, Walter Gro-pius? La verità è che il fascismo, in quel momento, riscuoteva credito in Europa e un giovane della generazione di Terragni, deci-so a sposare la causa del rinnovamento radicale in funzione delle esigenze di un mondo profondamente cambiato, poteva ben credere che il fascismo in quanto “forza rivoluzionaria” fosse più adatto della democrazia a imporre lo stile di vita moderno e l’architettura capace di esprimerlo, realtà decisamente minoritarie specialmente in Italia. Si tenga conto tra l’altro che essendo una sola persona il depositario incontrastalo della volontà politica del regime, di fronte alle remore e alle contraddizioni della gestione locale del partito, e di fronte all’ostilità di molti gerarchi verso il rinnovamento e la libertà delle arti c’era sempre la possibilità di attribuire al Duce il ruolo di fare chia-rezza a vantaggio della giusta causa. E Mussolini, nella sua ambiguità, era ben lieto di svolgere questo molo di Sibilla Cumana e di depositano delle speranze dei giovani. Nei giovani fascisti come Terragni c’era probabilmente anche la fiducia e la spe-ranza che dopo il consolidamento del potere il fascismo avrebbe scoperto il suo volto rivoluzionario messo tra parentesi nei primi anni dopo la conquista del potere.

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