Pino Rauti “Alternativa e futuro” – Intervento al XVII congresso nazionale del M.S.I. – Fiuggi, 26 gennaio 1995

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- Trascrizione non corretta -

Cari delegati del XVII congresso nazionale, io sono certo che mi crederete tutti, davvero tutti, quando vi dico che anche e soprattutto dopo gli ultimi interventi mi accingo a parlare con l’abituale chiarezza, ma anche con nell’animo sentimenti contrastanti; di ansia, di amarezza… un po’ di tristezza forse, mentre incalzano, si intrecciano – e non da oggi: da settimane, da mesi tra di noi tante domande cui non trovo risposta. E non mi viene data a tutt’oggi, fino a questo momento, nessuna risposta. La principale domanda che mi urge dentro non mi è nuova: l’ho detta in qualche manifestazione provinciale. La domanda principale è questa: perché mai, proprio nel momento in cui abbiamo potuto incominciare a celebrare, a gustare, ad inebriarci del nostro massimo successo, mai toccato prima, ci si è cominciata a chiedere la rinuncia ad essere noi stessi. Perché, cari amici del congresso, su due cose non vi possono essere dubbi: che il successo, quel successo, ha premiato, a cominciare dalle amministrative dell’ottobre e del novembre del ’93, quarant’anni di battaglia nostra, di battaglia missina condotta sotto il simbolo del M.S.I.. A premiare anche – e pure di questo possiamo esserne certi – tutti senza esclusione alcuna tra di noi, a premiare soprattutto – io direi – in quella battaglia la nostra coerenza, la nostra continuità, la fedeltà nelle stesse idee. Eppure proprio da allora, ecco l’analisi politica – si è chiesto il ragionamento, l’analisi: analizziamo, ragioniamo – proprio da allora ha avuto inizio questa operazione che oggi si conclude qui con la confluenza, fusione, trasformazione, evoluzione – beh, abbiamo sentito ieri Fini, io lo ringrazio dir quella chiarezza – con la fine sostanziale del M.S.I. come soggetto politico specifico e con la nascita, anche questo è stato detto con molta chiarezza e la stampa stamane lo recepisce tutta, la nascita di un altro e diverso – e a mio avviso ben diverso! – soggetto politico. E questa è la seconda cosa sulla quale non sono ammessi dubbi: la svolta c’è! Ed è una svolta radicale che il M.S.I. riconosca, autoriconosca concluso il suo compito, il suo ruolo politico, la sua funzione che, insomma, noi si esca da quell’involucro, da quella struttura, da quella sigla, come lo stesso Fini ha detto ieri, si esca con lo stesso stato d’animo con cui ad un certo punto si esce dalla casa paterna per andare altrove sapendo che a quella casa paterna non si potrà più tornare. Nasce un altro soggetto politico, nuovo e diverso da noi. Da quello che noi siamo stati. Ed ecco i sentimenti di cui vi dicevo all’inizio: perché se per taluni si tratta di mettere in discussione poche recenti anni della propria vita, per altri, per me, per tanti altri – Tremaglia, Baghino e ne potrei citare altri… – si tratta di una vita intera non solo di impegno e militanza – non spetta a noi dirlo, potreste farlo voi! – ma anche una vita, uno sforzo di pensiero e di cultura. Abbiamo quindi il pieno diritto, il sacrosanto diritto morale prima ancora che politico di chiederci e di chiedere a noi stessi e a chi è fautore nelle sue forme più estreme di questa operazione quale è il volto, quali sono i contenuti del nuovo soggetto politico mentre in esso, in questo nuovo soggetto politico, si vorrebbe calare, trasformare, fondere tutto intero il popolo missino, tutta intera la sua storia; risolvere o sciogliere le passioni e i sacrifici di quasi cinquant’anni di battaglia politica. E il volto e i contenuti noi li abbiamo nel proposto articolo 1 del nuovo statuto. Li abbiamo soprattutto – attenzione! – per omissione, per ciò che quell’articolo non contiene e li abbiamo nelle tesi i contenuti per ciò che invece che quelle tesi ampliamente dicono in decine e decine di pagine, quasi duecento pagine. Volto e contenuti, a mio avviso, di una formazione politica liberal-democratica, libera – conservatrice e di destra conservatrice. Abbiamo sentito testè Tatarella: “Dobbiamo batterci per completare a destra – con riferimenti sui quali poi tornerò, alla destra storica – il sistema democratico”. Un regime monco, dicono Tatarella e non solo lui – ho sentito Fisichella ieri sera al TG3 – un regime storicamente monco, come un’anomalia tipicamente italiana che adesso noi dobbiamo contribuire a sanare. Basta una sia pur breve analisi del nuovo art. 1, se lo poniamo però a confronto con l’art. 1 del precedente statuto, perché le affermazioni di questo genere di documenti politici sono sempre tali che la prima lettura con interessata superficialità può spingere a dire: “Non c’è niente, perché non firmarlo? Perché non aderire?”. Ma se facciamo un raffronto per un attimo solo con l’art. 1 del vigente statuto noi vi ritroviamo delle omissioni che sanno di rinuncia,delle rinunce che sanno d’abiura. C’è, è evidente e la stampa l’ha colta subito, la rinuncia al corporativismo il che implica la rinuncia a tutto il nostro programma sociale. E’ chiaro che sul corporativismo noi abbiamo discusso infinite volte, che ci siamo sempre lamentati del fatto che gli avversari con la famosa guerra, Almirante aveva ragione anche su questo, la famosa guerra delle parole avevano e davano del corporativismo a volte l’interpretazione opposta a quella che diamo noi, ma tra persone che fanno politica il corporativismo era ed è quell’impostazione che mirava alla creazione di uno Stato organico, all’inserimento delle categorie nella struttura giuridica dello Stato; questo era il corporativismo così come è stato storicamente, non attuato, storicamente inteso e culturalmente supportato. Non c’è anche nell’art. 1 nuovo quello che invece non mancava ovviamente nell’articolo 1 dell’ancora vigente statuto: “Mediante l’alternativa corporativa” il che stava a significare tutta intera la nostra progettualità verso un altro nuovo tipo di Stato, di economia, di società al limite, sia pure finalisticamente e strategicamente, verso un altro modello di sviluppo. E c’è, e come non c’è, c’è anche la rinuncia alla continuità ideale, non a quella generica del popolo italiano che poi nessuna interpretazione o analisi politica può mettere in discussione: un popolo è sempre continuità come organismo, diceva Maurras, come organismo che non muore mai al di là dei regimi politici. La nostra, la nostra continuità ideale, storica, sociale, di contenuti, di programma, di aspirazioni, di alternativa; il taglio delle radici e il taglio della storia, la scelta volontaria, potremmo dire dell’eutanasia. Eh, e quando si dice perdita, perdita della memoria, beh si dice una cosa grave e importante perché da qualche tempo nel nostro ambiente, beh noi abbiamo visto mettere in discussione cose importanti, cose essenziali: siamo partiti – dato di percorso: l’iter di Alleanza Nazionale – siamo partiti da un qualcosa che doveva contenere noi con la nostra specificità e siamo via via passati con un crescendo non certo casuale ma anzi devo dire accuratamente studiato e lucidamente suppongo predisposto con più atti esecutivi del medesimo disegno come dire… liquidatorio: siamo passati ad affermazioni che mai avremmo pensato di sentire, non dico ai vertici, ma anche nell’ambito delle nostre file.

 

Non c’è niente di personale, caro Fini, se io a questo punto mi debbo rivolgere personalmente a te per talune tue affermazioni che non ho condiviso, che non condivido, ne ho parlato pubblicamente: “Le due dita di polvere sull’Opera Omnia di Benito Mussolini”, ma perché? Ma chi ce l’ha fatto fare? Ma chi ce lo chiede? Avevamo cominciato col dire agli altri: “Noi non discutiamo – purchè abbiate le mani pulite, non siate coinvolti in tangentopoli, abbiate fatto i vostri percorsi in assoluta limpidità di pensiero e di opere, noi non vi chiediamo giustificazioni del vostro passato ma non ci chiedete di rinnegare il nostro passato”. E siamo arrivati, ripeto, ad affermazioni che meritano, meritano non la polemica per i facili, sempre facili applausi di tipo congressuale (figuriamoci se questa è l’occasione, soprattutto per me), che meritano approfondimento quando per esempio Fini ad una intervista a “Le Monde”, titolo a tutta pagina: “Io ho ripudiato solennemente – Je repude – la dittatura di Mussolini”, è un non senso politico perché lascia presupporre che prima di Fini e dell’attuale segreteria e di Alleanza Nazionale il M.S.I. si sia battuto per riprendere la dittatura mussoliniana; il che non è: né Almirante nè De Marsanich né Romualdi, nè Anfuso, nessuno di noi, neanche io quand’ero, se mi si consente, segretario di questo nostro partito ci siamo mai battuti per riprendere la dittatura mussoliniana. Abbiamo tutti correttamente inteso l’analisi del come e del perché c’era stata la dittatura mussoliniana. La dittatura non esiste in termini di dottrina politica, solo la infinita sapienza giuridica dei romani l’aveva prevista come ricorso straordinario ed eccezionale, il dictator per 6 mesi, massimo 3 anni ma non esiste nella dottrina politica: è un incidente della storia, è un emergenza della storia. E la storia discute sempre e a lungo sul fatto che certe dittature sono state positive o altre negative: ancora si stanno interrogando se è stata negativa o positiva – e pensate un po’! – la dittatura di Comwelt che secondo taluni fece nascere l’Inghilterra moderna. E altre dittature, perché ci furono certamente non a caso, un piccolo escursus storico, ci furono in quel periodo fra le due guerre sì, accanto alla dittatura mussoliniana, altre dittature: non a caso la dittatura di Mannerheim salvò la Finlandia dalla Russia sovietica; la dittatura di Pilsudskj salvò la Polonia dall’armata rossa che era alla periferia con Budiennj e i suoi cosacchi a cavallo che era alla periferia di Varsavia: ancora oggi pensate un po’, se la Turchia non è preda dell’integralismo islamico e Dio sa che iattura sarebbe è perché ci fu allora la rigida e severa dittatura laica di Kemal Ataturk. Ce ne furono in quegli anni ed esse obbedirono tutte alla stessa logica profonda che ci fa comprendere – non giustificare, comprendere, calare in quel contesto storico – anche la dittatura mussoliniana la quale se ci si consente, fu non solo il frutto, l’intreccio, la conseguenza, la ricaduta – ditelo come lo volete – di una personalità indubbiamente eccezionale e questo è l’humus da cui nasce il dittatore, ma fu anche dovuta dalla necessità di salvare l’Italia non dal comunismo ma dal bolscevismo. Quella dittatura salvò l’Italia nel ’22 dal bolscevismo così come salvò l’Europa nel ‘36 intervenendo in Spagna; la storia del mondo sarebbe stata diversa se noi non avessimo vinto in Spagna e gli altri non avessero perso in Spagna. Ma ci fu anche un motivo più profondo, più politico e culturale che dovrebbe mettere in guardia noi e soprattutto noi, in primo luogo noi missini, da certi facili azzeramenti: ma l’anticomunismo soltanto, per dirla con il Nolte degli ultimi suoi due o tre volumi, non sarebbe bastato se quelle dittature non avessero anche tentato, e in parte non fossero anche più o meno riuscite a legarsi, a collegarsi all’altro grande fenomeno di quel momento storico: l’irruzione delle masse sulla scena politica e sociale. Le dittature furono lo strumento di nazionalizzazione prima e socializzazione poi delle masse per evitare che quelle masse sprofondassero nel comunismo e nel bolscevismo e per trarre anzi dal loro impulso qualche cosa che andava, caro Tatarella, andava molto al di là del completamento della democrazia e della nascita di un partito democratico di destra perché quella intuizione mussoliniana che significò lo Stato corporativo nelle sue premesse, nelle sue speranze, nelle sue aspettative, e non mi venga a dire Fisichella che poi tutto questo fu deviato: eh, certo, i sogni con cui si va al governo non sempre possono realizzarsi in tempi brevissimi, mentre si dava luogo a quel tentativo accaddero altre cose! Per esempio la grande crisi economica del 1929, ma lo dimentichiamo? L’Italia fu chiamata stringere la cinghia ma andò avanti; l’America ricchissima ebbe migliaia di suicidi per disperazione per quel tracollo; l’Inghilterra e la Francia che avevano imperi sterminati ebbero rispettivamente otto e dodici milioni di disoccupati mentre l’Italia proseguiva. Ecco, per dirvi, le incertezze della storia che non consentirono al grande disegno corporativo: nazionalizzazione e socializzazione delle masse, creazione di un tipo diverso di società, di economia, di Stato – le grandi affermazioni di Alfredo Rocco – perché attraverso quella strada entravano in scena e tentavano di reggere, reggimentale la vita degli stati le competenze e le professionalità e veniva avanti la complessità e quello che definirei il suo farsi spessore della società moderna nei nuovi sviluppi tecnologici, nei laboratori con le sue concentrazioni sul territorio attraverso la grande nascita dei centri urbani metropolitani. Dittatura, certo. Fu il tempo delle dittature, dei grandi personaggi carismatici in quegli anni tempestosi ma, ripeto, quella emergenza della storia noi l’abbiamo sempre tutti correttamente interpretata e posta nel contesto storico: non ci si può accusare adesso, all’improvviso, di aver spinto e tramato per la ripetizione della dittatura di Mussolini. E questo valga anche per la democrazia, per la nostra che non è una conversione, che è, come ha ricordato stamani Buontempo, qualcosa che ci appartiene per quarant’anni di esperienza politica passati durissimamente all’opposizione e durissimamente pagati in nome dell’opposizione; e non abbiamo bisogno di pagelle, non abbiamo bisogno di imbuti ideologici come dice Publio Fiori. I nostri esami li abbiamo passati e li abbiamo superati agli occhi del popolo italiano, aggiornandoci, andando avanti. Perché vedete, amici del congresso, il brutto di questa polemica sapete qual’ è? E’ che avendo messo in discussione qualcosa di importante, di essenziale che è storia, che è memoria storica, che non va soltanto come si dice “consegnata alla storia” – beh all’ora facciamo un museo e abbiamo risolto il problema – ma intesa diversamente. Lo abbiamo detto tante volte ma si obbliga gente come me, che certamente di tutto è stata potuta essere accusata in questo partito – e lo è stata! – a fare quasi la figura del nostalgico mentre io querelerei, se potessi, chiunque mi desse del nostalgico per quel che riguarda la forma. Non mi preoccupo amici, del passato! Lo difendo, lo storicizzo nel senso che lo calo nel contesto storico in cui tante forze contrastanti ebbero a sagomarlo in quel certo modo, ma non è il passato che si difende benissimo da solo come dimostrano tante opere storiche (non siamo stati noi, anche se ne eravamo convinti, è stato un De Felice e tanti altri a parlarci del consenso di massa; è stato, pensate un po’, un Giorgio Amendola in quel libro interessantissimo che pochi anno letto – ma io l’ho letto! – “Intervista sull’antifascismo” quando ha fatto sul consenso che ebbe il fascismo i riconoscimenti più importanti e preziosi perché venivano da un esponente d quel comunismo che dal consenso fascista tra il 21,22 e 23 era stato clamorosamente battuto. Non è il passato che mi preoccupa, è l’avvenire! Perché, cari amici, voi dovrete sentire ancora molti lunghi discorsi e il mio certamente non vuole essere lungo, perché in sintesi se mi chiedessero dopo tante polemiche e tante battaglie, se mi chiedessero anche dopo qualche studio e qualche volume, se mi chiedessero quale è stato il senso, il significato, l’essenziale; non la forma, non il regime politico che è indubbiamente legato ai tempi e con i tempi transeunti ma il messaggio di quelle esperienze e non solo della nostra, ma di tutta la tormentosa esperienza europea fra le due guerre mondiali; qual è stato il filo, io direi è stato soprattutto un messaggio sociale, il messaggio del superamento tanto del capitalismo quanto del marxismo allo stesso titolo. Quello era il seme della verità, non rappresentato appieno, certo! Il regime aveva allora altre esigenze, altre cose che incalzavano e che lo presero maledettamente alla gola, ma quello era il senso e il significato, quello ch infiammò l’Europa, quello che trasformò la seconda guerra mondiale in una guerra ideologica, con fanatismi, certo, ma con afflati religiosi per andare avanti, andare oltre. E oggi, oggi, cari camerati, il comunismo è caduto e ha perso irreversibilmente: certo, c’è il rischio che D’Alema, il PDS, lo schieramento di sinistra faccia ancora delle incursioni nell’anticamera del governo ma mai fine è stata così completa, così irreversibile; mai tracollo è stato così vergognoso. Quello che è successo in Russia, nell’ex impero sovietico che fu anche, perché non ricordarlo, l’utopia, il sogno, l’illusione di centinaia di milioni di uomini, è finito in frantumi per sempre. Ha vinto l’altro corno del dilemma, cari camerati. Ha vinto il liberal capitalismo! E allora la domanda che già circolava intorno a noi oggi ce la vediamo porre all’interno di noi addirittura ce la vediamo calare addosso dai nostri vertici: “tutti si sono arresi al liberal capitalismo, – dissi due congressi fa – che facciamo? Ci arrendiamo anche noi?” Ci possiamo anche arrendere, unirci al coro, completare la democrazia sul versante di destra come dicono Tatarella e tanti altri, la stragrande maggioranza dei delegati, oppure conservare questa che era la nostra specificità. Noi non eravamo soltanto dotati di una nostra specificità, come abbiamo detto tante volte – tuttii partiti hanno la loro specificità – noi avevamo una nostra diversità, quella che ci faceva parlare, e Almirante lo fece per anni splendidamente, che ci fece parlare di alternativa al sistema. Solo noi pensavamo, e sembrava iattanza poterlo dire noi col 4 -5 % dei voti, “alternativa al sistema”; utopia ma quello era il lievito che ci teneva in piedi e ci motivava perché sapevamo che presto o tardi noi assomigliavamo a quelle molle che a lungo possono essere rapprese e compresse ma che quando cominciano a scattare si sa da dove partono in senso di consenso ma non dove arrivano. E siamo arrivati, Fini, al tuo 47% a Roma, siamo arrivati al 48% non con AN ma con Alessandra Mussolini a Napoli quando il suo cognome lo sventolava e parlava una parola sì e l’altra sì di suo nonno. Quello fu il gran successo! Da allora fu messa in luce una realtà, cari amici, e la cosa ci sfuggì, sfuggì a tutti, certamente sfuggì a me. Fu messo in luce il fatto che non c’era solo il crollo del partitismo della prima repubblica ma che c’era il venir meno dei punti di riferimento di 18 milioni di elettori. Noi su quei 18 milioni di elettori ne prendemmo 3 milioni in più, gli altri erano a disposizione, pronti ad orientarsi; fu allora che Berlusconi decise di scendere in campo, attenzione, perché prima aveva manifestato un indubbiamente utile orientamento favorevole a Fini ma la scesa in campo comincia ad adoperare dopo, e fu dopo, un attimo di attenzione ancora, fu dopo a mio avviso che scattò una complessa operazione che aveva noi al suo centro. Questa specie di fiume in piena venuto alla luce dopo un lungo percorso carsico di 40 anni, venuto alla luce impetuosamente, limpidamente come un torrente che aveva le caratteristiche della inarrestabilità perché prendemmo 10,15,19,20 comuni anche grossi impetuosamente – l’allora rautiano di ferro Viespoli che prende il 74% a Benevento, ma che non lo sapevano chi era? Ero stato a Benevento diecine di volte accanto a lui, lo sapevano chi era, quali tesi allora sosteneva. Eppure prese il 74% dei voti! – e la prima cosa che noi cominciammo a dire, tutti, me compreso: “ma non saranno tutti fascisti questi che hanno votato per noi, ma non saranno tutti missini!”. Dovevamo dire il contrario! Perché porre limiti alla provvidenza? Si stavano convincendo a votare per noi ed allora noi che andiamo ad inventare? Non qualcosa che ci affianchi ma qualcosa in cui dovremmo sostanzialmente scomparire.

 

Perché? Ecco la domanda iniziale, cari amici, cari camerati, se ancora posso dire questa parola. Perché la prima impressione che noi dovevamo avere era questa: la tesi semplice, elementare del contadino, uomo con i piedi sulla terra – ho letto recentemente un libro bellissimo: sta scomparendo dal paesaggio umano l’home de terre, l’uomo che ha i piedi sulla terra – quando il contadino vede un buon raccolto, che cosa dice? “I seminatori sono stati bravi!” E se vi riflette ancora di più dice:” Il seme era buono!”. E allora oggi che viene raccolta tanta copiosa messe di consensi elettorali, beh i seminatori, noi, noi prima, tutti noi dalla Repubblica Sociale in poi siamo sati buoni seminatori. Io non mi aspettavo dai nuovi venuti archi di trionfo, ma rispetto sì! Ma riconoscimento di quello che abbiamo fatto sì! E non abbiamo rischiato la vita nostra e delle nostre famiglie per sentirci dire: “Ci sono gli imbuti ideologici per Rauti o per Buontempo o per tanti altri” – No! – E non abbiamo diviso il mondo, caro Tatarella e sparso, non dirò sangue anche se potrò citarlo, ma tanta passione, tanto tormento nell’umanità contemporanea per arrivare poi a questi risultati: alla destra storica che è il “nuovo”, pensate un po’. Io sono andato a guardare i libri, la destra storica italiana… beh una traccia recente l’abbiamo quando una certa esperienza si conclude con Minghetti nel 1876. Quella è la destra storica italiana: tanti saluti al nuovo! Ma, dice, c’è anche Salandra e Sonnino. Lo sappiamo, lo sappiamo! Salandra e Sonnino… una certa destra, che tipo di destra, cari amici e camerati, quella che piace tanto ai Tatarella, Fiori, Fisichella? Salandra e Sonnino. Per quello che mi riguarda una destra che sarebbe stato meglio mettere in manette perché negli anni di quella destra l’Italia diventava terzo mondo: milioni di italiani erano costretti ad emigrare all’estero, il 20% della popolazione italiana soprattutto dal sud; perché in quegli anni di quella destra 60.000 italiani morivano di tubercolosi ogni anno; perché c’erano le paludi alle porte di Roma e non c‘era acqua nel tavoliere delle Puglie e a Bari; perché non c’erano fognature nel 90% delle città italiane. Chi ha modernizzato l’Italia, l’ha strappata al terzo mondo, con la dittatura, certo, come acceleratore inevitabile dello sviluppo di un paese in un momento drammatico della vita del mondo è stata l’esperienza del ventennio. Se fosse stato per Salandra e per Sonnino ancora saremmo con i vertici delle malattie diffuse in tutte le classi della società italiana e con l’emigrazione che ha dissanguato il nostro paese. Non per quella destra abbiamo combattuto, non quella destra ci ha attraversato, preesisteva al fascismo; altre cose preesistevano al fascismo: tutto un pensiero attivistico, irrazionalistico, romantico, se vogliamo, ed è inutile star qui ad indicare i nomi: li abbiamo detti in tanti congressi, fanno parte a pieno titolo – loro sì! – della nostra cultura. Per cui la domanda è questa prima di arrivare alla mia personale conclusione: un congresso fa, due congressi fa non ricordo – ad una certa età i ricordi affluiscono alla mente – io dissi, cercai di mettermi nei panni e nell’animo di un giovane comunista che a Shanghai avvista un certo giorno il famoso cartellone della Coca Cola che mi è rimasto impresso in mente, certo quel giovane comunista, dissi, si sarà chiesto: “Ma valeva la pena di fare una così lunga marcia con tutto ciò che ha comportato di sacrifici per gli altri e per noi, anche per noi ma soprattutto per gli altri – decine di milioni di morti – per arrivare alla Coca Cola? Potevamo arrivarci prima. Caro Tatarella, ma valeva la pena aver fatto la marcia su Roma, il corporativismo, la socializzazione e la Repubblica Sociale Italiana per poi andare a completare il regime di destra sul versante di destra e fare la destra conservatrice? Potevamo farlo prima! E se noi quello che oggi si vuole fare lo avessimo fatto nel ’48, 49 nel ’50 saremmo stati ministri sin da allora senza esporci su tante trincee come abbiamo fatto noi e i nostri giovani in tutti questi anni. Ma pensate se Almirante avesse fatto questa operazione: sarebbe diventato Presidente delle Repubblica ma lui ci diceva – a me disse, a noi disse, perché io sono stato avversario, leale, di Almirante in tante polemiche ma anche suo vice segretario per un lungo periodo e lo considero il più fervido e il più bello della mia vita – ci diceva sempre: “Ci sono le colonne d’Ercole che noi non possiamo superare”. Perché anche allora c’era la tentazione dell’andare a fare la stampella del regime mentre Almirante ci parlava di corporativismo, di alternativa corporativa, di alternativa al sistema per spronarci, per mandarci avanti, per tenerci in piedi. Lo potevamo fare sempre quello che oggi ci si propone e strano che oggi si venga a proporlo nel momento in cui assaporiamo la nostra vittoria migliore. Ora cari amici del congresso, io so, lo sapete tutti che sono in corso raccolte di firme emendamenti per poter migliorare i testi con i quali siamo approdati a questo congresso e abbiamo avuto anche una prova su un punto particolarmente importante, quello dell’antifascismo, sul quale ha insistito a lungo il camerata Tremaglia. Io spero sinceramente spero che questi sforzi arrivino a conclusione positiva nella giornata di domani che viene ad essere quindi non soltanto la giornata conclusiva del nostro congresso ma la più importante, quella nevralgica, quella decisiva. Se questi sforzi saranno di natura tale da far si che nel nuovo soggetto politico che va a nascere da questo congresso ci sia posto per una dignitosa presenza non di uomini – la cosa non mi interessa!- ma di idee e di tesi, noi saremo i primi ad esserne lieti ma se questo non accadrà, beh l’ho già detta la situazione: è come se a un gruppo di cristiani si dicesse all’improvviso:”Diventate buddisti!”. Voi potete diventare anche buddisti; io resto cattolico, apostolico, romano; io resto in termini politici missino, orgogliosamente missino e come tale vi saluto gridando: “Viva il Movimento Sociale Italiano”.

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