Introduzione della Redazione: l’articolo pubblicato di seguito è il primo articolo, a firma del direttore Pino Rauti, del num. 8-9 (sett.-dic. 1974) della rivista Civiltà, numero dedicato interamente a Julius Evola, scomparso nel giugno di quell’anno. A questo articolo, significativo per comprendere l’influenza di Evola nella c.d. “destra radicale” del dopo-guerra, farà seguito la ripubblicazione integrale di tutti gli altri scritti – approfondimenti, interviste, memorie dell’uomo – apparsi sul numero. Iniziativa che, come RigenerAzione Evola riteniamo doverosa, per rendere omaggio tanto alla rivista Civiltà, veicolo del messaggio della Tradizione, in continuità con “Ordine Nuovo”, quanto a Julius Evola, rendendone vivo – riproponendone i commiati – il ricordo e la funzione, oggi quanto mai, di bandiera, di guida per il domani.
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di Pino Rauti
(tratto da Civiltà, anno II, num. 8-9, Speciale Evola, sett.-dic. 1974)
Quasi sei mesi sono trascorsi dalla morte di Evola e in tutto questo periodo quello che non ha cessato di confortarci è stata l’eco della sua scomparsa. Potremmo riempire tutto questo numero della nostra Rivista, – che ad Evola è interamente dedicato, un’iniziativa che vuole essere più, molto di più, di un semplice atto di omaggio – con le sole citazioni di quello che su Evola è stato scritto nei mesi scorsi, ad opera delle più varie pubblicazioni del nostro mondo umano, culturale e politico, sia in Italia che all’estero. Degli avversari, in questa sede ed in questa occasione, non parliamo: sono stati più che mai “all’altezza – per dirla con Bossuet – della loro bassezza”, della loro congenita miseria morale e intellettuale, del loro fisiologico cretinismo. Ma su quello che è avvenuto nel nostro “ambiente”, invece, mette conto di insistere, perché è stato sintomatico, perché è importante, perché ha fornito intera la misura di una “penetrazione ideale” che può servire anche – mentre incalzano i tempi di una lotta politica sempre più dura, aspra, oggettivamente pre-rivoluzionaria – da orientamento per il futuro. Di Evola, hanno parlato, hanno scritto moltissimi, ed in questi pochi mesi ce n’è giunta in Redazione una documentazione impressionante: da certi rotocalchi francesi a vasta diffusione a taluni “fogli” ciclostilati che perfino in Svizzera si rifanno alle tesi evoliane; e questo senza dire di tutte le Riviste e giornali nostri nelle varie lingue. In Italia è accaduto lo stesso:oltre ai giornali ed alle Riviste di destra, il nome, l’insegnamento di Evola, sono stati ricordati con rispetto ed affetto nelle più varie pubblicazioni locali, fino a quei coraggiosi bollettini locali che tengono bravamente la prima linea delle nostre idee. Abbiamo letto di Evola in un foglio della CISNAL della Campania e in un’ottima pubblicazione a ciclostile dei giovani missini di Pisa, tanto per fare due soli esempi.
Facciamo pure la tara, doverosa e onesta, per quanto, in un simile “concerto” è naturalmente dovuto al fatto “morte“, al semplice episodio della scomparsa fisica di un pensatore e di uno scrittore che in questi anni, a destra, ha disseminato a piene mani libri e saggi e articoli; ne resta pur sempre moltissimo per meditare e far meditare.
Nonostante ogni sforzo, per molti anni di questo dopoguerra Julius Evola era parso pur sempre un “isolato”. Sembrava che su di lui pesasse, ancora e sempre, quel “marchio” di astrattezza e di sofisticato intellettualismo che lo aveva accompagnato per tutto l’arco del Ventennio fascista; pareva che gli alitasse intorno quello stesso, insuperabile “alone di incomunicabilità” che lo aveva relegato, allora, ai margini quando non addirittura fuori della cultura cosiddetta “ufficiale”.
Parliamoci chiaro, e diciamo le cose come stanno. Gli imbecilli non mancano neppure nelle nostre file; anzi, si può dire che sono talvolta i più rumorosi tra noi, e i più apparentemente dinamici e verbosi. E se, prima, l’ostracismo ad Evola era durato un ventennio, adesso è da trent’anni che lo si è tentato, attuato e portato avanti, con la terribile costanza che hanno le mezze tacche intellettuali quando debbono “rosicchiare” qualcuno, qualcosa, più grande di loro.
Certo, l’errore fatto al riguardo nel Ventennio fu grande, è stato davvero clamoroso. Noi non esiteremmo a segnalarlo, come tra i maggiori commessi allora, e fra i più gravidi di conseguenze negative anche lontanissime – ma solo a prima vista, solo alla solita vista miope e mediocre, che non sa mai cogliere i legami inscindibili tra i fatti e le idee – da quel piano meramente culturale su cui oggi ci è facile annotarlo. Ci fanno ridere, o sorridere, gli avversari cheparlano di “errori” del fascismo; non sanno nep-pure quel che si dicono, dal nostro, davvero nostro, punto di vista. A costo di scandalizzarli ancora una volta (e di aumentare di chissà quanti e quali pagine il già ponderoso “dossier” che ci riguarda e che zelanti magistrati democratici e antifascisti stanno continuando a tenere in bella evidenza), ecco che lo scrivente, di quegli “errori” uno ne ammette ufficialmente: appunto, di non aver fatto del pensiero politico evoliano non tanto la “dottrina del regime” quanto, e soprattutto, di non averne fatto il vessillo della seconda guerra mondiale, per come andava proposta alla gioventù di tutta Europa.
Perché c’era, nelle tesi evoliane – ovviamente sfrondate dall’attualismo meramente pubblicistico degli articoli più legati alla contingenza – c’era, intendiamo, nella sostanza del sua pensiero, nel suo possente corpus ideologico-dottrinario, nella forza educatrice e fascinante del suo richiamo alle Tradizioni più alte e più nobili di tutto il nostro Continente, c’era il supporto solidissimo – e infrangibile – per le dimensioni meta-politiche, addirittura metafisiche di quel conflitto. A cosa sarebbe servito, in pratica? Sarebbe stato, davvero, importante? Ecco, a costo di scandalizzare ancora, chi scrive è convinto che sarebbe stato enormemente importante; forse addirittura decisivo. Una maggiore diffusione del pensiero evoliano (non diciamo egemone, non diciamo neppure preminente, ma soltanto adeguata al suo intrinseco peso specifico nei confronti di altri filoni culturali del Fascismo che,non meritandolo, andarono tuttavia per la maggiore) avrebbe dato ben altra solidità allo Stato, ben altra incisività e lucidità alla battaglia di quel Regime, e si sarebbe naturalmente trasfusa anche nelle vicende belliche. Nessuno è ancora riuscito a togliere dalla testa a chi scrive, che proprio quegli errori di impostazione culturale, proprio quelle deficienze – in una con la facilità di esprimersi e di articolarsi che essi crearono a forze reazionarie, oscure e sovversive – ci condussero ad avere uno strumento bellico largamente inadeguato, venuto che fu il momento della disperata tensione bellica, degli sforzi supremi e delle scelte di fondo.
Ad esempio, per capirci: per la nostra guerra, guerra in Mediterraneo, nel Medio Oriente, nei grandi spazi del Nord Africa e dell’Africa Centrale, avevamo bisogno di uno strumento bellico basato sull’aviazione e sulla Marina, con un esercito “coordinato” ai primi due fattori e costituito essenzialmente da paracadutisti, reparti da sbarco, forze integrate motocorazzate; e invece, quella cultura ci dette quello Stato Maggiore: lo Stato Maggiore badogliano, di stampo “piemontese”, ancora legato agli schemi delle masse umane e della guerra di trincea del ’15-’18. Di più: uno Stato Maggiore “massonico” che al fascismo ed al suo regime pensò sempre in termini di potenziale alternativa di potere, come si vide il 25 luglio e l’8 settembre del 1943. E ancora; avevamo una sola possibilità di vincere quella guerra: trasformandola subito in guerra dell’Europa e mobilitando tutte le energie del Vecchio Continente contro i “blocchi” sovietico e statunitense che ci si stavano serrando addosso, prima che la loro brutale superiorità in materie prime e mezzi materiali potesse avere il tempo di organizzarsi, di condensarsi. Anche a questo scopo, fuor dai piccoli schemi solamente “patriottici” che poi condussero paro paro all’impostazione suicida delle “guerre parallele” perfino tra Italia e Germania, e vellicarono il “particolare” di ogni altra Nazione europea – anche a questo scopo, sarebbe egregiamente servita una più decisa assunzione del pensiero evoliano proprio in ciò che esso aveva di altamente evocatore della tradizione organica e unitaria dell’Europa: imperiale e gerarchica, spirituale e ghibellina, eroica, ascetica e aristocratica, tutta centrata sui valori del metafisico e del sovrasensibile.In sintesi: se ci fossero stati, allora, più giovani “evoliani”, in Italia, e fuori, li avremmo avuti tutti, certissimamente e sino alla fine, nei reparti d’assalto europei; non li avremmo davvero visti, come invece accadde a tanti, alzare le mani alle prime ritirate, crollare alle prime fluttuazioni del fronte, arrendersi più o meno ignominiosamente e poi magari finire, come è pure avvenuto massicciamente, nelle file delle varie intellighentie demo-liberali o marxiste. E non si creda che stiamo, in qualche modo, divagando; siamo esattamente al punto, alla per noi fondamentale, essenziale, sempre valida esigenza,di premettere a ogni battaglia, contemporanea – in borghese o in divisa, politica o militare – i più solidi, limpidi, lucidi riferimenti d’ordine etico-dottrinario. Altrimenti, si costruisce sulla sabbia o, per quanto ci si affanni, secondo il malvezzo nostrano di far retorica, gesticolare e far scena non si costruisce affatto.
Ma se l’ostracismo dato allora ad Evola – in quanto pensiero “essenziale” sullo Stato, su un certo ventaglio di ipotesi costituzionali da discutere e realizzare per le tipologie dei regimi degli Anni Trenta europei, sui punti di riferimento “supernazionali” da far valere miticamente, alla Sorel, per tutto il Vecchio Continente – in fondo si comprende (pur se non si giustifica) avuto riguardo al livello medio culturale di allora nel nostro campo e alle pesanti ipoteche dell’Ottocento che, ancora così prossimo, vi spadroneggiava in termini dottrinari; che dire del trentennio successivo?
Molti del nostro ambiente sono dovuti arrivare al 1969, alla “contestazione globale”, alla critica dilagante al consumismo, alle piazze nereggianti di giovani, soprattutto studenti, per tornare ad afferrare nei suoi contorni precisi come e quanto può valere un mito di battaglia; amara constatazione da farsi, visto che proprio essa era stata la motivazione psicologica più proficua acquisita, tra il Venti e il Trenta, in tutta Europa, dalla destra rivoluzionaria.
Sorprendente a constatarsi, addirittura scandaloso – ma solo per i “praticoni”, per i professionisti “burocratici” del far politica, oltre che per gli ignoranti belli e buoni che non avevano letto un prima né dopo il 1945 – sorprendente e scandaloso, dunque: le università, le piazze, città intere entrarono in febbrili convulsioni perché, per anni e anni quelle tossine sovversive erano state accuratamente diffuse per ogni dove da centinaia di riviste, da migliaia, diecine di migliaia di fogli, foglietti, opuscoli, dispense e libri. E i nomi che stavano dietro tutto ciò? Erano di filosofi e di pensatori, tipo Adorno e Horckeimer, e soprattutto tipo Marcuse.
Sì, lo sappiamo benissimo che, dietro la “contestazione” c’erano anche un’infinità di altre cose;gli innumerevoli «apparati» dell’imperialismo sovietico, la sua multiforme spinta espansionistica, immensi mezzi che da quella costante pressione dipendono e sono lanciati e rilanciati senza sosta a trasformare in breccia ogni fessura che si apra nel mondo occidentale, nella “trama” della sua vita sociale, civile e culturale; e sappiamo anche che, sempre dietro le quinte, andando di pari passo con l’estremismo piazzaiolo e barricadiero, si sono articolati i minacciosi tentacoli del terrorismo neo-anarchista e maoista che, specie in Italia – ma anche in Francia, in Germania, in Belgio – hanno insanguinato la lotta politica di questi anni, a cura specifica – questo è il nostro parere – di appositi servizi speciali russi e tedesco-orientali; ma nonostante tutto questo, non sottovalutiamo affatto il dato culturale, la dimensione propriamente culturale di quello che è accaduto.
Nell’epoca moderna, fortemente ideologizzata, vale più che mai l’espressione di Napoleone, secondo la quale le rivoluzioni sono delle idee che trovano delle baionette. Quali che siano i mezzi “tecnici” entrati in scena e in azione, o rimasti dietro le quinte a fornire i necessari supporti organizzativi, vi è pur sempre bisogno, in questi nostri tempi, di un supporto ideale, di una base culturale. Ebbene, a destra, per una destra che avesse voluto e avesse saputo uscire dagli schemi un po’ routiniers della lotta politica per come si era venuta determinando un po’ in tutto l’Occidente nel corso degli anni ’50 e per buona parte del decennio successivo – gli anni dei “miracoli economici”, del consumismo fine a se stesso, delle illusioni sullo sviluppo indefinito da avvolgere nella bambagia del neo-capitalismo – a destra, dunque, c’era un pensatore, uno scrittore, un ideologo, che avrebbe potuto fornire tutte le armi ideali occorrenti, tutta l’architettura dottrinaria che era necessaria, almeno come punto di partenza o di riferimento.
Evola, appunto; inchiodato sul suo letto sin dal 1945 ma ancora incredibilmente “vitale” ed attivo oltre la parziale paralisi del suo corpo ferito e piegato per sempre da una bomba sovietica a Vienna. Singolare tipo di “filosofo”, di pensatore, di ideologo, che veniva a noi direttamente dalle trincee della seconda guerra mondiale, e che ben avrebbe potuto diventare – ancora vivente – un “mito”, se non altro per il suo impegno nel conflitto. Perché i “miti” degli altri, in fondo, a guardarli da vicino, cos’erano, cos’erano stati, da dove erano venuti? Intellettuali della specie più libresca, e “impegnati”, al massimo, nelle apostrofi e nelle invettive comiziali, si erano comodamente auto-distillati nelle biblioteche di asettiche Fondazioni, magari neocapitalistiche, all’ombra della stessa società che andavano a contestare e a far contestare, anzi nelle sue “pieghe” più confortevoli e ben retribuite, balzati sulla crosta dell’onda rossa ma tutti onusti di stipendi e diarie, gettoni di presenza e diritti d’autore, ampiamente rimpannucciati dagli introiti delle interviste a giornali, radio e Tv dell’odiato Occidente. Strani «profeti» dell’estremismo rivoluzionario, che quando si spostano viaggiano solo nelle prime classi degli aerei, scendono solo negli alberghi più lussuosi, a contatto di gomito con industriali e finanzieri, anch’essi “vip”, come quelli che più frequentano, naturalmente contestandoli.
Colui che poteva diventare il “nostro” profeta, ci veniva direttamente dalle macerie della Vienna assaltata dall’Armata Rossa; ma quasi nessuno, nelle nostre file, sapeva neppure che Evola era stato tra i primi, e tra i pochi, ad accogliere Mussolini quando egli era arrivato in Germania, dopo la spettacolare liberazione sul Gran Sasso adopera di Skorzeny; e che in Germania ci stava da dopo il 25 luglio intento ad un profondo lavoro culturale che lo aveva portato a contatto con gli esponenti più rappresentativi della cultura tradizionale di tutta la nostra Europa, un lavoro iniziato da anni e ancora tutto da scoprire, da riscoprire e valorizzare.
Era stato, il suo, un “itinerario della spirito” (prima e più ancora che della semplice “cultura”) che lo aveva portato a contatto con uomini e ambienti che, in seguito, avrebbero lasciato tracce consistenti e significative nel dramma dell’Europa. Un itinerario affascinante, sul quale sappiamo poco, pochissimo, perché anche con coloro che gli sono stati in questi ultimi anni più vicini, Evola non parlava quasi mai di quelle sue “esperienze”. Eppure, si sapeva, si era via via saputo, che pochi come lui erano riusciti _ per esempio – a penetrare negli ambienti più “segreti” degli Alti Comandi delle SS, là dove si tentava la “europeizzazione” del nazismo e si muovevano le file di disegni politici “strategici” a livello continentale, la cui parte apparente, emergente, era rappresentata dalle diecine e diecine di “Divisioni d’assalto” a reclutamento europeo che cominciarono a dare una “dimensione” diversa alla stessa guerra, dal 1943 in poi; che era stato a lungo, in visita attenta, non da semplice spettatore, nei famosi – e ancor oggi del tutto sconosciuti – “Castelli dell’Ordine”, gli «Ordensburgers» delle Waffen SS, dove i quadri superiori di quei reparti “europei” ricevevano un’istruzione culturale e dottrinaria molto diversa – si potrebbe dire “esoterica”, nel senso di superiore e riservata – da quella stessa ufficiale del nazismo; che aveva incontrato e conosciuto bene tutti i capi e gli esponenti del cosiddetto “fascismo europeo”, da Quisling a Codreanu a Mayol de Lupé.
Codreanu, nella Casa Verde che i suoi “legionari” avevano costruito da soli, al termine della visita gli aveva offerto – dono raro da parte del “Comandante” – un distintivo in oro della Guardia di Ferro, quello che portava come simbolo le sbarre di una prigione. Edi lì a poco, a centinaia, a migliaia finivano in prigione le Camicie Verdi, torturate e massacrate da Re Carol – l’uomo di fiducia delle Logge massoniche di Parigi – mentre lo stesso Codreanu veniva tratto dalla cella solo per essere strangolato in una foresta e gettato in una fossa di calce viva.
Anche Mayel de Lupé era stato tra i suoi interlocutori preferiti; e fu da Evola stesso che apprendemmo qualche avaro particolare – prima ancora di leggerne in alcuni libri francesi -su questo singolare “personaggio”, un Cardinale di Santa Romana Chiesa, forte di un “rescritto” personale di Pio XII, fu il Cappellano militare della “Legione dei Volontari francesi” prima e della Divisione d’assalto “Charlemagne” poi, sul fronte orientale: a torso nudo, sul petto, il mitra e la Croce d’oro e di diamanti insegna del suo alto rango religioso, erede di una delle più illustri famiglie “Vandeane” di Francia, i cui esponenti erano caduti combattendo contro i giacobini, Mayol de Lupé seguì fino all’ultimo le sorti dei suoi reparti, che furono poi tra gli ultimi difensori – insieme a norvegesi e danesi – della Cancelleria di Berlino. Ancora nel maggio del ’45 – altro episodio ignorato – un battaglione di quei francesi raggiunse una isolata zona montuosa dell’Alto Adige, allo sbocco del valico di Resia, e lì si sciolse ordinatamente, defluendo tra le “maglie” dell’occupazione alleata, aiutato in tutti i modi dalla popolazione locale. Il Cardinale de Lupé, messi in salvo gli uomini, andò a battere alla porta di un monastero nascosto tra i boschi, presso Glorenza – che, molti anni dopo, solo per fortuito caso turistico, ritrovammo e visitammo – ancora battagliero e polemico, come era sempre stato sia di fronte ai suoi interlocutori della Curia Romana che di fronte a Himmler; al Priore che, non potendo rifiutare l’asilo a così alto prelato voleva almeno mettersi in pace la coscienza e, già presago dei “dialoghi” che sarebbero venuti, gli rimproverava la sconfitta: “ci hanno schiacciato – rispose secco – le armi degli altri, non le loro idee!”. Poi, si richiuse in preghiera, non volle parlare più con nessuno, e rientrò in Francia, dove, sempre in silenzio, morì qualche anno dopo.
Ecco da dove ci “veniva” Evola, da un ambiente di “giganti”, di autentici atleti dello spirito e della cultura europei, da un mondo drammatico e tormentoso, con vette e abissi da vertigine. Altroché Adorno, altroché Marcuse, altro che la “scuola sociologica” di Francoforte! Ma noi non lo conoscemmo cosi, noi non lo “incontrammo” così. Tutte queste cose, le apprendemmo poi, man mano che ci addentravamo, di pari passo, nello studio dei suoi libri e nell’analisi di certe “dimensioni” ancor oggi sconosciute del secondo conflitto mondiale.
Ci sono stati – anche questo è importante ricordarlo, è significativo in un senso non certamente banale e meramente rievocativo – ci sono stati, dunque, diecine di giovani romani di destra, per lo più studenti, per lo più reduci dalla RSI, che “incontrarono” Evola attraverso i suoi libri, e quei libri lessero nelle celle della prigione romana di Regina Coeli. Infatti, per chissà quale flusso e riflusso della lotta politica, negli anni tra il 1946 e il 1950, nella biblioteca di Regina Coeli, v’erano alcuni libri di Evola. Fu li che molti di noi lo conobbero per la prima volta, tra una detenzione e l’altra. Allora, nelle carceri non imperversava la contestazione sovversiva che vuole i “politici” immersi, come tanti maoisti “pesci nell’acqua” nell’ambiente dei delinquenti comuni, tra ladri, rapinatori,sfruttatori di femmine e simili, assunti e riguardati come “vittime della società”; d’altronde, i politici erano soltanto di destra – all’incirca come sta accadendo adesso – e venivano tenuti separati dagli altri detenuti, in appositi “bracci”. E al famoso, e famigerato, “quarto braccio” di Regina Coeli, dove centinaia di giovani nostri passarono, a rotazione, in quegli anni, alcuni di noi scoprirono per caso che si potevano avere dalla biblioteca alcuni libri mai conosciuti prima. (Poi, nel 1950, anche Evola venne a Regina Coeli, ci venne personalmente; da detenuto, intendo; arrestato – insieme a una quarantina di noi, tra anziani e giovani – per una delle prime applicazioni di quelle “trame nere” che in seguito il regime, passando dalla fase artigiana di allora a quella più industriale di oggi, non avrebbe mai cessato di inscenare ai nostri danni).
Comunque, solo molto tempo dopo aver letto i suoi libri noi – che lo credevamo morto durante la guerra! – eravamo riusciti, casualmente, ad apprendere che, invece, era vivo; paralizzato ma vivo, e addirittura a Roma, al centro di Roma, in una vecchia casa di cui poteva pagare l’affitto solo perché una generosa amica gliela aveva conservata a fitto bloccato; e solo dopo molti mesi di detenzione riuscimmo a rivederlo, portato nell’aula della Corte d’Assise dove si tenevano le udienze del nostro comune processo, perché, date le sue condizioni, era stato tenuto sempre all’infermeria di Regina Coeli.
Non entrò in aula, Evola; vi fu portato a braccia; e poiché in tutto il carcere e neanche a Palazzo di Giustizia era stato possibile reperire una sedia a rotelle o qualche aggeggio simile, nell’aula lo “introdussero” quattro detenuti comuni trasformati in infermieri, che lo trasportarono disteso su un telone. Poi, aiutato, Evola si issò su una sedia, inforcò il suo monocolo e si guardò intorno, con quei suoi occhi straordinari, vivissimi, lucidissimi, quelli stessi che avevano visto gli “Ordensburgers”, i Castelli dell’Ordine della Pomerania, e la rovina di Vienna, e Codreanu e tante, tante cose ancora; e che adesso ispezionavano con divertita curiosità l’aula della 1a Sezione della Corte ,d’Assise di Roma. Ricordo cbe si era offerto di difenderlo – gratuitamente, perché Evola non aveva una lira, esattamente come tutti noi – Carnelutti che, seguito da un codazzo di assistenti, di estimatori, di giovani di studio (tra il pubblico, per Carnelutti che prometteva faville, diecine di signore-bene della Roma salottiera e mondana che, allora, non s’era ancora incanaglita come oggi, e apprezzava questo tipo di processi), pronunciò per il suo cliente una delle sue arringhe più belle, più entusiasmanti. Ma <<anche delle più difficili>> – confessò poi – perché, per difendere bene Evola, da quell’onesto liberale di destra che era, non poteva non parlare anche di noi,delle nostre piccole e scatenate “riviste” di allora; e noi dal box dove ci avevano tolto le manette (<<ma state, dunque, zitti! – ci disse a un certo punto – protestate anche contro di me, che sto tentando di salvarvi!>>) lo interrompevamo, ogni qualvolta ci sembrava che ci “dipingesse”, sia pure per dovere e scrupolo e artifizio di difensore appassionato, meno “ortodossi”, dal punto di vista dottrinario, di quel che a noi importava, nonostante tutto, apparire.
Da allora, da quegli anni, da quelle singolari esperienze, una parte non indifferente – né come numero né come qualità – della gioventù di destra, diventa “evoliana”; nel senso che si rifece alle tesi culturali e dottrinarie di Evola. Non sempre lo fece bene, naturalmente, come accade sempre tra i ventenni; vi furono sciocchezze e ingenuità, rozzezze inutili e riferimenti sbagliati, come pure estremismi del tutto infantili o meramente “giovanilistici” che erano, nella sostanza, agli antipodi di una corretta interpretazione di quelle tesi. Ma chi vorrà scrivere un giorno la vera storia culturale della destra italiana in questo dopoguerra, dovrà ampiamente tener conto di questa singolare “alleanza”: tra la gioventù più accesamente di destra e un pensatore che, invece, durante il Ventennio, non aveva mai avuto i giovani accanto a sé.
Poi – durante e dopo la “contestazione”, i vari “maggi” del ’68 e del ’69 in Francia, in Germania, in Italia – Evola cominciò a diventare il punto di riferimento di ambienti sempre più vasti, non soltanto giovanili e “attivistici”; avvenne, altro fenomeno singolare, che quelle stesse opere che durante il Ventennio erano state pochissimo lette ed anzi erano rimaste quasi del tutto sconosciute intermini di diffusione, conobbero tirature notevoli, crescenti, da migliaia di copie. Ci fu, anzi, a un certo punto, un vero e proprio “boom” di Evola, con la ristampa di tutti, o quasi tutti, i suoi libri; alcuni da grosse case editrici, altri ripresi e stampati addirittura all’insaputa dello stesso autore, con iniziative del tutto “spontanee”, da gruppi giovanili di base e della nostra periferia politica, che cosi volevano rendersele, e renderle, più accessibili.
Ad Evola, aristocratico in tutto, tutto ciò non piaceva molto. Sapeva un po’ di “supermarket”,` di smercio indiscriminato, di consumo di massa; più volte ci pregò di intervenire, e lo facemmo, anche; ma, verso la fine, quando notò che il fenomeno si estendeva a macchia d’olio, non ce ne parlò più. Forse, in fondo, gli faceva piacere scoprire che, per laprima volta e proprio quando ormai sentiva di esser giunto al termine della sua esperienza terrena, avveniva tra le sue “idee” e un pubblico così vasto, così entusiasta, per lo più giovane e ardente e battagliero, quell’incontro che, prima, non si era mai verificato. È stato così che, senza volerlo, senza far nulla in tal senso, forse senza neppure accorgersene nella sua “fissità” da inchiodato tra quattro mura, sempre in quelle stanze, diviso solo tra il letto e lo scrittoio – Evola è diventato un “vessillo” per la destra; per la destra giovane e rivoluzionaria, intendiamo: uno – per dirla con una sua espressione – da «linee di vetta››.
Ma dell’uomo Evola, anche, va detto; e ricordato qui, in questa occasione. Con discrezione e misura, sia pure, per non allontanarci dal suo “stile”, che relegava duramente ai margini tutto quel che aveva attinenza all’«umano, troppo umano››. Solo per annotare che quell’uomo, paralizzato da trenta anni, padroneggiando con volontà davvero superiore, le sue incessanti sofferenze fisiche, ha continuato per trent’anni a scrivere a pensare, a tenere corrispondenza fervida e lucida, a ricevere e a parlare; ad “insegnare”, insomma.
Negli ultimi anni, le sue condizioni si erano aggravate; piaghe dolorose, irriducibili, si erano fatte avanti nella parte paralizzata del suo corpo; ma la lucidità delle idee e la volontà di “fare” ancora qualcosa, di continuare la stessa battaglia, non erano affievolite in lui. E così se n’è andato: chiedendo solo, alla fine, di essere alzato ancora una volta, un’estrema volta; di poter raggiungere ancora quello scrittoio che era diventato da tre decenni la sua trincea ideale, per potervi morire accanto, ma in piedi.
Perché Evola è diventato, oggi, finalmente, così “diffuso”? Perché viene tanto letto e citato, dopo così lunghi periodi di ostracismo, di emarginazione, di incomprensione o addirittura di irrisione?
Anche questo non possiamo non chiedercelo, nel dare alle stampe un numero della nostra Rivista interamente dedicata a lui. E anche qui, dobbiamo parlar chiaro. Perché Evola dà alla destra, mette a disposizione della battaglia politica della destra, quello che essa non ha mai avuto in senso dottrinario, e cioè di compiutamente organico: una concezione dell’uomo e del mondo, una “visione” globale che può diventare, che ha in sé tutti i presupposti per diventare, un “mito” e una bandiera. intendiamoci: Evola ha avuto una “produzione” sterminata: trenta libri, trecento saggi, alcune migliaia di articoli. Aggiungendovi anche l’epistolario e altri scritti comparsi all’estero, inediti in Italia ma pur sempre reperibili, una sua eventuale “opera omnia”, consterebbe di almeno sessanta-settanta volumi: e certamente, in questa congerie immensa bisognerà distinguere quanto fu legata alle varie contingenze e alle stesse “fasi” del suo iter spirituale e culturale. Ma, per quanto ci risulta da lunghe letture, siamo già in grado di affermare che poco, davvero poco, è catalogabile sotto l’etichetta di quel che a ogni pensatore capita di scrivere in termini meramente “giornalistici”, e cioè caduchi. Quand’anche si sia fatta una simile sottrazione, resta pur sempre un’autentica e colossale “miniera” di idee, di tesi, di interpretazioni della storia, di riferimenti al metafisico e al sovrasensibile, di spunti e orientamenti “sociologici” sulla civiltà moderna, sul Medio Evo, sulle dottrine religiose, sui problemi del sesso e del costume moderni, sul mondo indo-ariano, o altre cose ancora che fanno di Evola, a nostro avviso, uno dei più grandi pensatori europei, e non solo di questa nostra epoca ma di tutti i tempi. E basti osservare qui – pur se l’argomento richiederebbe ben altro spazio – che, per esempio, Evola ha scritto sulle religioni antiche e sulla religiosità orientale, sul buddismo e sull’induismo, sulle “tecniche iniziatiche” e sulla magia, sull’alchimia e sulla filosofia antica, migliaia di pagine sulle quali non c’è stato “specialista” e accademico “settoriale”, che abbia potuto trovare una sola imprecisione, un solo errore, una sola superficialità; a dimostrazione di una padronanza assoluta anche di questi specifici argomenti, che ha davvero del prodigioso, e che un giorno troverà certamente critici e analisti più serrati e dotati di noi per dirne come essa merita.
Per quello che attiene al campo, diciamo così – con una immagine che però ci sembra già abbastanza riduttiva – della “coltura politica”, il pensiero evoliano non può non essere definito come il più coerente, il più organico, il più completo mai apparso sulla scena della destra.
Anche qui, un solo esempio tra i tanti, i tantissimi che si potrebbero citare spigolando tra le sue pagine con l’occhio bene attento alla data di uscita delle sue opere; e riprendendo, per concluderlo, il ragionamento già avanzato all’inizio, sul singolare “vuoto” che si causò il Ventennio, ignorando Evola e le sue tesi. Il libro più completo di Evola, dal punto di vista della cultura politica, è: Rivolta contro il mondo moderno.
Ebbene è semplicemente sbalorditivo leggere, oggi, quelle pagine e pensare, meditare, sul fatto che esse comparvero nel 1934, in un anno, cioè, in cui assolutamente nulla lasciava prevedere quel che poi sarebbe accaduto. Il fascismo, allora, era ancora quasi del tutto legato alla sua matrice “patriottica” e reducistica; Hitler e il nazismo erano appena giunti al potere in Germania; il mondo occidentale stentava a riprendersi dal “ciclone” distruttivo scatenato dalla Grande Crisi americana del 1929, e tutta la politica internazionale era dominata dal “nodo” centro-danubiano, che vedeva Italia, Francia e Inghilterra ruotanti attorno ai problemi posti dall’Austria, dall’Ungheria, dalla Iugoslavia. Si era, insomma, in pieno dopo-Versailles, con iniziative, metodi e schemi mentali che, rivisti adesso, sanno tanto di diciannovesimo secolo. Di lì ad un anno, con l’impresa etiopica, tutta la storia europea, e quindi mondiale, avrebbe subìto non solo una brusca accelerazione ma una vera e propria impennata; e tuttavia, pochi – pur tra i maggiori protagonisti – sembra siano stati esattamente coscienti delle forze dirompenti che si sarebbero scatenate entro pocbissiino tempo, fino a scatenarsi nel vortice della seconda guerra mondiale.
Eppure nel libro di Evola – e crediamo davvero di poter aggiungere che ciò avviene solo in quel libro, fra le centinaia di libri di cultura politica che in quel periodo uscirono in tutta Europa – vi è la esatta, lucidissima premonizione di quanto sarebbe accaduto. Come, sempre a titolo esemplificativo, nel capitolo su americanismo e bolscevismo, che può definirsi addirittura profetica. Evola, dunque, previde con precisione assoluta che si sarebbe giunti fatalmente ad una alleanza tra Stati Uniti e Russia Sovietica, anzi aggiunse che quella alleanza era «nella natura delle cose» date le premesse «unitarie» alle quali si ispiravano sia il liberalismo democratico e capitalistico, sia il comunismo sovietico e collettivistico. Un altro scbieramento, un altro “fronte” si andava enucleando in Europa e nel mondo, tra Italia, Germania e Giappone; e tra i due “blocchi” l’abisso era ideale e dottrinario, di concezione dell’uomo e del mondo, appunto. La Russia e gli Stati Uniti, se non battuti, avrebbero formato le due branchie di una stessa tenaglia, destinata a stritolare l’Europa, a farla scomparire non solo come forza politica ma come “portatrice” di un certo modello di società e di civiltà, come “nocciolo” capace di ripetere in forme nuove adeguate ai tempi, moduli di esistenza e di organizzazione socio-politica che si riallacciassero alle sue Tradizioni, spirituali e gerarchiche.
Ma c’era ancora di più, che passò stranamente inosservato, e che – invece – se ben valutato avrebbe potuto essere aggiunto, a rettificare, ad orientare meglio, a rendere più incisive e funzionali le scelte del Regime, sia in politica interna che in politica estera, con i necessari “riflessi” sulla nostra stessa strutturazione militare: la “ripresa” di certi valori tradizionali e spirituali, era in netta antitesi con tutto l’orientamento del mondo contemporaneo, quale si era “costruito” da secoli, e più direttamente dal tempo della Rivoluzione francese; la lotta sarebbe stata aspra, dura, totalitaria; non v’era spazio per compromessi o accordi tattici, se non temporanei; in giuoco erano i destini del mondo e dell’umanità. Solo noi potevamo imprimere una “sterzata rivoluzionaria” all’epoca contemporanea, perché altrimenti, spingendosi alle sue estreme ma logiche conseguenze, affermava Evola «tutta questa civiltà di titani, di metropoli di acciaio e di cemento, di masse poliartiche e tentacolari, di algebre e macchine incatenanti le forze della materia, di dominatori di cieli e di oceani, apparirà come un mondo che oscilla nella sua orbita e volge a disciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi dove non vi è più nessuna luce, fuor da quella sinistra accesa dall’accelerazione della sua stessa caduta».
Sono passati gli anni, sono passati i decenni; e adesso vediamo che quella “tenaglia”; adesso, adesso solo cominciamo a percepire l’infinita serie di “valori” che nella sua stretta sono stati e sono, schiacciati; adesso e solo adesso ci rendiamo conto di quale e quanta “civiltà” – nel senso di capacità dello spirito a padroneggiare,a nobilitare la vita degli uomini e dei popoli – sia andata perduta; verso quali estremi lidi si stia, tutti noi occidentali, navigando e naufragando. Adesso si scoprono i drammi ecologici, come rottura gravissima arrecata all’equilibrio dal delirante sviluppo industriale; si scopre la follia insita nella corsa indefinita del “progresso” scienti-fico e tecnologico; si lanciano gli slogan: tipo «metropoli-megalopoli-necropoli››; si riempiono le librerie con diecine di opere sulla crisi che minaccia di travolgere i “grandi sistemi” contemporanei.
Era stato tutto scritto, tutto previsto nelle sue linee essenziali, tutto “pensato”; e tutto ciò è avvenuto, con decenni di anticipo, sul fronte della cultura di destra.
Per questo non “commemoriamo” banalmente; più semplicemente e veramente confermiamo un impegno di lotta, additando in Evola e nell’essenza della sua opera una bandiera che non è di ieri ma di oggi e di domani.
[Fonte: www.rigenerazionevola.it]