Etiopia 1941. Inferno a Culqualber

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[La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati]

“Il carabiniere” è stato l’unico giornale – per quanto è a nostra conoscenza – che abbia, ricordato a suo tempo, quel novembre del 1941, quando a Culqualber  fu piegata l’ultima resistenza italiana in Etiopia. Una pagina gloriosa, scrive Marco Martelli – un episodio che vide i Carabinieri, chiamati a presidiare un valico di montagna che difendeva Gondar. Lo difesero da eroi; morirono quasi tutti. Ecco l’articolo di Marco Martelli, che ci spiega di non poter supportare con le foto – bellissime – che invece compaiono sulla rivista:

Una pagina gloriosa. Qualcuno definì il sacrificio dei nostri soldati a Culqualber (nel novembre del 1941) «le Termopili dei Carabinieri». Come in Tessaglia – nel 480 avanti Cristo – dove i trecento spartani guidati da Leonida sacrificarono la vita per difendere la loro patria, i carabinieri nella sella di Culqualber, nella lontana Etiopia, si immolarono per tenere la postazione. Un giornale di allora raccontò l’inferno con queste parole: «l carabinieri di Culqualber rimasero imperterriti al loro posto. Continuarono a combattere per giorni e mesi contro un nemico cento volte più forte e più numeroso, contro un nemico che aumentava continuamente di mezzi e di effettivi, di armi e rifornimenti, mentre loro, gli eroici carabinieri, diminuivano sempre di numero e di forze; ed ogni giorno scemavano per loro a vista d’occhio le munizioni, le provviste, i medicinali; ad ogni attacco i superstiti vedevano assottigliarsi lo stremato battaglione, mancare all’appello altri eroici compagni, altri prodi. Eppure non cedettero: mai. Non pensarono mai che si potesse cedere. Non si arresero né alle minacce né alle lusinghe dell’avversario, sempre più incalzante, sempre più rifornito e imbaldanzito. Sono morti quasi tutti, al loro posto di combattimento e di sacrificio. Sono caduti inchiodati alla consegna, fedeli al giuramento, degni delle fulgide tradizioni dell’Arma fedelissima».

Molto simile il comunicato del Bollettino delle Forze Armate, in data 23 novembre 1941: «Gli indomiti reparti di Culqualber-Fercaber, dopo aver continuato a combattere anche con le baionette e le bombe a mano, sono stati infine sopraffatti dalla schiacciante superiorità numerica avversaria. Nell’epica difesa si è gloriosamente distinto, simbolo dei reparti nazionali, il Battaglione Carabinieri, il quale, esaurite le munizioni, ha rinnovato sino all’ultimo i suoi travolgenti contrattacchi all’arma bianca. Quasi tutti i Carabinieri sono caduti».

Una pagina gloriosa. Scritta da uomini valorosi che – da mesi – vivevano in condizioni spaventose, costretti ad affrontare privazioni tremende. Mancava il cibo: e per mesi le truppe si sfamarono mangiando la bargutta, che era un miscuglio di granaglie, biade, mangime per quadrupedi e un cereale molto minuto, pestati con le pietre per fame una specie di farina, che veniva impastata e cotta fra sassi roventi e brace. Mancava anche l’acqua (un problema ben più grave) perché i due fiumiciattoli più vicini – l’Arnò-Guamò e il Gumerà – si trovavano su una direttrice controllata dalle forze nemiche: ogni tentativo di rifornimento comportava perdite in vite umane.

La guerra in Africa aveva preso una piega pessima per le nostre forze armate. Gli inglesi erano numericamente superiori, e disponevano di molti più mezzi, più affidabili e moderni. Avendo il pieno controllo del Canale di Suez impedivano che giungessero i necessari rifornimenti alle nostre truppe. L’Amb Alagi era caduta (con l’onore delle armi) e il presidio di Gondar era difeso ormai soltanto dagli uomini asserragliati nel valico. di Culqualbet. Il caposaldo di Gondar era al comando del generale Guglielmo Nasi, che aveva organizzato i presidi che – nel raggio di 50-80 chilometri – erano chiamati a difendere la posizione: l’Uolchefit sulla direttrice di Asmara (già caduto in mano nemica); Celga Blagir e Tucul Denghià sulle direttrici occidentale e nord-occidentale; Culqualber sulla via di Debra Tabor, nella zona dell’Amhara. Proprio quest’ultimo presidio era il più importante strategicamente, perché garantiva il controllo della riva nord-orientale del lago Tana e della piana di Ouramba, l’unica via che garantisse ancora un minimo di rifornimenti.

Da un punto di vista militare, la zona era adatta alla difesa, per le sue caratteristiche orografiche: una serie di alture irregolari, intersecate da profondi burroni, che offrivano uno sbarramento naturale. Il presidio era sotto il comando del colonnello Augusto Ugolini. Il 6 agosto, Ugolini ottenne i rinforzi: il 1° Gruppo Carabinieri Mobilitato che aveva combattuto (distinguendosi per il valore) sulle alture di Blagir e dell’Ineet Amba. Il Gruppo fu destinato al Costone dei Roccioni, un’altura che si affacciava (a strapiombo) sulla rotabile verso Gondar, ma guardava anche al versante sud, in direzione di Debra Tabor. Appena insediati, i carabinieri dovettero dedicarsi alla faticosa opera di fortificazione, trasportando (dai dirupi sottostanti) pesanti tronchi d’albero, e creando trincee e barricate.

Dai giorni immediatamente successivi, le vedette comunicarono l’arrivo di rinforzi nelle file del nemico, che avevano di fatto accerchiato e isolato Culqualber. Per alleggerire la pressione, il colonnello Ugolini ordinò – a più riprese – puntate offensive, dettate anche dall’esigenza di sopperire alla mancanza di vettovagliamento. A metà ottobre, una di queste offensive permise di conquistare Larnbà Mariarn, dove i nostri soldati recuperarono viveri e acqua. I carabinieri si distinsero in modo particolare in queste azioni, anche per merito del maggiore Alfredo Serranti. Ci fu una controffensiva inglese, ma i Carabinieri riuscirono a respingere il nemico.

Per l’operazione di Lambà Mariam, i Carabinieri furono premiati con la Menzione onorevole nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze Armate, che diede atto della brillante vittoria riportata in condizioni estremamente delicate, con lievi perdite nostre (36 caduti e 31 feriti), ma gravi per il nemico. L’efficace operazione consentì al caposaldo di Culqualber un temporaneo respiro dalla pressione avversaria; inoltre, il bottino di viveri migliorò per diverso tempo il razionamento e rese con ciò possibile l’ulteriore resistenza.

Ma la tregua fu di breve durata. Nei giorni successivi affluirono reparti corazzati e rinforzi nemici d’ogni genere, nonché decine di migliaia di irregolari al comando di ufficiali britannici. Cominciarono allora i lanci di manifestini e le insistenti intimazioni di resa, intervallate da formidabili concentramenti d’artiglieria e da bombardamenti aerei. Il nostro Comando respinse orgogliosamente tutte le offerte di resa. Dal 21 ottobre il nemico mise in continua azione tutti i mezzi offensivi. Nessun movimento fu più possibile in superficie; di notte il terreno veniva spazzato con tiri predisposti; di giorno diventava implacabile il martellamento aereo.

Il 2 novembre fu distrutto l’ospedaletto da campo e fu sconvolto il cimitero. Tre giorni più tardi un poderoso attacco si infranse sugli spalti meridionali del caposaldo, specie ad opera della 1° Compagnia Carabinieri, alla quale il Comandante della difesa tributò un meritato encomio.

Il 12 novembre il  Gruppo Carabinieri era in linea, nelle posizioni chiave della difesa: sul fronte Sud, con la 1° Compagnia, e sul fronte Nord, con la 2° Compagnia e la Compagnia Zaptiè. La notte ebbe inizio la battaglia che – pur apparendo disperata – si concluse con la ritirata del nemico: carabinieri e zaptiè opposero un argine insormontabile proprio sul Costone dei Roccioni, attraverso il quale l’avversario sperava di penetrare nel caposaldo. E ai soldati giunse un secondo caloroso encomio: «Contro forze dieci volte superiori per numero e per armamento che l’attaccavano violentemente per undici ore, reagiva con aggressività, sangue freddo, illimitato coraggio, riuscendo vittoriosa nell’impari lotta». Nei giorni seguenti gli attacchi inglesi si infittirono, indebolendo una difesa comunque precaria.

Dal giorno 18 novembre l’azione aerea avversaria assunse proporzioni insostenibili. Squadriglie di ogni tipo si alternavano senza sosta, attaccavano in picchiata, spazzavano tutto in superficie. Ben nove aerei furono abbattuti dal tiro delle mitragliatrici. Ormai i difensori vivevano esclusivamente nei camminamenti ed in trincea, da cui uscivano solo per i contrassalti.

Nella giornata del 20 novembre 41 velivoli avversari presero letteralmente d’assalto gli elementi difensivi del caposaldo. Lo schieramento nemico era potenziato ulteriormente. Alle 3 del mattino del giorno successivo l’offensiva si scatenò con rabbiosa risolutezza. Il caposaldo fu contemporaneamente investito da Nord, da Sud e perfino dalle impervie provenienze da Est, e da non meno di 20mila assalitori delle più svariate unità. I carri armati precedevano le schiere per aprire varchi, gli aerei spezzonavano e mitragliavano, artiglierie e bombarde lanciavano proiettili con ritmo vertiginoso. I punti nevralgici della battaglia furono proprio i Roccioni affidati alla difesa dei carabinieri e degli zaptiè, che non abbandonarono neppure un palmo di terreno, fino a quando, attaccati da tergo dal nemico ormai padrone del caposaldo, furono sopraffatti.

Il maggiore Serranti (ferito gravemente) rifiutò di farsi medicare, per restare al suo posto e incitare gli uomini. E i carabinieri – piuttosto che cedere – affrontarono la morte. Come gli Spartani alle Termopili. Il Costone dei Roccioni divenne così la “via dei cadaveri”. Al maggiore Serranti fu attribuita la Medaglia d’Oro alla Memoria e la Bandiera dell’Arma fu insignita di un’altra Medaglia d’Oro per l’eroico comportamento del battaglione che «deciso al sacrificio supremo, si saldava graniticamente agli spalti difensivi e li contendeva al soverchiante avversario in sanguinosa impari lotta corpo a corpo nella quale comandante e carabinieri, fusi in un solo eroico blocco simbolico delle virtù italiche, immolavano la vita perpetuando le gloriose tradizioni dell’Arma» .

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